Lezione di ieri: come ci insegna il Piccolo Principe, i baobab nascono piccoli. Allo stesso modo, i fiumi sporchi nascono puliti.
Domenica 19/06/2022 Rishikesh (India)
Dopo lo scintillio i luci di ieri notte, anche l’alba è meravigliosa. Riesco ad ammirarla perché ho puntato la sveglia molto presto, dato che devo andare a colazione con dei tedeschi. A causa della confortevolezza della mia cara amaca, dorm un altro paio d’ore. Alle otto Sebastian non si è ancora fatto vivo, ma credendomi in ritardo mi sbrigo a scendere in città. Quassù la vegetazione è rada, per questo non ho trovato un albero adeguato, inoltre ci sono parecchi cactus, che formano grossi cespugli con i loro fusti poligonali.
Non c’è molto altro di interessante, così in un attimo sono di nuovo a valle. Mi fermerei ad aspettare all’ombra degli ultimi alberi, ma la vicinanza alle case porta anche le zanzare tigre, quei pessimi parassiti schifosi. Facciamo che scendo e mi siedo sul greto del fiume.
Mi pareva una buona idea, ma poco oltre avvisto due bellissime lucertole su un muretto. La coda sottilissima è lunga ben di più del resto del corpo, hanno la testa arancione brillante e il resto delle squame marrone-grigie. Poso lo zaino e mi avvicino con cautela, ma scappano di là dal muro. Sbirciando dall’altra parte, l’arancione si prima si è spento e ora che le ho messe in allerta la livrea è tornata uniformemente marrone. Scavalcando e correndo avanti e indietro sotto lo sguardo curioso di un indiano, finalmente ne acchiappo una. Finiti gli studi erpetologici mi volto per studiare le scimmie che stanno accorrendo nella zona si scarico dei rifiuti del bar e dellambulante che vende cetrioli. Ci sono due specie di scimmie con diversi piccoli, che fanno morire dal ridere mentre giocano, saltano, si appendono e si accapigliano. Così come i cuccioli d’uomo, il caldo non li sfiora minimamente.
Alle dieci passate i principi sono pronti per la colazione, così saliamo al secondo piano di un locale affacciato sul Gange. La colazione arriva con molta, molta, molta calma, quella di Nico è già fredda. Nel frattempo Sebastian mi racconta che questi tre anni in cui ha lavorato per la compagnia attuale sono stati interessanti, ma adesso ha voglia di cambiare e di trovare un nuovo lavoro, una volta rientrato a casa. Continuiamo così in chiacchiere per qualche ora, poi Nico deve già partire per tornare a Delhi e Sebastian vuole andare a vedere una cascata situata di là dal fiume. Sarebbe facile da raggiungere, se il ponte qui davanti non fosse chiuso. Decido di seguirlo con calma, in autostop, ma va aa finire che cammino fino al ponte successivo e trovo un brevissimo lassaggio con un certo Vikki per un paio di chilometri. L’ultimo aiutino me lo dà Joulan, sulla jeep che guida di mestiere. Mi porta fino all’inizio della stradina che porta a questa cascata, dove c’è un continuo andirivieni di macchine e moto, perché la maggior parte degli indiani ha bisogno di raggiungere i luoghi di svago senza muovere un passo. Ci sono quasi, ma c’è una biglietteria a sbarrare la strada. La cascata è a pagamento. Costa solo 50 rupie, settanta centesimi di euro, ma pagare per vedere dell’acqua che scorre mi pare un’assurdità intollerabile, così torno indietro. D’accordo, un parco nazionale occupa spazio, ha bisogno di ranger a pattugliarlo e i sentieri richiedono manutenzione. Di che cosa ha bisogno una cascata?
Per tornare in centro mi faccio dare un passaggio da Vikas e Barjon, che sono saliti in macchina fino alla cascata e ne sono rimasti addirittura delusi. Ora che sono passate due ore la mia ultima missione è girare per il centro e magari visitare qualche tempio, prima di spostarmi verso Bhanyiawala, dove abita Ashish.
Vikas e Barjon sono simpatici, ma si perdono in un bicchiere d’acqua e così scendo e proseguo a piedi invece di aspettare che rifacciano il giro.
Il caos e il frastuono sono all’apice a quest’ora, i piedi sono di gran lunga il miglior mezzo di trasporto. Il primo tempio è aperto, ma non posso entrare a vedere da vicino i bassorilievi colorati perché tra qualche ora si celebrerà un matrimonio. Ci sono altri due templi che sembrano interessanti, così per raggiungerli mi lancio nel gomitolo di strade di questo quartiere residenziale, fotografando qua e là piccoli scorci di casette colorate. In Italia non potremmo fare niente del genere con così tanta spontaneità, ho visto dei colori così solamente a Taurisano, nel leccese.
Raggiunto il tempio, a quanto pare c’è una cerimonia in corso, così mi siedo fuori ad ascoltare il discorso in hindi del sacerdote. All’interno, del tempio porticato ci sono prevalentemente donne, sedute in terra perché qui i banchi sono un lusso inutile. Sono pesanti, costosi e inducono i fedeli ad arrivare in orario. Qui in India non c’è orario, ognuno arriva quando ha voglia e prende posto. Non so come facciano a stare là dentro, nonostante il volume altissimo degli amplificatori. Per concludere, arriva una piccola delegazione di monaci o sacerdoti, vestiti di arancione e accompagnati da una gran fanfara. Mentre continuano i discorsi in hindi decido di lasciare il tempio e cercare un posto per la notte fuori città. Mi fermo a comprare sei grossi manghi da un ambulante che li vende per 60 rupie, il prezzo più basso dell’India, equivalente a settanta centesimi al chilo.
Sono le sei e sono quasi fuori dal centro, quando in una piccola piazza avvisto due piccoli templi affiancati, con i tetti adornati di statue e decorazioni floreali e geometriche così colorate da far invidia ad Arlecchino. Qui riescono ad accostare i colori in maniera tale da poterli usare tutti insieme, ma in maniera sensata e piacevole.
Questo tempio è dedicato a Rama, dalle sembianze scimmiesche, il cui simbolo, detto tilak, è una sorta di diapason bianco con al centro un puntino o una linea rossa. Il tilak è quel simbolo che i devoti si dipingono sulla fronte. Le due linee parallele rappresentano due piedi stilizzati.
Un uomo si avvicina per fare due chiacchiere, così mi mostra la zona dove servono da mangiare, la casa in cui ospitano i pellegrini in arrivo e l’immagine del loro guru, cioè del maestro dal quale traggono ispirazione i fedeli. Ci sono infiniti modi di praticare l’induismo, perciò ciascuno sceglie quello più adatto per sé. Mentre parliamo ci sono diverse valigie e pellegrini in arrivo, nonché parecchio cibo in partenza, che sta venendo caricato su un camion. Il mio cicerone deve andare un attimo al tempio, così mi invita a seguirlo. Mentre ancora mi sto slacciando le scarpe per entrare scalzo, lui se ne è andato perché deve gestire il carico del cibo e i pellegrini e chissà cos’altro. Rimasto solo sotto il poetico che circonda la nicchia quadrata con la statua nera di Rama, osservo attentamente due monaci indaffarati nella preparazione del materiale necessario per la cerimonia imminente. Hanno la testa rasata, tranne un piccolo codino sulla nuca, sono a torso nudo e scalzi, con un grande telo bianco avvolto intorno ai fianchi. La pancia non manca, ne avrebbero anche per me.
Parlano pochissimo inglese, così scambiamo due frasi di saluto e poi resto dove sono, a osservare le loro mosse. Il tempio è formato da un semplice basamento quadrato si pietra, con al centro l’altarino a gradini che porta la statua di Rama, agghindata di collane di fiori e circondata di altre statuine. Il portico circostante è largo appena sei metri, lo spazio in India è un bene prezioso ed è scarso quanto la pulizia. Ce n’è, ma non abbastanza.
Davanti a me, sul pavimento lucido, continuano ad affluire vassoi, frutti, polveri colorate e un’infinità di materiali e accessori d’ottone. Iniziano ad arrivare anche alcune donne, che prendono posto a terra accanto a me. Guidati da un monaco, iniziamo la preghiera cantata. Così come accadde in Croazia a Licka Jesenica, mi passano un cellulare con il testo in modo che anch’io possa partecipare. I versi sono in qualche modo in rima, ma la sequenza dei suoni è estremamente ostica da pronunciare, proprio come ricordavo. Appena finita la lunghissima preghiera, scambio due battute con Jai Sriman, quella che è seduta accanto a me. L’accento qui è cambiato di nuovo e capisco solo due terzi di quello che dice, ma è sufficiente per afferrare il senso generale delle sue spiegazioni su quello che sta per succedere. Due monaci si siedono uno di fronte all’altro, proprio davanti a me che ho un posto in prima fila. Mentre un terzo monaco al microfono prosegue la preghiera, i primi due iniziano ad accendere un contorto lumino ad olio, a disporre geometricamente le foglie di ficus sul vassoio pieno di riso, poi un petalo di rosa intinto in una piccola coppa, con una spolveratina di polvere rossa e un pizzico di polvere color cacao. Il tutto avviene in una sequenza rapida perché la procedura è molto complessa, accompagnata da gesti delle mani e benedizioni fatte con il lumino ad olio, fattp girare tre volte attorno ad ogni polo del quadrato appena costruito. Il giovane monaco a sinistra deve avere una lunghissima esperienza per riuscire ad eseguire tutta la cerimonia con tanta scioltezza e precisione. Fortunatamente ha anche un quarto monaco ad assisterlo, il quale è anche incaricato di suonare una campana il più forte possibile.
Il rituale prosegue incessantemente, una noce di cocco viene posta al centro del piatto, molti fili d’erba secca vengono posizionati in precario equilibrio sulla struttura creata finora, poi petali di rosa e riso, polveri, altre foglie, giri di lumino, ghirlande di fiori. Il monaco solleva il vassoio con la noce di cocco ed esclama, trionfante: “Shri Rama!” (La h è muta) Ci alziamo, seguendo i monaci con in mano il vassoio, che seguono la fanfara. Giriamo tre volte attorno al tempio e torniamo a sederci. Il vassoio viene posto nella nicchia, mentre la statua del dio viene agghindata con altre ghirlande.
Io in questi mesi mi sono abituato finalmente a restare seduto a gambe incrociate per un’ora e più, ma sui tappeti, sulle brande, non sul marmo. I miei legamenti chiedono pietà, ma non ho nessuna intenzione di dargli tregua, anche perché la preghiera è ben lungi dall’essere finita. Intanto si stanno raccogliendo le offerte dei fedeli, così mi guardo intorno e mi accorgo che i fedeli sono tutte donne. Ormai sono qui, non rinuncerò certo al privilegio concessomi. Un nuovo vassoio di polvere marrone è qui che aspetta di essere lavorato. Alcune donne prima hanno portato dei manghi come offerta al tempio. Un mango al centro, quattro a croce, petali di rosa e così via strato dopo strato, aspersioni, giri di lampada, polveri, gesti, parole complicate, suonate di campana. La campana si è rotta, grazie Rama, mi stava spaccando le orecchie. Sono sempre più sconvolto da quanto sia intricata la preghiera, frutto dell’evoluzione millenaria di un culto antichissimo. È decisamente troppo complicato per i miei gusti di uomo semplice, ma sicuramente sarebbe molto interessante capire che cosa rappresenti tutta questa affascinante e meticolosa preparazione. Nel frattempo ho la gopro sulle gambe, che sta filmando quello che succede da mezz’ora. La batteria si esaurisce e faccio per metterla in tasca, ma brucia. Nei trentacinque gradi di oggi non c’è modo di dissipare calore e la batteria ha raggiunto una temperatura tale che è difficile stringerla in mano per raffreddarla in fretta. Se nn si fosse scaricata forse mi si sarebbe sciolta la fotocamera sul ginocchio, come i famosi orologi di Dalì. Girando ancora attorno al tempio la cerimonia si sposta sul retro, dove è predisposto un tendone con sotto un fuoco. Su un tavolino sono disposte in fila dieci piccoleciotole, attorno ad un’elaborata composizione di materiali naturali.
Un monaco si siede ad alimentare il fuoco, un altro invece versa manciate di polvere dal vassoio alle ciotole, poi la preghiera prosegue mentre diversi materiali finiscono via via dentro il fuoco. Dopo due ore e mezza, la preghiera è terminata e tutti si allineano a mucchio indiano per ricevere una benedizione con un sorso di un’acqua particolare e un cappello d’ottone intarsiato che viene posato sul capo dei fedeli in segno di buona fortuna. Sono i monaci stessi e Jai Sriman a invitarmi a partecipare alla fila, per poi andare a ritirare un piccolo piattino di riso bollente e un pugno di un impasto dolce, da mangiare rigorosamente a mano. Nell’attesa una signora dietro di me canta incessantemente “Shri Rama, Shri Rama, Shri Rama, Shri Raam….” Intanto Jai Sriman è sparita, la avvisto di nuovo nella fila di quelli che distribuiscono la cena, che affluisce dalla cucina in enormi pentoloni trasportati a fatica da due uomini nerboruti. I fedeli nel frattempo sono raddoppiati, come sempre accade quando si mangia. Chiedo qualche spiegazione e vengo a sapere che questa preghiera viene organizzata una decina di volte all’anno, per questo è così complicata, lunga e dispendiosa.
Mi metto diligentemente in fila, raggiungendo per primo il banchetto che distribuisce l’acqua. C’è un pentolone con l’acqua e una signora che riempie i bicchieri con una brocca. Siamo circa in trecento in fila e ci sono solo due bicchieri d’acciaio. Se fossimo in Italia servirebbero almeno tre pacchi di bicchierini usa e getta, ma qui in India la prassi è versarsi l’acqua in bocca, così stiamo bevendo in trecento dagli stessi due bicchieri. Nei ristoranti alla buona a volte i bicchieri vengono dati su richiesta e ci si arrangia semplicemente con la brocca, tanto è uguale. Il piatto è molto ricco, anche se quando ero con Branko in Croazia era stato profuso un impegno speciale e raggiungere di nuovo quei livelli è arduo.
Una volta finito di mangiare, ciascuno va a lavare il proprio piatto d’acciaio e come per magia non è stato necessario comprare ne bicchieri, né piatti, né tovaglioli, né posate usa e getta. È un miracolo.
Si è fatto tardi ed è buio da ore, adesso sono le dieci ed è il caso che vada, la foresta più vicina dista mezz’ora di cammino. Saluto e mi incammino speditamente verso la strada che porta fuori città, di minuto in minuto più vicino al bosco. È lo stesso orario in cui ho incontrato quei due simpaticoni di Samalapuram, nel Tamil Nadu. Questa volta però ho un bastone e sono guardingo, è tutto diverso. Dieci, cinque minuti, ho passato il ponte, sono fuori dal paese e sparisco nell’ombra. Sto seguendo nella scarsa luce notturna una strada sterrata, che dopo un paio di chilometri svolta a sinistra inoltrandosi dritto per dritto nella foresta pianeggiante, bella calda e umida. Proseguo per un bel pezzo lungo la strada dritta, per poi deviare di nuovo a sinistra nella boscaglia fitta, cercando di indovinare i percorsi tra i rami intricati degli arbusti. È un bosco giovane, avrà al massimo vent’anni ma gli alberi crescono in fretta sotto il sole tropicale. Tuttavia sono radi e impossibili da scalare. Qui sono piuttosto convinto che sia concretamente possibile la presenza di selvaggina, e di conseguenza anche di predatori. Di conseguenza è meglio non dormire proprio rasoterra, ma dove?
Gira e rigira, intravedo una possibilità: un giovane alberello cresciuto accanto ad un grosso tronco, a pochi metri da un’altra pianta abbastanza robusta da potermi reggere. Faccio qualche prova di scalata, non è facile arrivare lassù. Ci sono quasi, ma l’albero più giovane inizia a inclinarsi si piega, si piega, cado. Mollo la presa a mezzo metro da terra, è stato divertentissimo scendere così, sono mosse che di solito fanno solo le scimmie. Risalgo con più attenzione, lego la corda, salgo sull’altro albero, mi sono dimenticato di aggaciare l’amaca. Sali, scendi, risali, aggiusta, fatto. Su questi tronchi esili e lisci bisogna tirarsi su brutalmente di braccia.
Non è niente male, porto su la zanzariera, il telefono, l’acqua ed Elegretel il marsupio.
Mi immobilizzo per smettere di sudare, scrivo un minimo e nel frattempo la temperatura è calata e si sta proprio bene. Queste tiger areas sono ottime per fare un po’ di trazioni, altrimenti cammino sempre e le braccia servono solo per sollevare il dolce peso di Hans.
Incredibile la complessità di questo rito, sei stato privilegiato a potervi partecipare!
Per bere così penso dovrei allenarmi un bel po’… ma ci si può lavorare… hahaha!!!!
Incredibile la minuzia con cui descrivi tutto il rito, bravo e bellissimo!!!