Un posto magico, scoperto per caso

Lezione di ieri: i rallentamenti dovuti alle piene possono essere risolti in tempi sorprendenti.
Venerdì 17/12/21 8:10 Madan (Bulgaria)
Ho dormito veramente bene, nonostante la temperatura sotto zero, e ha anche smesso di nevicare. Scrollo via la neve dal mio riparo e rapidamente avvolgo i miei averi in modo da farli entrare nello zaino senza dover tirar fuori tutto. Resta fuori solo il telo blu, che è ricoperto di acqua e ghiaccio e senza vento non ha speranze di asciugarsi. Sono quasi pronto il resto lo farò a metà strada, quando mi sarò riscaldato un po’ i piedi. Quando entrano nelle scarpe fredde ci mettono sempre parecchio a scaldarsi, tornano ad una temperatura normale solo dopo dieci minuti di cammino, a volte anche mezz’ora. Non è colpa loro, poverini, è difficile far arrivare il sangue laggiù in fondo prima che si raffreddi.
Mi fermo a metà strada verso il paese per pettinarmi un minimo. Il risultato è una schifezza e quindi mi bagno i capelli alla fontana, in modo che si arriccino di nuovo. Mi tolgo anche un po’ di strati ed è giunta l’ora di togliermi la calzamaglia perché il quadricipite è tornato pienamente operativo. Ovviamente nei dieci secondi in cui mi cambio le mutande passa una macchina. Mi ritiro tra i pallet di piastrelle alle mie spalle e capisco perché non l’ho sentita, nonostante avessi le orecchie tese. Scende con il motore spento.
Pazienza, nei venti minuti successivi non passa nessuno, ma è così che funziona, scende una macchina ogni quarto d’ora e poi due a distanza di un minuto. Giù in paese il museo è decisamente chiuso, ma in fondo cosa vuoi che ne sappia il bar di fronte?
Ora l’obiettivo è raggiungere Madžarovo, oggi o più probabilmente domani, per oggi mi accontento di visitare Zlatograd e arrivare a Kardžali. Il primo a trasportarmi è Antun, che ha ventitre anni e lavora nell’esercito Bulgaro. Esta uno sportivo e nel baule ha la cintura da pesista e tutto l’occorrente per il campeggio. Sta tornando a casa e mi accompagna in una visita guidata lungo la valle. Diversamente da quello che mi aspettavo, le valli sono due e sono separate dal passo Pečinsko, dal quale la vista spazia sulle cime dei Rodopi meridionali e si vedono le alture della Grecia, un paio di valli più in là. Ci fermiamo a fare qualche foto, poi mi porta a vedere un piccolo lago artificiale dall’acqua azzurro-turchese. Non ci sono uccelli sull’acqua e il motivo è molto semplice: la miniera di carbone a monte ha provocato una pesante contaminazione che ha reso l’acqua praticamente sterile. Ormai la neve è sparita del tutto e più a valle c’è Zlatograd, che letteralmente significa città d’oro. Ringrazio Antun e scendo per visitare questo antico borgo passando attraverso una miniatura di Ponte Vecchio, il ponte di Firenze. Il ponte di Zlatograd è decisamente piccolo perché l’alveo del torrente Erma è largo poche decine di metri, ma è un ponte coperto a due piani decisamente peculiare. Oltre il ponte la strada è lastricata e le case sono state restaurate secondo lo stesso stile delle vecchie abitazioni di Plovdiv. La struttura portante è delineata con travi di legno a vista, i cui riquadri interni sono intonacati e dipinti di bianco o di azzurro. Spesso il primo piano sporge rispetto al piano terra ed è puntellato sul muro sottostante con delle travi disposte in obliquo. Chiedo alla custode di un museo la giustificazione del nome della città. Con inglese, bulgaro e gesti mi spiega che la parola “zlato” deriva dal colore dorato delle foglie di tabacco essiccate, per le quali la città era famosa. Svelato il mistero direi che restano da visitare solo la chiesa e la scuola adiacente, la prima scuola di Zlatograd. Qui amano ricostruire gli edifici rimettendoli a nuovo, quindi il fascino della città è più folcloristico che storico. A quanto vedo sui manifesti, qui si svolgono molte rievocazioni storiche durante l’estate, deve essere ancora più bello quando si popola.
14:50
Il centro moderno del paese è distinto dal centro storico, così mi fermo in piazza a mangiare una crêpe e a scrivere con calma le nuove destinazioni sul cartone. È ora di andare, meglio muoversi perché Kardžali è ancora lontana e Zlatograd è sviluppata in lunghezza seguendo la strada. Gioco a un due tre stella con le macchine, nel senso che passano a piccoli gruppi e lungo la strada ci sono molti spiazzi in cui accostare, quindi mentre raggiungo l’estremità del paese posso già iniziare a cercare un passaggio.
Non è facile, ma alla fine si ferma Ysein (credo che si scriva così, comunque si pronuncia Üsein), un signore di settant’anni che sta andando verso un paesino insignificante sulla strada per Vurben e Kardžali. Va benissimo, più case mi lascio alle spalle più possibilità ho di trovare un passaggio. Tiene la musica alta e non si riesce a conversare con questo sottofondo balcanico, perciò una volta capito dove sta andando mi dedico a guardare fuori, mentre lasciamo la valle e l’orizzonte si allontana.
Mi lascia alla svolta per Erovete, nel bel mezzo del nulla, ma di fronte ad un affittacamere. Qui il traffico è decisamente scarso e quindi aspetto pazientemente che arrivi la macchina giusta. Non sono abituato ad aspettare venti minuti di fila, dopo dieci inizio già a guardare l’orologio con preoccupazione. Non c’è niente da temere, è in arrivo Boyko che va proprio a Kardžali ed è pronto a fermarsi a prendermi. Ha studiato veterinaria e ora viaggia per la regione prelevando campioni di latte da analizzare. Gli piace perché almeno non sta tutto il giorno al chiuso, è sempre in giro per la stessa regione ma in qualche modo viaggia. Si meraviglia che io sia vaccinato, i matti che viaggiano con lo zaino in spalla e in autostop danno l’idea di voler essere alternativi un po’ in tutto. Gli do ragione, probabilmente le vaccinazioni sono un’eccezione e vedendomi da fuori direi la stessa cosa di me stesso. Finito di parlargli del viaggio, provo a chiedere se c’è qualche posto da visitare nei dintorni di Kardžali, scoprendo un posto di cui non sospettavo l’esistenza. Deviando di qualche chilometro si arriva a Perperikon, un antichissimo sito archeologico che sembra essere anche molto bello.
Ci salutiamo in centro e Boyko mi raccomanda per l’ennesima volta di fare attenzione, dopodiché faccio una breve spesa e mi incammino verso Est. Normalmente l’autostop è una sorta di pesca con la canna, ma se il tempo stringe e il posto non è buono, si può sempre provare a pescare a strascico, camminando con il cartello voltato indietro in modo che sia ben visibile agli autisti di passaggio. Raramente funziona, perché è importante farsi vedere in faccia, ma tanto vale tentare.
Questa volta non funziona, ma camminando mi è venuta in mente l’analogia e mi è sembrato il caso di riportarla qui. Dopo un lungo appostamento, salgo a bordo con Gynai (si pronuncia Günai), che parla solo bulgaro e passa a sei chilometri da Perperikon, che è perfetto per me. Ora sono sicuro di poterci arrivare.
16:15
Saluto Gynai e prima ancora di allacciare lo zaino una macchina svolta nella strada secondaria che porta a Perperikon. Lo fermo al volo e lui acconsente ben volentieri a dirmi un passaggio. Ha circa sessant’anni, si chiama Mehmet e pronuncia il proprio nome in maniera abbastanza comica, velocemente e con voce un po’ nasale, come se fosse un Road Runner bulgaro. Meep meep! Guida normalmente, è solo simpatico. Mi porta addirittura su nel piazzale di accesso al sito archeologico, indicandomi un paio di posti al coperto dove posso fermarmi a dormire.
Lo ringrazio molto e salgo con impazienza verso le rovine, cercando di arrivare prima che faccia buio in modo da decidere dove appendere l’amaca con un minimo di consapevolezza di che cos’ho intorno. Il cartello di presentazione del sito archeologico informa i turisti che questo insediamento è stato fondato ottomila anni fa ed è proprio qui che Alessandro Magno ricevette dall’oracolo la profezia che avrebbe conquistato il mondo. Telefono a casa per comunicare a qualcuno queste due informazioni sconvolgenti, scoperte per caso poco prima di passare oltre e lasciarmi questo posto alle spalle. Trovo la Sofia, mia sorella, e ragioniamo insieme su che cosa spingesse gli antichi a costruire gli edifici con dei macigni così grossi che non si sono ancora spostati dopo millenni. Oggi i nostri edifici di cemento non durano tanto a lungo e ne rimarrebbe ben poco dopo cinquecento anni, figuriamoci dopo ottomila. Gli edifici qui non sono solo costruiti, ma alcuni sono stati scavati nella roccia. Va bene l’eterna memoria, ma qui non abita più nessuno da millenni. L’unica spiegazione è che gli antichi fossero fortissimi e non facessero nessuna fatica. Questo gli ha permesso anche di compiere abbastanza atti eroici da riempire tutti i libri di letteratura dei licei classici, fino all’ultima pagina. Quando sei un eroe il minimo che puoi fare è costruire una città di pietra che duri migliaia di anni. Solo i bifolchi cambiano casa ogni quarto di millennio, che sarebbero solo dodici generazioni.
Finito il momento di condivisione inizia a farsi buio ed è il caso di scegliere dove dormire perché è buio. Di appendermi alle rovine non se ne parla, perché se si stacca un sasso poi chi lo sente Bonni? Meglio mettersi al riparo dal vento e nella macchia di bosco all’interno della città. I miei cartelli mi servono asciutti perché la zona che sto per attraversare è poco abitata, quindi è più difficile reperire gli imballaggi usati. Lascio tutto il cartone all’asciutto sotto una tettoia, dopo aver verificato attentamente l’assenza di infiltrazioni.
C’è ancora un po’ di neve qua e là e si vedono un po’ di impronte di cane vicino al sentiero. Probabilmente era il cane di un visitatore, vedo le impronte delle sue scarpe nella neve. Tanto meglio, non c’è più nessuno e posso appendere l’amaca in pace, mentre inizia a nevicare debolmente.
Gli alberi che ho scelto sono troppo vicini tra loro. Non so perché, ma ogni volta sottostimo di mezzo metro la lunghezza dell’amaca e stavolta gli alberi sono davvero troppo vicini, toccherei per terra. Uff! Niente, trasloco. Rimonto tutto quanto in modo da scoprire lo zaino e l’amaca per il minor tempo possibile, in modo che i fiocchi di neve non li bagnino. Il trasferimento è rapido e indolore, basta un po’ di cura nell’ancoraggio del telo a terra e il gioco è fatto. Si preannuncia una notte ventosa e il termometro è di nuovo a -2°C, per la quarta notte di fila, indipendentemente dall’altitudine c’è sempre meno due e ormai ci sono abituato.
Stasera faccio qualche altra telefonata e nel frattempo il vento si calma e inizia a nevicare.
Dopo qualche ora esco dal riparo e alla luce della torcia mi appare un paesaggio fiabesco, fatto di fiocchi di neve appena caduti. Fa freddo e non si sono ancora sciolti, con un po’ di pazienza e inclinando la luce nel modo giusto riesco a fotografare qualche fiocco. La temperatura diurna era prossima allo zero in questa zona in ombra, perciò la neve è rimasta appollaiata sui rami, anche sulle frasche più sottili. C’è persino della neve aggrappata alle asperità dei tronchi più lisci, formando delle cornicette orizzontali. L’unica parte non imbiancata si trova proprio sotto al mio telo, dove dormo insieme ad un piccolo faggio.
Lascio la magia là fuori e torno al caldo e al chiuso, a scrivere un po’. La neve rimarrà dov’è fino a domani, non c’è fretta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *