Lezione di ieri: per addentrarsi nelle foreste tropicali senza machete, serve un sentiero.Martedì 03/01/2023 Payahe (Indonesia)Partire subito? Scrivere? Se non scrivo, parto con il fresco, se parto, arrivo stanco e mi addormento subito. Le mutande si devono ancora asciugare, mi sa che è meglio aspettare. Il cocco bevuto ieri è già pieno di formiche, è da buttare. Ne apro un altro per placare un po’ la sete. L’interno lo sgranocchierò lungo la via, verso l’ora di pranzo. Dovrei scrivere, avrei voglia di scrivere, ma è faticoso concentrarsi così tanto. O forse è più allettante telefonare e inviare messaggi perché mi mancano tutti quanti a casa. Magari invece sto diventando indonesiano anch’io, dopo due mesi abbondanti di viaggio. Oppure basterebbe solo che il consolato della Papua Nuova Guinea mi rispondesse, liberandomi dal presentimento di andare fino a Jayapura per niente. È da un mese e mezzo che mando email, ma nessuno mi ha ancora risposto, maledetti.Intanto si sono svegliate delle minuscole vespe nere e anche le api. Adorano me e lo zaino, intrisi come siamo di sali minerali. Disgraziatamente, qui accanto c’è un metro quadro di ragnatela, che non risparmia certo gli insetti incauti. Parecchi piloti vanno a schiantarsi contro le maglie appiccicose della rete e ben pochi riescono a farla franca. Le vespe sono talmente piccole che il ragno le localizza pizzicando le corde della ragnatela e valutandone la risonanza. Aggancia un filo e si cala giù fino alla preda, che praticamente muore sul colpo. È interessantissimo osservare i dettagli della tecnica di caccia, ingrandita di dieci volte rispetto al normale. Anche l’impalcatura di sostegno alla tela è formidabile, dato il peso che sorregge, nonostante il vento. La mattina sarà dedicata a mamma ragno, ho già capito.Improvvisamente, un calabrone nero cade nella trappola, è il momento che aspettavo. Agguanto il telefono per registrare la colluttazione, mentre la matriarca si precipita a prenderlo prima che scappi. Il calabrone ha la cotenna dura e si libererebbe in un paio di secondi, se non avesse già quattro zampe addosso. Il ragno lo manipola e tenta di morderlo, una goccia di liquido verdognolo scivola sulla cuticola cornea del calabrone, ancora vivo e battagliero. Non è affatto invischiato nella seta e appena riesce a divincolarsi schizza via dalla tela. Sarebbe stato un pasto decisamente sostanzioso, peccato. La matriarca torna al proprio posto, ripulendosi le zampe, mentre gli altri ragnetti approfittano di qualche insettino appena catturato.Basta, si sta facendo tardi, è ora di rimpinguare le scorte d’acqua e ripartire. Si dà il caso che dietro al capanno ci siano due vecchi barili, per raccogliere l’acqua piovana. Probabilmente quell’acqua serve per l’igiene personale, infatti posso confermare che funziona bene. Suppongo che il proprietario non la beva, non essendo attrezzato come me con un filtro. È stata decisamente una buona idea fermarsi qui, per saldare il debito d’acqua.Ritorno sui miei passi quando il sole è ormai alto, zigzagando giù per la strada in cerca dell’ombra degli alberi. Passeggio come un nobiluomo ottocentesco, impugnando la punta del bastone di noce moscata come se avesse un pomello. Praticamente zoppico, perché è decisamente corto. Oltre il guardrail sono stati piantati degli alberi di cacao, pieni di vecchi frutti sgretolati. Non sono i frutti a interessarmi, ma piuttosto i polloni, lunghi e dritti. Basta una breve ispezione per individuarne uno di ottima fattura e del diametro giusto. Diventa mio in un baleno, riprendo lo zaino e continuo la discesa, impugnando il mio nuovo caduceo. È decisamente troppo lungo, ma sono molto indeciso se tagliarlo alla base o in cima. Lo accorcerò pian piano, aspettando che stagioni un minimo. Gongolo, malgrado il caldo, pensando all’invidia tremenda di ogni europeo per questo bastone di cacao. Chi non vorrebbe passeggiare con in mano l’albero del cioccolato? Consolatevi però, il legno di cacao è decisamente troppo tenero, non è per niente adatto a passeggiare.In fondo alla discesa, faccio una sosta per asciugarmi, seduto su un muretto. La vista è incredibile, spalacata sulla foresta primaria. Si sono fermati qui anche tre uomini in macchina, così l’intrattenimento non manca. Mi offrono un passaggio almeno cinque volte, prima di comprendere che sono proprio intenzionato a proseguire utilizzando le mie appendici inferiori. Sono simpatici, è piacevole fare quattro chiacchiere con chi apprezza la vista della foresta. Gli faccio provare il binocolo, che da queste parti non ha mercato. Poco dopo, si ferma una moto con a bordo una famiglia. Sono in tre, neanche tanti per una moto sola. Vogliono scattare qualche foto ricordo, e già che ci sono danno un’occhiata attraverso il binocolo. Atin, la mamma, guarda solo per un attimo perché dice di avere un po’ di vertigini. Un attimo prima di ripartire, la piccola Kina sussurra qualcosa al padre Asril, che annuisce compiaciuto. Kina si avvicina di nuovo e mi offre due Big Babol. Ne prendo una, con un grande sorriso, estasiato ancora una volta dalla generosità innata di questo popolo.Strada facendo, sgranocchio l’ultimo cocco di capodanno e ispeziono ogni albero, in cerca d’acqua. Ogni piccola coltivazione ha la sua scorta di palme da cocco, così chi ci lavora ha qualche bevanda extra. Ecco infatti una palma, così bassa da poter allungare la mano e cogliere le noci. Ne sgraffigno una.Un chilometro dopo, trovo la palma che cercavo. È circondata dall’erba alta, con delle vecchie noci sul punto di precipitare, accanto ad un tratto di foresta bruciata. Nessuno viene qui da un bel pezzo e quella palma è decisamente senza padrone. Appoggio le vettovaglie sotto una tettoia poco più avanti e corro a procurarmi l’oro verde. La palma non è alta ed è pure inclinata, ma dopo due giorni di acqua e cocco issarsi non è per niente semplice.Con enorme soddisfazione, pochi minuti dopo scendo a raccogliere il pesante bottino, due grosse noci rutilanti. La buccia verde è opaca, luccica solo ai miei occhi.Il papà mi aveva raccontato di quando ha scoperto le noci di cocco fresche, in viaggio di nozze alle Cook. Quando ero a Mompracem mi ha raccontato che ne avrebbe mangiate un quintale, ma io non avevo capito. È vero, le noci di cocco verdi sono una droga. Per decisione personale le mangio solo quando sono gratis, perciò riesco a limitarmi. Circa. Facciamo che ne bevo un paio e la terza la sbuccio e basta, per dopo. Le noci di cocco verdi sono un po’ delicate da sbucciare, ma costituiscono un contenitore geniale per l’acqua da bere. In fondo, ugnuna è mezzo litro d’acqua racchiuso da pochi millimetri di legno, ottimale per il trasporto. Inoltre quelle mature al punto giusto sono rivestite di una deliziosa polpa bianca, che si taglia con un cucchiaio. Sarebbe ottimale mangiare prima e bere dopo, ma bisogna necessariamente procedere nell’ordine opposto. Per questo una noce tira l’altra, è terribile. Come se non bastasse, riuscire a raccoglierle da sé è fonte di orgoglio smisurato e fa sudare sette camicie. Perciò chi le raccoglie beve il doppio e se non mangia la polpa gode solo a metà.Una volta sazio, alzo lo sguardo al tetto. Su una trave, c’è una scritta fatta con un carboncino: “YANG BACA BABI”. Scoppio a ridere, c’è scritto che “Chi legge è un maiale”. Deve essere la versione indonesiana di “Scemo chi legge”, ma non suona affatto offensiva a me, che sono fatto di maiale. Mi torna in mente la Manganaro, la prof di italiano e latino, quando raccontava delle pesantissime offese che Achille rivolse ad Agamennone. “Faccia di cane e cuore di cervo!” Parole gravi, imperdonabili, insolentissime, proprio come quelle che sto leggendo ora. Devo assolutamente scattare una foto da mostrare agli emiliani, va messa in quadro.Strada facendo, molti si fermano a chiedermi se mi serve un passaggio. Il più entusiasta è Fai, che ha circa la mia età e porta due occhiali tondi che gli conferiscono uno stile particolare. Ci scambiamo i contatti per incontrarci di nuovo domani a Weda. Ormai sono arrivato alla svolta per il lago. Alla mia destra c’è una zona piena di piante acquatiche, buon segno. Passo davanti a due giovani perdigiorno accovacciati a bordo strada e ne approfitto per chiedere indicazioni sulla svolta da prendere. Non hanno idea di quale lago io stia parlando, indicano la palude che ho appena superato. Perchè giustamente ci sono passato accanto e non l’ho vista, certo. Per non risultare offensivo mi allontano senza neanche ribattere. Hanno passato vent’anni della propria vita fermi lì, magari non sanno di avere un lago trecento metri dietro casa. È lontano, mistèr, non è che possono anche esplorare i dintorni, sono indonesiani! Colpa mia che non ci ho pensato. Prima che qualcuno mi veda e mi fermi, svolto a sinistra su una strada carraia, che presto si rivela quella giusta. Un ponte crollato non è certo un grosso ostacolo per superare un fiumiciattolo. Basta non perdersi d’animo nel risalire l’argine opposto.La mia passione per i laghi mi mette le ali ai piedi, così proseguo con solerzia attraverso i campi piantumati a banani. Temevo che il lago fosse una meta turistica, ma date le condizioni della strada, sono certo che questo rischio sia scongiurato. La carraia è diventata un sentiero, appena visibile tra l’erba alta.A un tratto, passo accanto ad un bastone con legato un grosso frutto del pane, dalla buccia puntuta. Evidentemente il contadino è qui nel palmeto, meglio proseguire con circospezione. In realtà, io più che un ladro sembro un alieno, la circospezione serve solo ad accorgermi di essere osservato, nel caso.Finalmente, nella calura del pomeriggio, ecco il lago! C’è una casetta blu costruita dalla compagnia che gestisce l’impianto blu che ho visto sulla strada. È chiusa a chiave e abbandonata, ma un po’ troppo in vista. Mi sposto più in là, sul rudere di un’altra casupola di legno. È fatta, sono arrivato, è un posto stupendo. Fare il giro del lago a piedi è complesso a causa dei rampicati che strisciano a terra, ma qui sulla riva è ormeggiata una zattera. Non credo ai miei occhi, non ho mai visto un lago così ben attrezzato. I natanti incustoditi sono un tipo di attrezzatura veramente singolare, che i Palla apprezzano oltre misura. Lo userò domattina, per ora aspetto di restare del tutto solo.Il sole tramonta e colora di rosa le nuvole, che si riflettono sulla superficie del laghetto placido. Mentre si leva già il potente gracidio di parecchie rane, un paio di buceri attraversano il cielo, ansimando forte. È qui, al calare delle tenebre, che si scatena l’inferno. Durante il viaggio ho visto molto di peggio, ma siciramente l’esercito delle zanzare questa sera attacca in forze. Mi ritiro in amaca, dentro la zanzariera e avvolto nel telo azzurro antizanzare. Non basta, dopo un’ora ho già i gomiti a bolle. Per fortuna la temperatura è calata, è il caso di rompere l’assedio e infilarmi la giacca. Già che ci sono bisogna che cucini qualcosa, altrimenti domani non cammino da nessuna parte. Cucinare a legna è perfetto, tiene lontane le zanzare.Avevo già preparato tutto, in un attimo accendo e mi siedo ad attizzare il fornelletto. Le maledette, infischiandosene del fumo, mi pungono attraverso le calze e anche sul sedere, tanto che mi tocca infilare il costume da bagno e le scarpe. Ora va meglio, gli assalti si infrangono contro una barriera impenetrabile. Stasera per cena la cambusa offre riso alla laotiana, cioè condito con noodles, uova e povertà. Niente uova questa volta, ma ho ancora i gamberetti secchi comprati a Kuala Besut, in Malesia. I peperoncini di Bangkok invece hanno fatto la muffa ormai, me ne sbarazzerò a Weda.Distratto come sono dai culicidi, trascuro il povero riso, che cuoce malamente. Il sapore però è appetitoso, trangugio tutto e mi lancio di nuovo in amaca, al sicuro.Non scrivo per niente e a causa della cena sostanziosa mi tocca uscire per un bisogno improvviso ancora prima che sorga il sole. Non è certo un’esperienza indolore, ma la furia delle zanzare la rende molto rapida.