Le ultime settimane sono state tragiche dal punto di vista della scrittura, ma il tempo stringe per raggiungere la Nuova Zelanda entro la fine dell’anno. (Niente Australia, l’itinerario è cambiato questo inverno durante il secondo giorno a Dazkırı)
Adesso ho in programma un paio di giorni di spiaggia, così da rimettermi un po’ in carreggiata.
Lezione di ieri: se insistono perché resti, probabilmente c’è un buon motivo.
Lunedì 11/07/2022 Pangboche (Solukhumbu, Nepal)
Alzo la testa e l’Ama Dablam è lì che mi guarda, ricordandomi che ci sono altre cime da ammirare e oggi è arrivato il momento di partire.
Mentre Zomba affumica la casa, svuoto lo zaino e lo riempio di nuovo, ora è decisamente più compatto e posso anche rimettere dentro una delle due borracce. Solo ora mi rendo conto di non aver visto passare una delle tre saponette e anche una busta di medicine. Tutto quello che posso fare è perlustrare a fondo il letto, perché ciò che non è qui è rimasto indietro. La saponetta probabilmente è rimasta là prima di Namche dove mi sono lavato i capelli. Poco male, ci ripasserò. Le medicine invece sono bianche e mi sembra molto difficile averle perse di vista, spero che siano incastrate nella piega in fondo allo zaino.
Torno in cucina e mi siedo nella zona di aria respirabile, mentre Kami Doma mi versa una tazza di tè. Mi guarda e ride, qui si ride sempre. Capita spesso che lei e Zomba brontolino tra loro, facendosi gesti di stizza l’uno con l’altro. Subito dopo si accorgono che io li sto fissando e scoppiamo tutti a ridere. I suonatori di corno che ieri facevano le pernacchie nel tempio sono emblematici dell’atmosfera carnevalesca che c’è quassù.
Per colazione stamattina niente funghi, accetto molto volentieri la proposta di assaggiare una pietanza prelibata chiamata zamba puris (tsamba puris). Di fatto è il pane dei poveri, semplice farina tostata da amalgamare con acqua e zucchero. Per come la vedo io si tratta invece di bsisa non speziata che sarà ottima con il mio olio di girasole, specialmente in vista della camminata che mi aspetta. Procedo con la preparazione, sotto lo sguardo perplesso di Zomba che vorrebbe aggiungere almeno un pochino d’acqua.
Faccio un giro giù al tempio a salutare e ringraziare tutti, poi torno da Zomba insieme a Lee, che ho interrotto mentre stava pregando. Ormai l’ho interrotto, prendo il bastone e risaliamo. “Sarebbe quello il tuo bastone?” Me l’ha chiesto come se avesse appena scoperto che ho una gamba di legno. “Mi dispiace per te, ti posso lasciare le mie bacchette, tanto ormai devo solo scendere e non mi servono più.” Occorrono in fretta delle spiegazioni perché la realtà è ben diversa da quello che immagina. Io a casa ce l’ho una bacchetta per camminare, ma mi disturba quella vibrazione metallica che fa ogni volta che picchia per terra. Questa è la ragione principale per cui non la uso più, mentre l’altra della coppia ha perso il puntale ed è andata in pensione da tempo. Inoltre, come si sarà capito, tendo a dimenticare il bastone da passeggio in giro e mi dispiacere lasciarci dei soldi ogni volta. Anche la manutenzione è più semplice, il bastone di legno non si piega e non si spanano i filetti interni, se si spezza se ne trova un altro.
D’accordo, questo bastone è storto, senza impugnatura e senza puntale. Il bello delle bacchette è che sono ottime per camminare o per montare certe tende superleggere, ma sono specializzate per una funzione e non si possono maltrattare quanto un pezzo di legno. Da ultimo, aggiungo che in caso di emergenza un bastone di legno si può bruciare, mentre scaldarsi con una bacchetta di alluminio è decisamente più difficile.
Per tranquillizzare Lee, sarebbe meglio che non provasse a sollevare il dolce peso del mio zaino, ma ormai è troppo tardi. A questo però sono preparato, il fatto che siamo circondati da sherpa riduce l’entità del mio carico ad un bruscolino. Basta guardarsi attorno per accorgersi che le nostre paranoie sui chili da trasportare farebbero ridere di gusto molti nepalesi d’alta quota. In questi giorni ho visto la stessa Kami Doma risalire a casa con sulla schiena una tanica da quindici o venti litri, mezza piena d’acqua. Va a prendere l’acqua non so dove, una volta ogni due giorni.
Mi abbasso per salutare Zomba, che è ancora seduto sul prato. Non potrò mandargli aiuti economici per rifare il tetto. Me lo ha chiesto ieri sera, anche se forse era un po’ ubriaco, non saprei.
Ai miei saluti praticamente non batte ciglio, ma mi pare di capire che in questa parte di mondo gli addii non siano graditi, anche a Dunagiri era successo così.
Non bisogna prendersela, ma imbracciare li zaino e partire verso l’ignoto.
Sono arrivato a Pangboche stanco e affamato e ne riparto acclimatato e a pancia piena, sotto il sole splendente. È come se avessi scaricato vari chili dallo zaino, stamattina ho le ali ai piedi.
Supero a lunghe falcate la distanza da Pangboche a Dingboche, mezza tappa di trekking.
A Dingboche non c’è anima viva perché tutti quanti sono scesi per partecipare alla festa. Io tiro dritto con le ali ai piedi, Zomba mi ha dato il via libera per arrivare fino a Chukkung, 4700 metri. Ho chiesto il suo parere ieri e secondo lui non dovrei avere problemi. Il sole picchia forte oggi e gli alberi sono scomparsi chilometri fa. Nonostante il cappello che ho comprato in Iran, ormai ho preso un certo colorito sherpa sulle guance e sul naso, il ché mi rende molto fiero della mia nepalizzazione galoppante. Per parlare come nepalesi e comportarsi come nepalesi bisogna anche sentirsi un po’ nepalesi fuori, non solo dentro. Per quanto mi facciano i complimenti per la mia pelle bellissima, forse neanche immaginano quanto posso diventare bianco durante l’inverno.
Intanto procedo sulla terra bruciata dal sole, con le cime smisurate del tetto del mondo che si rizzano oltre le creste in primo piano. Queste punte bianche e aguzze sono separate dal paesaggio verde e bruno da un basamento grigio di sassaie pressoché spoglie.
Chukkung ancora non si vede e tutto intorno a me le montagne sono deserte, popolate solo da una miriade di fiori. Come si fa a venire qui durante la bella stagione? Ci si perdono tutti i fiori d’alta quota, è un peccato. Riprendo la marcia, e già mezz’ora dopo le prime nuvolette iniziano a sfilare sopra la mia testa, un trenino bianco sospeso a mezza quota. Ormai ho capito come funziona il meteo di quassù, è così quasi ogni giorno. Alla mattina il cielo terso riscalda le cime dei monti rocciosi, generando un vento termico che risucchia l’aria da fondovalle, che è umida e salendo condensa. Questo effetto è così marcato che prosegue anche quando le cime sono ormai coperte di nuvole.
Oggi ci voleva proprio, il sole splendeva incontrastato da stamattina e faceva un po’ caldo ormai. Mi fermo a rifiatare poco prima della meta, per studiare la base della valle che porta su al Kongma La, il primo passo del trekking. Per motivi che non ho ancora capito, la traversata crea non pochi problemi agli escursionisti. Lo stesso Lee mi ha messo in guardia, raccontando di due francesi che hanno raggiunto il paese di Lobuche un’ora dopo il tramonto. Erano piuttosto scossi perché si erano persi nella traversata del ghiacciaio Khumbu, vagando per un’ora e mezza nella foschia prima di avvistare le luci del rifugio, oltre la morena. Non riesco a capire tanto bene quale sia il problema e questo mi impensierisce, chissà che cosa c’è di là dal passo. Mi siedo proprio alla base del pendio che porta al Kongma La, per studiare la topografia e immaginare attentamente che cosa c’è oltre le nuvole, memorizzando.
Ora comincia a fare freschino, così riparto di gran carriera, seguendo l’autostrada bianca che taglia questa prateria verde d’alta quota. È impossibile perdersi tra Salleri e Chukkung, c’è il solco ormai lungo il sentiero del campo base.
Chukkung è deserta, abitata solo da alcuni yak al pascolo nelle stradine del paese. Era ora di trovare gli yak, ma come ha detto Zomba possono stare solo in alta quota, se scendono più giù di Namche schiattano dal caldo. È prr questo che al di sotto dei 3500 metri ho incontrato solo carovane di muli.
In fondo al paese c’è un nuovo ostello in costruzione, io mi presento davanti agli operai in tenuta da alta montagna: pantaloni leggeri e maglietta. Loro sono in pausa e mi offrono una sedia, mentre io sto svuotando lo zaino per mettermi addosso tutto quello che ho. Scambiamo un paio di battute e loro si rimettono all’opera, che è ben lontana dall’essere completata. Hanno costruito già una guida di legno per per delineare i muri e gli infissi, ora la stanno riempiendo di pietre squadrate. Le case tradizionali sono costruite a secco, con l’intonaco all’interno come la casa di Zomba. Quelle per i turisti devono essere carine ma sembrare tradizionali, quindi le pietre devono essere squadrate e sgrezzate sulla faccia esterna.
Mi incanto a studiare la tecnica degli scalpellini, che con subbia e mazzetta scheggiano le pietre a una velocità fenomenale. Si lavora senza guanti per sentire meglio il freddo delle rocce, senza sedia per stare a contatto con la terra e senza cuffie per sentire ogni martellata rimbalzare tra le ossa temporali. Gli occhiali però sono necessari, si può lavorare senza timpani, ma non senza occhi. Tutta questa manualità mi fa montare un impeto di artigianato, così cerco un pezzo di legno che diventerà un souvenir del viaggio. Però non è qui che mi fermerò a lavorarlo, tutto questo martellio mi sta fracassando il cervello.
Ci dovrebbe essere un ostello aperto, perciò ritorno dagli yak, che mi guardano perplessi. Non so perché, ma questi bestioni lanosi hanno stampata in faccia un’espressione interrogativa, come se ti chiedessero bonariamente che cavolo ci fai lì. Per il resto qualsiasi altro connotato anatomico è coperto da una spanna di pelo, che adesso è presente a chiazze perché è estate e con quidici gradi fa un caldo tremendo. Non hanno tutti i torti, considerata la quota. Il pelo lungo rimasto sotto la pancia e sulle zampe gli conferisce una buffa forma a campana, con un nonsoche di barboncino tosato.
Chiedo il permesso di usare il wifi dell’ostello, ma non c’è niente da fare. In compenso mi offrono di piazzare la tenda in giardino. Nello stesso istante inizia a piovere, perciò i due gestori volano a raccogliere il letame di yak sparso sul prato a seccare. “Che cos’è che un turista non farebbe?”, mi chiedo. “Raccogliere cacca di yak senza guanti, come fanno loro.” Mi fiondo ad aiutare, coltivando il nepalese che è in me. Una, due, tre, quattro, cinque, acc… questa era fresca! Scoppiamo a ridere, abbiamo quasi finito. Questa scorta è importante per l’inverno, tanto che quassù un chilo di letame secco vale venticinque rupie.
Mi fanno accomodare nel salone, sull’asciutto, così ho l’opportunità di conoscere Yangji e suo marito Mingma, nati e cresciuti sull’Himalaya, che parlano inglese nonostante non siano mai andati a scuola. Sono sposati e hanno tre figli, ma li vedono solamente durante le vacanze scolastiche perché studiano in India, a Bangalore nel Karnataka. Già che devono andare lontano, tanto vale mandarli in una buona scuola, giusto? È vero che loro non tornano a casa in autostop, ma a me Bangalore sembra lontana anni luce, non so come facciano a vedersi così di rado. Nel frattempo i genitori vivono quassù barcamenandosi tra la pandemia e i costi spropositati di qualsiasi bene non possano produrre. Ogni chilo ha un sovrapprezzo di duecento rupie dovuto al trasporto, cioè un euro e mezzo in più per ogni chilo di riso, ad esempio. Mi offrono generosamente una tazza di tè con il latte di yak. Qui dentro si sta molto meglio che fuori, ma senza riscaldamento la temperatura è di dieci gradi, quindi un tè caldo gusta molto. Fa così freddo che il ketchup e la maionese dimorano sui tavoli, tanto con questo clima è come se fossero in frigo.
Mingma mi spiega che il wifi qui è a pagamento perché loro pagano un canone di 17.500 rupie al mese per il contratto del router, l’equivalente di 130 euro. Adesso capisco come funziona e perché il sentiero è disseminato di cartoncini per l’uso di internet. Pagando circa cinque euro si può avere la password di accesso da un solo dispositivo. Non pensavo che potesse avere dei costi così assurdi, lascio perdere ogni insistenza.
Resto solo nel salone e mi dedico di nuovo a scrivere, approfittando della temperatura mite che non mi ghiaccia le dita. Mingma mi ha anche offerto di restare a dormire qui sui divani della sala, ma mi sembra uno spreco di avventura dormire sotto un tetto. Mi pare di aver visto un riparo sotto una grossa pietra non lontano da qui, così faccio una corsa a controllare. Torno indietro con il fiatone, avendo preso la grave decisione che è meglio restare al chiuso e scrivere il più possibile oggi, campeggerò poi domani.
Riprendo a scrivere, e a raccontare ai miei ospiti come sono capitato a casa di Zomba. Così Yangji mi svela che ho sottostimato di almeno dieci anni l’età di tutti quanti. Mingma invece di trenta ha quarant’anni, Zomba probabilmente va per i sessanta e Kami Doma ha passato i sessanta da non si sa quanto. Mingma e Yangji secondo me invecchiano solo ad anni alterni, altrimenti il loro aspetto non si spiega.
Viene ora di andare a letto, rassicuro Yangji di avere mangiato quelle arachidi crude davvero buone, ma lei non ci casca. Mi chiama in cucina perché sta preparando un piatto di noodle in brodo. Essendo un piatto caldo, dona un conforto eccezionale. Sembra una preparazione da due spiccioli, ma ricordo che quassù i noodle non crescono. Poco fa ho dato un’occhiata al menù del ristorante, scoprendo che il ricarico di prezzo dovuto al trasporto è così alto che un piatto di noodle quassù costa quasi come una bistecca di yak. Lo yak richiede moltissime cure, ma almeno si sposta sulle proprie gambe, quasi fino al piatto.
Si spengono le luci e io resto a scrivere ancora per prolungare questa giornata proficua, nella penombra rischirata dalla luce lunare, che si fa largo tra le nuvole.