Sabato 12/08/2023 Mare delle Fiji (Oceano Pacifico)
Avere tre vele da soddisfazione, ma avere due vele e lo spinnaker è una vera bellezza. Può sembrare di essere fermi perché si naviga seguendo il vento, ma basta voltarsi a guardare la scia a poppa per vedere come l’acqua scorre via veloce sotto di noi. Nel frattempo il profumino di cibo è diventato più intenso, il cous cous è pronto!
Il pranzo ha un aspetto meraviglioso, Charlotte porta le scodelle di legno in pozzetto e propone di inserire il pilota automatico mentre pranziamo. Non sia mai, dico io! Posso timonare e mangiare contemporaneamente oppure posso mangiare dopo, non vedo il problema. Devo aver timonato troppo a lungo quando ero in Italia sul lago di Garda, adesso sarei da ricoverare in un centro di disintossicazione.
A pranzo Magali escogita un nuovo soprannome per mastro Ernests. È alto e vegano, quindi potremmo chiamarlo Lord Asparagus. A Il nuovo nome è approvato seduta stante. Lo diceva Charlotte che tutti quanti riceveremo un soprannome durante la traversata, è inevitabile.
Verso le due si pomeriggio l’immenso spi inizia a dare segni di stanchezza, si affloscia all’improvviso e poi si gonfia di nuovo, ormai il vento non è più sufficiente nemmeno per lui. Le previsioni meteo parlavano chiaro già due giorni fa, abbiamo davanti a noi una enorme zona di bonaccia, almeno duecento miglia marine senza la minima bava di vento. Inoltre, abbiamo un secondo problema, che è emerso già poco dopo la partenza da Opua, ma con il passare dei giorni si sta aggravando. Charlotte ha notato un piccolissimo sgocciolio proveniente dall’asta del timone, un possente palo d’acciaio che passa attraverso lo scafo. Intorno all’asta ci sono due dischi sigillati con una corda di canapa intrisa di olio. I dischi sono imbullonati tra loro con forza disumana e comprimono la canapa a tal punto che non passa neanche una goccia d’acqua. Almeno, in teoria dovrebbe essere così. Forse le continue vibrazioni e sobbalzi hanno allentato leggermente i bulloni e la corda si è mossa. Sembra fantascienza, ma deve essere così. Se fossimo disperati potremmo cercare di risolvere il guasto anche qui in mezzo all’oceano, ma è molto più saggio controllare la perdita e cercare di arrivare alle Fiji il prima possibile. Il capitano non ci aveva ancora informato del guasto per non allarmarci, ma la situazione oggi è peggiorata. Sicuramente timonare come un pazzo ieri notte non ha giovato, e Charlotte si rammarica di questo suo errore. In tutto ciò, siamo a quattrocento miglia dalla terraferma.
Tornando al povero triste spi, bisogna ammainarlo perché non ce la fa più. Ammainare lo spinnaker è una manovra seria, così ci prepariamo. Al segnale, Raphael molla la drizza e noi quattro iniziamo a tirare la vela in barca come dei disperati, per raccoglierla prima che cada in acqua fuoribordo. Ci impegnamo così tanto che il Charlotte ci fa i complimenti. “Capitano, ho visto un buco nella vela” Il problema è che l’ho visto prima dell’ammainata, perciò adesso si tratta di ritrovarlo nei cento metri quadri di tela ammucchiati sulla prua. Non è uno strappo grosso, ma è noto che gli spinnaker danneggiati tendono a squarciarsi improvvisamente. Charlotte vuole riparare la tela con un nastro adesivo apposito, ma non lo abbiamo a bordo. Morale: lo spinnaker va in pensione finché non avremo trovato il modo di aggiustarlo.
Le batterie sono un po’ scariche, dovremmo accendere il frigo per raffreddarlo e il vento cala sempre più. È giunta l’ora di accendere il motore. Date le condizioni del mare, possiamo evitare i turni e siamo liberi di rilassarci fino al tramonto. Ernest si fionda nel pozzetto sotto al boma, semisdraiato come se fosse in una vasca idromassaggio. Magali e Raphaël prendono il sole a prua, mentre Charlotte è indaffarata sottocoperta a controllare ancora una volta le previsioni meteo. Sembra proprio che il timone sia libero, che peccato. Ho proprio sulla prima della lingua un paio di canzoni piratesche da ripassare e una mezza dozzina extra da canticchiare fino alle sei. Quattro miglia ogni ora, avanziamo inesorabili verso Savu Savu, distante ancora settecento miglia marine.
Prima del tramonto riduciamo la vela al minimo, tanto in pratica non serve più a niente. Da stanotte riprendiamo a usare il pilota automatico, per minimizzare gli sforzi sul timone. Tra l’altro dobbiamo ancora trovargli un nome corto, invece di chiamarlo “il coso”.
Il primo turno se lo accolla Charlotte, che non fa che controllare il meteo, il motore e il livello dell’acqua in sentina. Ora che la perdita d’acqua dal timone è più consistente, bisogna svuotare la sentina ogni due ore. Bisogna tenere presente che la sentina di Valiant è profonda quaranta centimetri, e una secchiata d’acqua basta a riempire il compartimento centrale. Ogni volta che si riempie, lo svuotiamo con la pompa manuale. Con il calare delle tenebre il cielo si è schiarito in una stupenda notte stellata. Il timone automatico è al lavoro, non ci sono navi all’orizzonte e abbiamo davanti a noi tre ore di turno di guardia. C’è tutto il tempo per ripassare tutte le costellazioni dei cieli australi, fino alle più insignificanti. Proprio oggi ho iniziato a leggere un libricino della biblioteca di bordo che si intitola “Introduzione alla navigazione celeste”. Charlotte lo ha ricevuto in regalo da una coppia di velisti che ha conosciuto in Nuova Zelanda, insieme ad una valigetta con dentro un sestante. Così, prima di partire ho scaricato sul telefono l’almanacco di quest’anno, nella speranza di imparare a fare il punto nave. Il punto nave è un metodo per triangolare la propria posizione sulla superficie terrestre, in base all’osservazione delle stelle e dei pianeti. Dopo anni e anni passati a imparare a riconoscere le costellazioni, ho la strada spianata, avanti tutta!
Mentre scruto la volta celeste con il naso all’insù, Lord Asparagus è seduto a poppa a guardare il vago luccichio del plancton bioluminescente, che brilla nella scia come se riflettesse le stelle del cielo.
Alle dieci e mezza emerge dal tambuccio il capitano con un diavolo per capello. Ho controllato il livello dell’acqua in sentina quaranta minuti fa, poi mi sono dimenticato di tornarci. Quando ho controllato era piena per tre quarti, ma bisognava aspettare a svuotarla, per controllare ogni quanto si riempie. Stiamo segnando l’orario di ogni svuotamento sul giornale di bordo. Ora la sentina è strapiena e l’acqua di mare sta sciabordando nei compartimenti laterali, che contengono dei cavi elettrici. È tutto sigillato, ma non è certo il caso di mettere alla prova la tenuta delle guaine di gomma. Riceviamo una notevole lavata di capo, ma almeno si può stare certi che d’ora in poi terremo d’occhio la sentina, con tutti e due gli occhi. Anche perché durante i turni di notte non c’è molto altro da fare, adesso che il pilota automatico lavora a tempo pieno.
Tornati sottocoperta, ci addormentiamo cullati dal baccano infernale del motore, che non è affatto insonorizzato e si trova proprio al centro della dinette.
La mattina di domenica 13 l’oceano ha un aspetto oleoso. Ci troviamo in latitudine 26°S, cioè in una zona nota come “latitudine dei cavalli”. Nel Pacifico occidentale, intorno a trenta gradi dall’equatore, non prevalgono gli alisei e neanche i venti occidentali, perciò i venti sono variabili e capricciosi. Le latitudini dei cavalli prendono il nome dall’epoca in cui era fiorente il commercio di equini via mare. I cavalli bevono molta acqua dolce, specialmente nell’afa della bonaccia. Gli equipaggi intrappolati per settimane senza un filo di vento, per salvare la pelle non avevano altra scelta che sbarazzarsi dei cavalli. Da qui il nome di questo incubo marinaresco. Quando ci svegliamo, il capitano ha notizie fresche fresche relative al meteo. Il modem satellitare è riuscito a scaricare una previsione meteorologica su larga scala, che mostra una lunga fascia di bonaccia estesa dalla Nuova Caledonia fino alle lontane isole Tonga. Questo fenomeno ha un nome, si chiama zona di convergenza del Pacifico meridionale (SPCZ, South Pacific convergence zone). È causata dalla collisione degli alisei orientali e dei venti occidentali, che si annullano e creano questo insulso piattume. Se non ci togliamo di mezzo con il motore, resteremo qui per almeno altri cinque giorni. Se tutto va bene, con altri ottanta litri di gasolio dovremmo superare le cento miglia che ci separano dal vento. Durante la notte la perdita al timone è peggiorata ancora, perciò non c’è tempo da perdere.
Nel frattempo, date le condizioni placide del mare e del vento, siamo liberi di rilassarci e goderci la crociera, come ieri. È ora di finire di leggere il mio libro. Tra l’altro ho scoperto che per fare il punto nave non è indispensabile avere a disposizione sei volumi pieni di tabelle e numeri, basta l’almanacco e una calcolatrice scientifica. Si dà il caso che abbia trovato per strada una calcolatrice scientifica, quella volta che sono andato a correre a Opua, quindi ho tutto il necessario.