Un sentiero da pecora

Lezione di ieri: non importa partire presto o tardi, l’importante è farlo allora giusta.
Venerdì 31/12/2021 8:44 Izmir (Turchia)
Ho messo il naso fuori mezz’ora fa e c’era ancora piuttosto buio, quindi l’alba deve essere più o meno adesso. L’orario a cui mi sono svegliato ieri non era poi così tardi allora.
Molto bene, l’articolo da pubblicare oggi è pronto, la prossima mossa è smontare tutto e scendere verso il centro per visitare i posti di cui ha parlato ieri Sinan, che sono a dieci chilometri da qui. Grazie a Sinan ho risparmiato almeno un giorno di viaggio, che è stato prontamente investito nella visita a Efeso, deviando leggermente dalla strada diretta per Pamukkale.
Ah, già, che cosa sta facendo la lira oggi? È risalita a quindici lire per euro, è ora di comprarne un po’, è da dieci giorni che aspetto.
10:05
Da qui all’ascensore storico ci sono dieci chilometri, poi altri due per arrivare all’agorà e altri dieci per raggiungere l’inizio dell’autostrada che porta giù a Belevi, vicino alla mia meta. Il bazar si trova tra l’agorà e l’autostrada, quindi ci passerei comunque. Bisogna tagliare qualcosa però, altrimenti dovrò tornare a Buca (si dice Bugia) anche stanotte. Senza sapere niente, mi pare che l’ascensore si possa depennare senza troppi rimpianti. Viene venduto come un impianto vecchissimo, ma l’ascensore è stato inventato dal signor Otis 170 anni fa, non credo che il primo modello sia stato installato proprio a Izmir. Così risparmio almeno quaranta minuti, si può fare.
12:40
L’ingresso del sito archeologico è a pagamento, è stato aumentato da 82 a 120 lire per mezzo di un pratico adesivo. Si può pagare, sembra interessante. All’interno del sito archeologico c’è l’antica basilica della città, intesa come mercato romano, non come luogo di culto. Gli scavi effettuati hanno scoperto il pian terreno dell’edificio, con le botteghe dei mercanti ancora intonacate e dipinte. Non si possono vedere direttamente perché quella parte è chiusa, ma sono ben descritte dai cartelli didattici. Sui muri ci sono disegni di navi, annotazioni di prezzi, nomi di persone, frasi, partite a tris e tutte quelle cose che si incidono sui muri quando la carta scarseggia perché la producono solo i cinesi.
Con il passare dei secoli questo piano è stato abbandonato e convertito in una cisterna per l’acqua, che ancora riceve un potente getto d’acqua proveniente da una sorgente ignota. Gli idraulici che hanno posato i tubi sapevano il fatto loro.
Un piano sopra, dove si trova attualmente il livello del terreno, c’è un grande prato in cui sono stati raggruppati per tipo gli elementi architettonici ritrovati durante lo scavo. Non ci si può passeggiare in mezzo, sono disposti in ordine, tutti vicini tra loro come se fossero in vendita. Concludo la visita alla cisterna riempiendo la mia cisterna da due litri e mezzo. Due borracce più la bottiglietta che mi ha dato Vadat.
Circa un’ora dopo la visita è finita e mi incammino verso l’autostrada, passando per il bazar. Il bazar è carino, strapieno di merci e coloratissimo, ma di bazar a Istanbul ne ho visti abbastanza, lo attraverso lentamente seguendo il flusso della folla e mi dirigo con decisione verso l’autostrada. Maps non distingue tra strade turistiche e quartieri poveri, perciò seguendo una via sterrata parallela alla ferrovia passo accanto a case spoglie e fatiscenti, dove la spazzatura sparsa in strada è il problema minore. È giorno e non sono in un quartiere malfamato, anche se dà l’impressione di non essere in un posto sicuro non ci sono brutti ceffi in giro, solo qualche pendolare c’è sta andando a prendere il treno. La lunghezza della strada si fa sentire, ma per mantenere il passo ho il cibo che mi ha dato ieri l’altro Vadat, perfetto come spuntino.
Dopo un’ora trovo un paio di bancomat. Mi ero ripromesso di ritirare un po’ di contante perché è da due giorni che viaggio con quattro lire in tasca, abbastanza per comprare mezzo chilo di pane e niente di più, perché un kebab ne costa circa diciotto. Ma a cosa mi servono i contanti? Se faccio la spesa al supermercato posso usare la carta, per spostarmi e per dormire non pago niente e se proprio ho bisogno posso pagare con i quindici euro che mi sono rimasti dal Kosovo. C’è troppa fila qui, troverò un altro bancomat più avanti.
17:10
Per ultimo faccio la spesa per stasera, perché anche se sarò da solo il cibo non deve mancare, è capodanno anche per me. Con lo zaino ben carico vado sullo svincolo dell’autostrada, vicino alla stazione degli autobus. Qui ci sono un paio di persone che aspettano la corriera e altri tre che devono spedire una catasta di pacchi. Il più vecchio dei tre si avvicina curioso e mi chiede da dove vengo. “Italia?! Mia figlia ha sposato un italiano, si chiama Marco-qualcosa”. Non parla inglese e io non capisco il turco, ma nella sua frase c’è “italyan” e mima un anello nuziale, mi sembra chiarissimo. Mi chiede perché non prendo un autobus e il fatto di avere quattro lire mi sembra più semplice che spiegargli che mi piace fare l’autostop. In turco so dire solo dove sto andando, quindi indico il numero quattro con le dita.
Li lascio alle loro attività e mi sposto poco più avanti su questa strada polverosa, con il pollice alzato. Nel frattempo mi vede l’autista di un’auto sgangherata parcheggiata in una corsia fuori servizio e mi viene incontro. Si offre di portarmi a Efes dietro compenso, ma io non ho contanti e rifiuto l’offerta. Dopo una decina di minuti il suo compare attraversa la strada, scavalca il guard-rail e scende dal terrapieno. Non ho idea di dove sia andato, ma ritorna poco dopo con in mano una banconota da venti lire e me le porge in modo che possa prendere un autobus. “Grazie ma non c’è bisogno, ce li ho i soldi se voglio.” Niente, insiste e lo ringrazio moltissimo per questa gentilezza disinteressata. Lui ritorna alla macchina e io mi avvicino al punto in cui si fermano gli autobus, che di fatto è una fermata. Ormai è da un’ora che sono qui, il sole è tramontato e resta ancora mezz’ora di luce. Anche se l’autostop è stato infruttuoso, ho avuto modo di osservare attentamente i traffici del suocero di Marco-qualcosa e dei suoi due giovani aiutanti. Intorno ad una macchina parcheggiata hanno una ventina di pacchi e qualche sacco di plastica stracolmo. Cercano di imbarcare un pacco su ogni autobus che passa, ma non tutti si fermano. Ne caricano solo uno e sembra che resteranno qui fino a tardi per spedirli tutti. Mentre uno di loro trasporta uno dei pesantissimi sacchi di plastica fuoriesce un po’ del contenuto: sono cozze ripiene di riso, proprio quelle cozze che si vendono per le vie di Istanbul insieme ai mandarini, come se fossero caldarroste. Noto solo ora quanti frammentidi cozze ci siano sparsi qui in giro e questa maniera di spedire i molluschi mi fa molto ridere.
Uno dei ragazzi, che prima si era offerto di pagarmi il biglietto dell’autobus, mi avvisa che sta arrivando l’autobus per Selçuk, vicino a Efes. Parla brevemente con l’autista e paga anche il biglietto. Me l’aspettavo, ma ho le venti lire qui in tasca, pronte da dargli. No, questa è la mascherina, questo è un guanto, eccole! No, è un vecchio scontrino. Nel frattempo tutti sono di fretta, lui mi saluta e se ne va perciò pazienza, lo ringrazio di nuovo e userò queste venti lire per levarmi dai pasticci nei prossimi tremila chilometri. È incredibile, pensavo di fare l’autostop e invece mi hanno offerto il biglietto dell’autobus, in due.
18:35
Sull’autobus siamo in ventuno e io sono seduto su un panchetto perché la mia presenza non era prevista. Non è male sedersi dopo 24 chilometri, è stato il percorso più lungo da quando sono partito. Da dove sono seduto posso vedere in faccia tutti i passeggeri, ma nessuno è interessato a fare conversazione, sono solo stanchi e non vedono l’ora di tornare a casa. Facendo l’autostop si è predisposti a fare due chiacchiere, ma qui è completamente diverso. Se qualcuno incrociasse il mio sguardo farei un tentativo, ma non succede e dopo mezz’ora di viaggio decido di lasciar perdere e studiare un piano per raggiungere Efes e accamparmi nelle vicinanze. Stasera sarò solo, ma ben lontano dai fuochi d’artificio dei turchi, che non so quanta cognizione possano avere. Normalmente il luogo che scelgo per pernottare risponde al requisito fondamentale che “non mi troverei neache se mi stessi cercando”. Dal Montenegro in poi è sufficiente trovare un posto senza tracce di rifiuti per essere certi che nessun essere umano moderno via abbia mai messo piede. Nelle otto notti passate all’aperto tra Macedonia del Nord e Bulgaria non ho trovato rifiuti solo in due occasioni, perché ho campeggiato sulla neve. Stasera è diverso, perché ho in programma di fare un falò e numerose telefonate a parenti e amici a casa. Mi serve un posto in cui poter bruciare e gridare quanto voglio senza che nessuno mi possa disturbare. Dentro di me ho riformulato la massima in “non mi troverei neache sapendo dove sono”.
19:35
Siamo a Selçuk (la c con la cediglia è una semplice c dolce, per la c dura c’è la kappa), da qui al sito archeologico ci sono tre chilometri di strada dritta. È molto semplice arrivare, spero solo che si possa transitare attraverso Efes, se la città è recintata dovrò inventare un’altra strada per raggiungere la collina a Sud, che è coperta di bosco. Alla svolta per la strada di Efes incrocio un’auto della polizia, che passa oltre senza fare domande. Forte dell’accondiscendenza delle forse dell’ordine proseguo fino al piazzale principale, illuminato a giorno e con una macchina parcheggiata al centro. Inevitabilmente faccio scattare l’allarme due cani randagi che si mettono ad abbaiare all’impazzata, come se mi importasse qualcosa di loro. Come sospettavo, il sito archeologico è recintato con rete, filo spinato e telecamere agli angoli, bisogna fare il giro. Mentre me ne vado vedo che nell’auto c’è una persona, che si è svegliata a causa di queste bestiole così simpatiche.
Fortunatamente c’è un sentiero che corre parallelo alla recinzione e segue tutto il perimetro di Efes, scompaio nell’ombra e lo seguo. C’è troppo buio per camminare senza torcia, me la metto in testa e attiro l’attenzione di altri tre amici a quattro zampe. Non puzzo di orso né di lupo, non ho mai visto predatori luminescenti, ma nonostante questo si solleva un fragoroso concerto in mio onore. Non si tratta solo dei due cani posti a guardia della casa sulla destra, ma sopraggiunge anche un piccolo cane dalla voce stridula, che si sgola dall’altra parte della rete. Sono terrorizzato da questo tentativo patetico di scacciarmi da un luogo a cui non posso accedere, aiuto. Pochi metri dopo la mia torcia fa riverberare nel buio un centinaio di occhi verdi, il gregge. Ho sempre la torcia al minimo mentre raggiungo il luogo giusto per campeggiare, quindi vedo solo tante coppie di cerchietti verdi, tutti rivolti verso di me come nei cartoni animati. Povere pecore, si saranno spaventate con tutta questa cagnara.
Passo oltre, fino a raggiungere il piede della collina, adibito a pascolo. Il punto a cui sto mirando è molto più su, anche se sulla mappa sono solo duecento metri in orizzontale. Dopo il pascolo c’è una striscia di uliveto, costellato di grossi cardi e di ombrellifere simili al finocchio selvatico, con gli steli delle infiorescenze alti due metri che sembrano quasi alberi. Questi sono i primi cinquanta metri, dopodiché inizia il bosco, denso di lecci, ulivi, querce spinose, marruche ginestre e vitalbe, un grande garbuglio spinoso in salita. Inizio a salire, mentre cento metri dietro di me i cani abbaiano ancora. Fanno sempre così i ladri di pecore, passano e tirano dritto verso il bosco senza toccare niente. Sono tremendi e rendono la vita dei cani un inferno.
Il bosco è fitto, ma oggi è asciutto e attraverso i vestiti le spine non graffiano. Ci sono moltissimi passaggi tra gli arbusti e le fronde degli alberi, ma sono ad altezza pecora, devo abbassarmi e farmi largo di prepotenza per attraversare il fogliame. A tratti il terreno è roccioso e mi fa guadagnare qualche metro senza troppo sforzo. C’è anche qualche piccola radura erbosa e ripida con delle piante che sembrano giunchiglie, ma è ben poca cosa rispetto alla distanza che devo ancora percorrere. A metà salita trovo una serie di archi in muratura ricoperti di piante, che mi sbarrano la strada. Sembrano parecchi, ma io sono ancora troppo vicino alla pianura, meglio aggirarli e salire ancora. Dopo vicoli ciechi un mare di piante e un paio di cadute raggiungo un punto aperto dove la via è sbarrata da una formazione rocciosa impraticabile con lo zaino in spalla. Poso lo zaino ed esploro i dintorni. È come temevo la baguette a lato dello zaino si è spezzata e ci deve essere mezza baguette laggiù nel bosco, da qualche parte. Chissà se gli uccelli di queste parti conoscono la fiaba di Pollicino.
21:06
Dopo mezz’ora di rampata su questi sentieri da pecora direi che sono sufficientemente imboscato da non dover aspettare visite, anche perché sotto di me c’è una sola casa, quella dei cani simpatici che stanno ancora abbaiando. Come si fa a spegnerli?
I palesi sentieri tracciati dalle pecore che ho seguito fin qui fanno sorgere un dubbio esistenziale. “È meglio un sentiero da leoni o cento sentieri da pecora?” Scelgo la seconda, se questo era un sentiero da pecora non oso immaginare come sia quello da leoni. Ora sono decisamente accaldato, posso preparare con calma il focolare in modo da non lasciare un mucchio di carbonella per terra. Mentre raccolgo le pietre trovo dei millepiedi molto carini che meritano qualche foto. Giulio, il mio entomologo di fiducia, dice che questi Diplopodi potrebbero appartenere al genere Melaphe, perché assomigliano molto alla specie Melaphe vestita. Sono dei piccoli mezzi cingolati rivestiti di una corazza nera a pois gialli brillanti.
Il focolare è formato da un ampio basamento di pietre piatte, circondato da un muretto a ferro di cavallo alto una trentina di centimetri, che ripara un po’ il fuoco dal vento e dalla vista. Raccolgo una buona scorta di legna secca e sono pronto ad accendere.
Stasera cuocio un sacco di lenticchie e il chilo di cosce e ali di pollo che ho comprato oggi. Niente alcol perché quando campeggio da solo non bevo, specialmente se accendo un fuoco. Da bere ho comprato un litro e mezzo di ayran, perché il capodanno turco va festeggiato come si deve.
23:52
Mentre le lenticchie cuociono, sospese sopra il fuoco, inizio con le telefonate chiamando a casa. Brindiamo all’anno nuovo quando in Italia sono ancora le dieci.
00:00
Sono nel futuro, in Italia è ancora l’anno scorso.

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