Lezione di ieri: a viaggiare troppo e a studiare troppo, ci si sente di avere la verità in tasca.
Domenica 20/08/2023 Nadi (Fiji)
Dopo pranzo, per passare il tempo, andiamo al tempio indù con l’idea di visitarlo. Melrose intanto è già a Port Denarau, perché inizia il turno al ristorante. Stranamente, per entrare nel tempio i visitatori devono pagare un biglietto di ingresso. Mi ricorda tanto le chiese in Italia, e credo di aver visto abbastanza templi quando ero in India. Resto fuori ad aspettare insieme a Mila, che a sua volta non vuole entrare.
Quando escono dal tempio, Raph e Magali sono molto interessati a fare una nuotata in spiaggia. Io ho con me lo zaino, ma tutti gli altri sono venuti senza attrezzatura. Così decidono di passare dal marina e ritornare questa sera. Mila e io li accompagnano alla stazione degli autobus, per poi ritornare lentamente verso casa. Non c’è molto altro da vedere a Nadi, in realtà.
Mila ha 25 anni e viene da un paesino parecchio lontano da qui, situato nell’interno. Abita qui con Melrose da parecchi mesi, in cerca di lavoro. Prima di trasferirsi guadagnava qualche soldo come fotografa ai matrimoni e ai funerali. Poi è capitato che ha prestato il proprio cellulare ad un conoscente e questi lo ha perduto. È sottinteso che, per fare il fotografo nei paesini figiani, basta un telefono con una fotocamera decente. Lavorare come fotografa non è solo un mestiere, è proprio un sogno per lei, tanto che a volte va a fare le foto in paesi lontani dal proprio. In questi casi il suo compenso basta appena a pagare i biglietti dell’autobus di andata e ritorno, ma ci va lo stesso, piuttosto che perdere il cliente. Ora che ha perso il telefono, non sa che fare. Aspetta che tra qualche mese venga a trovarla suo fratello, che abita in Australia, così per Natale riceverà un telefono nuovo. Per il resto cerca lavoro e resta a casa al riparo dal caldo diurno. A passeggiare per la città sta soffrendo tantissimo, sulla via di casa facciamo parecchie soste.
Da quello che mi hanno raccontato oggi, Nadi non rispecchia affatto la situazione socioeconomica delle Fiji. Forse i miei pregiudizi non erano così sbagliati, per questa volta. Come per confermarlo, a cento metri da casa incrociamo un ragazzo dai vestiti logori è molto più lunghi della sua taglia, che cammina sbilenco lanciando occhiate qua e là. Mila si scansa un po’ per farlo passare, e poi mi spiega sottovoce che quel sacchetto che ha in mano è per sniffare la colla.
Ci chiudiamo in casa al riparo dal solleone, con una bottiglia di Fanta per reintegrare gli zuccheri. Siamo seduti sulla stuoia a gambe incrociate, una buona scusa per raccontare la solita storia di quanto fossi legato un anno fa, quando potevo restare seduto così per appena cinque minuti di fila. Di ritorno, Mila mi spiega perché non ha pranzato insieme a noi. Era vicino a me, ma scuoteva la testa in disparte, intenta a cucinare sul fornello. La ragione siamo noi ospiti, che facevamo sbellicare dalle risate. Charlotte seduta con un ginocchio a terra e l’altro contro la spalla, Magali con le gambe piegate di lato, Raphaël accovacciato sulle ginocchia, tutti a cambiare continuamente posizione, come se sul pavimento ci fossero i ceci. Ernest e io ci siamo salvati solo perché abbiamo passato molti mesi in Asia. Immaginate la stessa scena sulle sedie della vostra cucina, e capirete quanto sia stato esilarante per Mila.
Non sa ancora molto della traversata di Valiant, così si fa raccontare com’è andata. A un certo punto mi interrompe dicendo “Qui alle Fiji, noi diciamo che un uomo non è un vero marinaio finché non ha navigato sull’oceano quando le onde fanno sul serio. Quando un marinaio torna da un viaggio così, gli è già passata la voglia di andare per mare.”
“Come faccio a sapere se le onde facevano sul serio?”
“Se la barca faceva così,” Mila mima con la mano aperta una barca in balìa di sei metri d’onda, “Se la barca faceva così, allora avete visto l’oceano vero.”
Deduco che non non possiamo ancora considerarci dei marinai figiani. Mila è già stata per mare con il padre, originario di Viti Levu, mentre la madre è nata non lontana da Nabowalu, a Vanua Levu. Mila non torna a Vanua Levu da anni, perché il viaggio è lungo e costoso. In quel paesino sulla costa, tutti quanti sono stati cristianizzati, grazie all’arrivo dei missionari più di cent’anni fa. Tuttavia, la popolazione sta ancora pagando caro un misfatto commesso molto tempo fa. Quando arrivarono da Viti Levu i primissimi missionari, marito e moglie di origini inglesi, insieme al figlio piccolo. Vennero ospitati in una delle case del villaggio, ma una notte furono uccisi da alcuni uomini. La punizione non si fece attendere, perché tutto il paese ricorda bene come una madre non vide tornare a casa tutti e sette i propri figli. Furono trovati giorni dopo, morti suicidi su una palma da cocco. Molti anni dopo arrivarono altri missionari, che ricevettero la giusta accoglienza e protezione, ma ormai era troppo tardi. Come tutti, Mila sa bene che l’Antico Testamento parla di punizioni che arrivano fino all’ottava generazione. Infatti la stessa sorte toccò ad un suo zio, circa trent’anni fa. L’ultimo a essere coinvolto in questa oscura vicenda, è stato un ragazzo di nove anni, l’ottava generazione dai tempi del fattaccio. Nel 2019 si è presentato alla stazione di polizia, in stato confusionale, riportando il proprio incontro inquietante con una signora bianca dai capelli biondi, la stessa che è stata associata ai numerosi casi di suicidi del passato. La storia che mi ha raccontato era pressappoco così, piuttosto intricata. La riporto perché mi sembra interessante conoscere la percezione di Dio che hanno i paesani di laggiù.
Da ultimo, imparo anche qualcosa riguardo alle usanze tra i clan delle Fiji. Si può certamente contare sugli amici, ma bisogna guardarsi dai nemici, anche in città. Se per esempio hai appena comprato il pranzo e passa un tizio di un clan nemico, quello ti ruba il pranzo e tu non puoi farci niente. È suo diritto appropriarsi delle tue cose, perché siete nemici. Così mi ha spiegato Mila.
Ormai è ora di cena, quindi usciamo a comprare qualcosa da abbinare alla cassava avanzata a pranzo. Nel piccolo negozio di alimentari dall’altra parte della strada, fare la spesa non è affatto semplice. Siamo senza soldi, quindi Mila è andata dalla vicina di casa per usare il wifi. Tramite il wifi ha chiesto al fratello in Australia di inviarle una sorta di bonifico bancario da venti dollari figiani, con i quali pagare alla cassa. Alla cassa non accettano il codice del bonifico, quindi bisogna chiedere ad un inserviente del negozio se ci può aiutare. Non so quale magheggio abbiano fatto mentre parlavano fitto fitto, fatto sta che l’inserviente riesce a pagare online, tramite il codice QR alla cassa. Il problema è che la compagnia proprietaria del negozio non accetta pagamenti elettronici inferiori a venti dollari, quindi Mila deve spendere tutti i venti dollari. Compra parecchi snack fritti, una bibita e due caramelle, così da arrivare proprio a venti. Non so chi abbia inventato questo sistema balordo, ma sicuramente i profitti vanno a gonfie vele.
Prima di cena ritorniamo dalla vicina di casa, che affitta l’appartamento accanto a quello di Melrose. Ci sono tre bambini piccoli che scorrazzano per la stanza, talmente assuefatti alla televisione accesa da non averla neanche in nota. La potente connessione internet di una compagnia telefonica economica delle Fiji non riesce a tenere il passo con un video di Youtube, così il video si inceppa di continuo, ogni trenta secondi di immagini ci sono circa trenta secondi di caricamento. Ecco perché le compagnie offrono così tanti gigabyte a un prezzo stracciato. I video sono canzoncine per bambini, per imparare l’inglese. Rimango piuttosto turbato dalla canzone sulla pasta cantata a ritmo di tarantella. Un autentico capolavoro di stereotipi sugli italiani. (La canzone si chiama Pasta, pasta, pasta everywhere) Grazie al wifi ricevo alcune notizie da Port Denarau, a quanto pare i miei compari hanno deciso di non dormire qui e torneranno in città domattina per visitare un giardino botanico situato più a Nord.
Nella stanza, seduta sul pavimento dietro di me c’è Mere, la mamma dei bambini, che sta friggendo sul fornello a petrolio dei tocchetti di pasta lievitata. Ne assaggio uno, che mi riporta subito in un paese lontano, dove la pasta fritta spolverata di zucchero si chiama bombolone. Che bontà.
Naturalmente non posso collaborare alla produzione della cena, così stendo la tovaglia sulla stuoia e apparecchio. Il resto della serata lo passiamo in chiacchiere, in attesa che tornino le altre due coinquiline di Mila. Melrose non rientra prima dell’una di notte, perché il ristorante chiude tardi.
Quando la casa è al completo, andiamo a letto sui sottilissimi materassi della seconda camera della casa. Ho un materasso tutto per me, grazie a Melrose che si stringe insieme alle altre.
La mattina dopo esco di casa con Melrose per incontrare li altri all’autostazione. Nell’attesa, mi faccio raccontare i problemi delle Fiji. Dai tempi dell’indipendenza dalla dominazione inglese nel 1970, il governo ha cercato di trovare un equilibrio tra i gruppi etnici presenti nel paese. La popolazione è costituita da indiani e pakistani per quasi il 40%, contro il 55% di figiani. Naturalmente, se l’economia del paese non va a gonfie vele, il razzismo è dietro l’angolo. È talmente grave che recentemente è stata approvata una legge che vieta, ad esempio, di chiamare “indiani” i figiani di origine indiana, perché in effetti la maggior parte di loro vive qui da molte generazioni. Il ché spiega perché Avi mi ha detto di essere figiano, anche se ha palesemente tratti somatici del Sud dell’India. Questa spaccatura etnica si riflette anche nel parlamento. Nonostante ci sia un solo governo per tutti, alcuni partiti cercano voti nell’elettorato di origine figiana e altri simpatizzano per i figiani di origini indiane. Anche se ormai, dopo così tante generazioni, l’unica distinzione tra i primi e i secondi sono i lineamenti. Non è una novità che queste differenze vengano sfruttate dalla politica.
Appena gli altri arrivano, prendiamo il primo autobus verso Lautoka. Sarebbe interessante guardare il paesaggio tutto intorno, ma le ore piccole delle ultime due notti mi fanno crollare addormentato. Lord Asparagus si scatta subito una foto con me che ronfo appoggiato alla sua spalla.
Siamo quasi arrivati, l’ultimo tratto lo percorriamo in taxi. Scendiamo davanti alla casa di Suva, un ex collega di Melrose. La casa è un cubetto di legno, ricoperto da un tetto di lamiera, con una camera da letto e una sala da pranzo arredata dallo scaffale con il pentolame e due fornelli a gas appoggiati per terra. Il bagno si trova di fronte a casa. Tutto attorno c’è un giardino di palme da cocco e cespugli di cassava, con vista sul torrente. Con Suva vive Miri, entrambi hanno una ventina d’anni. Miri sta friggendo per noi della cassava, da mangiare insieme a qualche salsa o con il peperoncino a pezzetti. Mi assumo l’incarico di finire il peperoncino. Da bere abbiamo un concentrato al sapore di lampone, sciolto in acqua e ghiaccio. Mentre la cassava frigge, facciamo conoscenza e organizziamo la passeggiata al giardino, che include il guado del torrente. È l’occasione per imparare da Suva un po’ di gergo figiano. Tarengalem style è l’espressione usata dai giovani per indicare un piano raffazzonato, oppure affidato all’improvvisazione. Nel caso specifico, sta parlando di me che sono l’unico qui con i pantaloni lunghi. Fare a meno del costume da bagno e attraversare il torrente in mutande è “tarengalem style”. Ho cercato questa espressione online, ma non ne ho trovato traccia. Immagino si scriva così.
Finito di sgranocchiare cassava fritta, partiamo verso il giardino dei Giganti addormentati. Passiamo attraverso i campi, mentre Suva e Miri ci illustrano le specie botaniche coltivate alle Fiji. Palme da cocco, canna da zucchero, cassava, taro, banani, zucche, melanzane, peperoncini. Gli alberi di guava crescono spontanei, non serve neanche seminarli. Lo stesso vale per alcune delle verdure che si trovano al mercato in città, ota e spinaci crescono nei campi e lungo i corsi d’acqua. Si usa un po’ tutto, da queste parti.
Entrati al giardino, passeggiamo in una vasta collezione di orchidee, per le quali Magali va matta. Poi il sentiero attraversa una tenuta ricoperta di foresta, fino alla cima di una collina. Le nostre guide, assolutamente disabituate a deambulare in pendenza, stanno sputando un polmone dalla fatica e dal caldo. In cima c’è un punto panoramico, con una bella vista sulla pianura e sulle colline a forma di giganti, piene di foresta e di alberi fioriti di rosso. Per pietà, evitiamo la seconda collina e scendiamo di nuovo a fotografare le orchidee.