Lezione di ieri: prima che faccia buio del tutto, c’è una finestra di quindici minuti in cui la probabilità di fermare le macchine aumenta di molto.
Domenica 26/06/2022 Muhan (India)
È già giorno e fa caldo quaggiù. Guardo al suolo, intorno all’amaca, ma niente ranger. Ci sono solo gli uccellini e le cicale, per niente interessati a me. Torno a dormire, finché sento dei versi provenire da destra. Ohibò, c’è una martora sull’albero accanto al mio, è lunga almeno un metro con quella codona pelosa, mi sta gridando qualcosa che non capisco. È vestita di un pelo che pare molto morbido, marrone scuro come i tronchi, ma ha una grande macchia gialla sul petto e sulla pancia. È una martora dalla gola gialla, Martes flavigula.
Non faccio in tempo a estrarre il telefono che si sta già dileguando tra i rami, sparendo dalla vista in un attimo. Come ha suggerito mio padre, forse è andata a raccontare a tutti di aver visto un uomo bianco lungo almeno un metro e settanta sull’albero accanto al proprio. È una martora indiana, se è davvero così ormai avrà già informato tutta la foresta.
Smonto tutto con calma e ritorno sui miei passi, guardandomi attorno in cerca di felini, ma niente. Tra venti giorni un motociclista verrà ucciso dalle tigri proprio qui a Muhan, ma io non ho consultato alcun quotidiano e sono ignaro del futuro così come del passato. Esco dalla foresta quatto quatto e faccio l’autostop lungo la strada, ma le macchine non ne vogliono sapere
Salgo in moto con Dip, anche se non sono del tutto pronto ad affrontare i trenta chilometri di strada dissestata che portano a Ramnagar. Mi aggancio alle maniglie della moto e di buca in buca arriviamo a destinazione, passando anche un guado fangoso. Da qui è tutto facile, salgo in macchina con Choudri, un avvocato che lavora a Delhi ma abita a Bail Parao. Come molti suoi predecessori, osserva che per gli indiani fare l’autostop è praticamente impossibile. Gli autisti si fermano a prendermi solo perché sono straniero. No sono ancora convinto di questa teoria, quelli che incontro di solito non hanno mai provato a viaggiare in questo modo. È chiaro che fare l’autostop con lo zaino o con la borsa della spesa non è la stessa cosa.
A Bail Parao c’è la fermata dell’autobus e un paio di passanti non mancano di suggerirmi di prendere l’autobus, nel casp fossi cieco. Per fortuna non sono cieco e sono qui di proposito, infatti accosta un’auto e riparto quasi all’istante. Rashap, Divianchu, Amir e Manpeet sono diretti a Haldwani, così li seguo per tutto il tragitto. È sabato e sembrano in viaggio di piacere, ma non bisogna lasciarsi ingannare, siamo in India, gli indiani non riposano. Questi quattro amici organizzano matrimoni, perciò stanno andando a visitare un luogo in cui organizzare eventi e cene. Non è semplice, perché qui in India i matrimoni hanno proporzioni luculliane, nell’ordine di trecento o cinquecento invitati. Mentre chiacchiero con Rashap, seduto accanto a me, lui mi domanda che cosa c’è di tanto speciale nell’olio di oliva. Non è semplice spiegare i pregi dell’olio d’oliva ad un indiano, perché qui nel subcontinente si vende quasi solo olio di sansa. Quello che posso fare è spiegare che l’olio d’oliva che ha assaggiato lui in Italia lo useremmo al massimo come carburante. D’altra parte io non ho mai assaggiato l’olio di senape, perciò mi impegno ad assaggiarlo prima di lasciare l’India.
Mi lasciano in centro a Haldwani, perché la mia ultima missione prima di raggiungere il Nepal è trovare una banconota da 50 dollari per pagare il visto. Infatti il modulo che ho compilato a Agastmuni è sostanzialmente inutile, serve ad abbreviare di cinque minuti la procedura alla frontiera. Chi non richiede il visto in un’ambasciata lo può otteneere direttamente all’arrivo nel paese, ora è di nuovo possibile. L’unico problema è che oggi è domenica e i cambiavalute sono chiusi, faccio un tentativo fidandomi di google maps, ma è proprio tutto chiuso, devo ritentare domani a Rudrapur. È un bene perché lungo la strada per il confine di Ghauripanta i luoghi in cui pernottare scarseggiano. Per noi animali selvatici questa zona al confine tra Uttarakhand e Uttar Pradesh è un deserto, ci sono solo due piccoli appezzamenti di foresta che non sono parchi nazionali o campi coltivati. Uno si trova a Khutar, troppo lontano per arrivarci oggi, l’altro invece è proprio qui tra Haldwani e Rudrapur. Compro una manciata di quei piccoli frutti neri che vedo vendere dappertutto, da mangiare lungo la via. Quelli più maturi sono abbastanza dolci, ma comunque pieni di tannini astringenti. Non sono male, devono essere gli stessi frutti con la polpa viola che si usano per preparare quel succo di frutta che ho bevuto il primo giorno a Lahore.
Aspetto molto a lungo perché sono poco fuori dal centro di Haldwani, ma non ho intenzione di arrivare a Rudrapur a piedi su una strada dritta. La gente si spertica a indicarmi l’autobus, ma io resto al mio posto a osservare le macchine e i ragazzi e le ragazze che girano scalzi per strada cercando di arrivare alla sera sperando di racimolare abbastanza cibo da tirare avanti. Ce ne sono parecchi di passaggio qui.
Laliph è un motociclista che mi offre un passaggio per qualche chilometro fino alla fermata dell’autobus. Invano gli spiego cosa sto facendo, ma lo ringrazio molto e salgo a bordo poco dopo con Sunil Sharma e suo figlio. Questo Sunil è un signore sulla cinquantina diverso dai soliti indiani, ha un’aria che mi ricorda un personaggio di Jules Verne, per la camicia marrone a scacchi che porta, per il taglio dei capelli grigi e per gli occhiali tondi. Gli dispiace di arrivare solo fino a Lalkuan, ma a me va bene tutto, da lì posso anche arrivare a destinazione a piedi.
Facciamo che non ci vado a piedi, aspetto Manish, che è in viaggio verso casa con un amico e mi offre una Heineken bella fredda. Rifiuto l’ennesima offerta di una birra? No, adesso basta, è solo una birra, si apre e si brinda, non posso fare sempre l’integralista islamico, che diavolo! Manish e il suo amico erano ingegneri informatici? Non me lo ricordo, ma sicuramente mi hanno fatto parecchie domande prima di svoltare per Rudrapur. Non ho ancora finito la mia lattina e quindi accostano un momento per darmi il tempo di berla tutta a bordo. È vietato bere per strada e abbiamo passato da cinquanta metri un posto di blocco della polizia.
Scendo e cerco un varco nella boscaglia, con il sole gia basso dritto in faccia. Il piccolo appezzamento di bosco in realtà non ha quasi sottobosco, perciò o trovo un albero molto alto o mi inoltro di più. C’è solo un ficus, ma è praticamente a ridosso delle case a bordo strada, non va bene. Proseguo spedito, scoprendo di non essere solo, ci sono tre donne in piedi là più avanti, saranno venute qui a raccogliere erba e foglie. Mentre mi avvicino una delle figure velate si gira, così mi accorgo che le tre donne sono in realtà tre uomini, con la sciarpa arancione in testa per ripararsi dalla calura. Non stanno raccogliendo erba, ma la fumano, è quasi uguale. Che fare?
Ormai è andata, proseguo dritto sperando che non montino sulle moto. Questa volta almeno non verranno a chiedermi della marijuana, ne hanno già in abbondanza. Mentre mi allontano, mi giunge all’orecchio un “Kahanjaareo?”, che scomposto sarebbe “Kahan ja raha hoon?”, “Dove stai andando?” Ma perché nessuno si fa i fatti propri, chi li ha fatti così curiosi? “Rudrapur!” Non è affatto credibile, ma la direzione grossomodo è giusta. Potri essere un camminatore che sta facendo il tour dell’India a piedi e ha deciso di pasare per questo boschetto perché è più carino del ciglio della strada. È credibile, no? No, ma l’importante è ripondere e togliermi di mezzo.
Trovo un sentiero che entra nella boscaglia e mi ci lancio dentro, fino a raggiungere uno spiazzo con un piccolo tempio, un palo che sembra un totem, forconi infissi per terra e piccoli altarini qua e là. Di notte sicuramente ha un aspetto inquietante, ma solo perché ricorda film come “Vivi e lascia morire”. Gli alberi in questa zona sono promettenti, così vago in cerca di quellp giusto, mentre dai cespugli si levano grosse farfalle che non riesco a fotografare. Mentre vago nel reticolo di sentieri, ecco un groviglio di liane che scende da un albero con un termitaio alla base. Il termitaio pare abbandonato, anche se non ho ancora capito come distinguere quelli abitati da quelli vuoti. Ho visto decine di termitai, ma mi sono parsi tutti disabitati, il ché è un po’ strano. Comunque, in vita mia non ho ancora visto una termite.
Mi pare l’albero giusto, si può scalare ma non c’è modo di salire con lo zaino perché bisogna infilarsi tra le liane e il tronco. Stavolta cambio approccio e lego lo zaino alla fune, portando su in fretta l’altro capo, in modo che nessuno mi colga con lo zaino a mezz’aria. Una volta completata l’issata a otto metri d’altezza posso procedere con calma, nessuno mai guarderà in su per vedere quali uccellacci stanno facendo il nido su questo albero.
Mi pare che si possa andare un po’ più su ed essere più al riparo, così scosto le foglie per afferrare un’altro fascio di liane ritorte. No, no, no, non vado da nessuna parte mannaggia ho una mano piena di formiche! Afferro la matassa della zanzariera per cacciare via le formiche a frustate. Se avessi guardato con un minimo di attenzione avrei notato che sulle foglie della liana ci sono ben due nidi di formiche tessitrici. Le formiche tagliafoglie sono diverse, trasportano francobolli verdi nel formicaio sotterraneo per coltivarci sopra dei funghi commestibili. Le formiche tessitrici invece costruiscono il nido con le foglie, che sono unite insieme in una sorta di enorme bozzolo. Ora sta già facendo buio, guarderò meglio i nidi domattina. Meglio sbrigarsi a montare l’amaca in realtà, perché il sole che tramontava ha illuminato una distesa di risaie e ci sono già alcune zanzare che mi ronzano tra i piedi. C’è un’umidità terribile, tanto che in tutto il saliscendi tra i rami per montare l’amaca in questo spazio angusto inizio a sudare copiosamente. Non come a Kyari, non come a Rishikesh, non come a Muhan; appena finito di legare tutto mi sfilo a fatica la maglia e strizzo via l’acqua come quando la lavo a mano. Ma quanto ho sudato? Di questo passo mi prosciugo.
Mi stendo in amaca per cercare di ra6ffreddarmi, mentre il mio buon odore attira le zanzare come le palline Nesquik al cioccolato attirano i pesci. Perché ci sono due zanzare dentro?! Sguscio fuori subito per sigillare le due estremità della zanzariera e dormire sonni tranquilli. Ora che loro sono fuori e io sono dentro posso spiegare quella storia dei nesquik. Ogni tanto a Reggio noi amici andiamo a pescare le trote in Appennino e utilizziamo sempre l’esca speciale infallibile di Mors, i mitici nesquick, una leccornia per trote e piccini. Fuori ora c’è pieno di zanzare, a tratti le sento ronzare, non è un’idea geniale dormire accanto agli stagni. Adesso però il pericolo è scongiurato, mi prenderò qualche puntura sulla schiena, ma non è la fine del mondo, adesso scrivo in pace.
No, non è vero, lo schermo del telefono nuovo mi sta lasciando, è crepato da un mese e mezzo ma stasera un quadrato in alto a destra è diventato tutto nero, gettando righe scure verso il basso. Tra il nero e le crepe non ci vedo niente, bisogna che domani trovi un nuovo schermo o un nuovo telefono. Via che si spendono altri cento euro, olé!
Chiudo gli occhi, ma continuo a riaprirli angosciato perché vedo la zanzariera piena di quelle bestiacce parassite. Apro gli occhi e non c’è niente, all’interno ci sono solo io, non sono entrate. Capita varie volte mentre mi addormento, deve essere il trauma rimasto da quella dannata notte a Zira (Si pronuncia quasi “Dgira”) in Punjab. Qui le zanzare sono molte meno.
Che bella la pesca a cereali😂
A onor di cronaca però, erano nesquik, ma sicuramente sia questi che i coco pops sono meglio del cloro
Provvedo a correggere, grazie Mors!