Un signor brindisi

Lezione di ieri: bisogna approfittare delle feste per defilarsi nella foresta.
Domenica 01/01/2023 Desa Tadupi (Indonesia)
È ottimo trovarsi qui e poter gridare a piacimento, il concerto a Sofifi non sarebbe stato adeguato.
Proseguo a lungo con le telefonate, finqqo alla mezzanotte italiana. Sono meravigliose le videochiamate senza la torcia puntata in faccia, ora che qui è giorno fatto. È stata una buona idea fare il bis come l’anno scorso, campeggiando a capodanno. È bello passare il Natale in famiglia, ma capodanno è un’occasione troppo ghiotta per non fare telefonate a destra e a manca. Ho ancora con me metà delle banane di Kotamobagu, un chilo di riso e noodle istantanei. Quest’anno non mi va di cucinare, perciò mi sono appena procurato mezza dozzina di noci di cocco per fare un brindisi speciale. Guardacaso qui nella piantagione c’è una palma caduta, con parecchie noci ancora verdi, che sono le migliori da bere. Ieri sera le ho sbucciate con cura, così adesso sono tutte in fila, pronte da stappare. Già che ci sono, porto anche qualcuno a fare un giro virtuale nella foresta, a dieci metri dall’amaca. È quasi come aver trascorso un giorno in Italia, fa un effetto strano trovarsi di nuovo alle prese con la traversata dell’isola di Halmahera. Che cosa faccio oggi?
Rifaccio lo zaino, con la calma dettata dal sole già alto, per poi scendere in strada in cerca di un passaggio fino a Payahe. Magari è meglio se prima cammino un altro po’, tanto qualcuno si fermerà senz’altro a offrirmi un passaggio. Dieci minuti dopo, Iksal è il primo a impietosirsi di un povero derelitto come me che per spostarsi usa i piedi. Giammai, non in Indonesia!
Iksal, così come la maggior parte degli indonesiani, dimostra molti meno anni di quelli che ha. Già che ci sono, approfondisco il discorso sul popolo della foresta, per capire se davvero non corre buon sangue o se si tratta solo del terrorismo dei miei amici di Tadupi. In realtà non c’è modo di saperlo senza incontrare i nativi personalmente, perché quasi nessuno ha mai avuto contatti diretti. Iksal è originario di Tobelo, nel Nord dell’isola, e lassù i rapporti con gli indigeni sono buoni, addirittura parecchi nativi hanno lasciato la foresta e vivono in paese. Si sono spostati in paese perché le compagnie minerarie estraggono nichel dal sottosuolo della foresta vergine? Certo che sì, benvenuti in Indonesia.
Facciamo un paio di fermate a consegnare pacchi, fino al crocevia di Payahe. Iksal proseguirà fino a Weda, ma io sono ancora convinto di andarci a piedi, in quattro giorni.
Mi siedo davanti ad un piccolo negozio di alimentari, per finire di elaborare il piano. Un uomo, che sembrerebbe il proprietario del negozio, inizia con le solite domande indonesiane. Si può ben immaginare il mio sgomento quando scopro di essermi fermato proprio di fronte all’ufficio della polizia, accidenti a me! Non solo, l’uomo davanti a me è un poliziotto dentro. Da fuori invece sembra un tizio qualsiasi, in pantaloni corti e infradito.
Questa volta sono fortunato, non subisco il quarto grado e me la cavo con quattro chiacchiere in amicizia, lì sulla panchina davanti al negozio. “Puoi mangiare il riso?”, chiede lui. Io non so mai cosa rispondere perché non ho mai conosciuto nessuno con intolleranza al riso, salvo i diabetici. Spesso lo faccio notare e la gente si mette a ridere. Un viaggiatore in Indonesia che non mangia il riso è un po’ come un vegetariano in Antartide. Questa volta però ho torto io, il poliziottomi racconta che in passato si sono fermati qui due americani, i quali mangiavano solo mais, niente riso. “Il granturco qui lo dà solo ai polli”, ribatto io.
Avendo valutato che la mia voglia di cucinare è ancora parecchio scarsa, vado a mangiare da solo nel ristorante di fronte. Oggi si mangia pesce arrosto, ricoperto di pomodori e cipolla a fettine secondo l’uso locale. Oltre al pesce ci sono anche delle verdure non identificate, ma dall’aspetto appetitoso. La porzione di riso è un colapasta pieno, al quale si può attingere liberamente, a seconda della voracia.
Venti minuti dopo, non resta altro che piatti vuoti. Metto in carica il telefono nuovo e mi siedo sulla veranda a digerire. Mentre aspetto, completo l’indovinello in rima, necessario per ritrovare il tesoro di Mompracem.
Un paio d’ore prima del tramonto è ora di mettersi in marcia, così riempio d’acqua la mia gobba da cammello (lo stomaco, non la camel bag), riempio tutte le borracce e intraprendo la traversata lungo la strada asfaltata. Sono l’unico straniero nel raggio di decine di chilometri, forse centinaia. Perciò mi piove addosso una doccia di “Mochemanà, mistèr?” Il mio enigmatico “Non lo so ancora” lascia tutti basiti e confusi, ma non abbastanza confusi da ripetere la domanda finché tra le mie risposte spunta la parola “Weda”. Adesso è tutto chiaro, sono diretto a Weda. Lungo questa strada non c’è niente di niente per venti chilometri, forse si poteva intuire anche senza suggerimenti. “Riposati prima, mistèr!” A dar retta agli indonesiani, a quest’ora si muore di caldo. Camminare è un’attività del tutto inconcepibile, specie a quest’ora. Proprio nel punto in cui pensavo di svicolare per risalire una valle ricoperta di foresta, accidenti. Inoltre la gente continua a farneticare che mi devo sedere, riposare, bere eccetera eccetera. Se svoltassi adesso tra i cocchi impazzirebbero tutti, correndo dalla polizia e strappandosi i capelli dalla disperazione per il mio gesto suicida. Forse così è un po’ estremo, nessuno mai si metterebbe davvero a correre. Allungo il passo per sparire dalla vista, prima che qualcuno riporti alla polizia il mio abuso di  quadricipiti.
Avendo mancato la svolta, ormai è piuttosto chiaro che dovrò affrontare la salita lungo la strada, ricavata nel fianco della montagna. Un’ora dopo trovo un sentiero, aspetto che non passi nessuno e scompaio tra gli alberi. Più che un sentiero si tratta del letto di un ruscello ripido, ma indubbiamente qualcuno lo usa per raggiungere un microscopico spiazzo dove sono stati piantati alcuni alberi di noce moscata. I frutti che sembrano delle susine dorate o delle enormi ciliegie potrebbero non essere familiari, ma il forte profumo rende questi alberi assolutamente inconfondibili. Sono già bagnato fradicio e sgocciolo copiosamente, prima di riprendere la salita bisogna che mi fermi a raffreddare il motore.
Continuo a inerpicarmi su per la collina, tra piste di animali e scorciatoie discutibili, fino alla cima. Come spesso accade, in cima c’è un sentiero. Sono ancora vicinissimo alla strada e quassù qualcuno coltiva noce moscata, banane e qualche zucca. Attraverso gli alberi radi riesco addirittura a vedere il tramonto sul mare, oltre la piantagione di cocchi che ha invaso la pianura. Per completare il quadretto, un bucero di Blyth viene ad appollaiarsi su un albero poco distante, dove lo posso osservare bene. Appendo l’amaca, valutando il da farsi. Avevo immaginato di poter attraversare le valli dell’isola, ma i versanti sono decisamente troppo ripidi, è impensabile. Domani scenderò di nuovo in strada per proseguire fino al passo. Da là dovrei riuscire a raggiungere l’altopiano che si trova a Nord della strada, interamente ricoperto di foresta incontaminata. Sono un po’ stanchino, facciamo che dormo.

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