Lezione di ieri: l’autostop in autostrada funziona male.
Sabato 01/01/2022 00:00 Efes (Turchia)
Ho cotto decisamente troppe lenticchie, ma da adesso a domattina ho tutto il tempo per finirle, mi tornerà fame. Inizio le telefonate agli amici, che sono parecchi e separati a causa delle quarantene. Dopo qualche telefonata inizia a farsi tardi, rimaniamo svegli solo io, Tarab e la Federica, mia cugina. Ah sì, noi tre e i cani, che non la piantano di abbaiare, forse perché vedono la luce fioca che il mio fuoco proietta sulla roccia dietro di me. La mia opinione sull’intelligenza dei cani si sta deteriorando rapidamente negli ultimi tempi, bisogna che nei prossimi giorni telefoni a qualche amico cinofilo che mi aiuti a riprendermi.
Per passare il tempo mi metto ad arrostire qualche aletta di pollo, molto lentamente, usando un trespolo improvvisato per sostenere lo spiedino. Adesso che è ben arrostito è decisamente migliore, ma si può fare di meglio.
5:20
Tra una telefonata e l’altra con la Fede, che sa festeggiando il capodanno in casa da sola, cuocio l’ultima aletta di pollo. Questa va sgrondata per bene dal grasso e viene cotta molto, molto, molto lentamente. Dopo un’ora di cottura lenta è dorata e croccante, una leccornia. Vado a prendere altra legna, inizierà a far chiaro tra quasi tre ore.
8:30
Mi aspettavo che il sole fosse prossimo a sorgere, ma la valle è ancora coperta di bruma e quassù si è alzato un po’ di vento. Sto lasciando spegnere il fuoco in modo che le braci si consumino e resti solo la cenere, ma ho freddo alla schiena. L’ora che precede l’alba è la più dura, specialmente se si è da soli. Vado a montare l’amaca perché la stanchezza sta prendendo il sopravvento, ma non è semplice perché gli alberi qui sono sottili ed elastici. Dopo mille aggiustamenti tiro fuori anche il sacco a pelo, ma finalmente sta per spuntare il sole. Mi arrampico sulla roccia alle mie spalle, in modo da ricevere in anticipo i primi raggi di sole. Non riesco ad arrivare dove avevo immaginato e l’attesa si protrae a lungo. Dopo un breve bagno solare ritorno all’ombra per smontare l’amaca e preparare lo zaino. Bastava poco per riaccendere il cervello e le membra. Mentre ripiego tutto quanto con cura raccolgo i pochi rifiuti prodotti e mantengo le braci ventilate.
Inizio della rubrica dell’ecologo
Perché andiamo a passare una giornata o una notte all’aperto? Perché la natura incontaminata è affascinante. Ora, in certi paesi stiamo già arrivando a non lasciare rifiuti inquinanti in giro, a differenza di molti abitanti dei Balcani che invece spargono imballaggi a piene mani. Non è per diffamazione, ma sì ce l’ho con voi slavi, illirici o quello che vi pare, che non siete capaci di piegare la schiena e raccogliere le vostre porcherie. L’Italia in generale va meglio, almeno chi inquina lo fa con la consapevolezza di essere una brutta persona.
Da un punto di vista dell’impatto ambientale, sulla terraferma una bottiglia di plastica o cento bottiglie di plastica fanno ben poco. Se ne stanno lì, vengono sepolte e buonanotte. Non ci sono tartarughe che ingoiano la plastica fluttuante scambiandola per una medusa e non ci sono squali che rimangono impigliati nelle reti da pesca. Sulla terraferma i rifiuti costituiscono un problema quando sono molto fitti, molto prima di diventare discariche abusive. Per esempio, le mascherine che stiamo spargendo in ogni dove lasceranno tracce perenni, ma non penso che causeranno una catastrofe ambientale perché sono composte di poco materiale e tutto sommato sono concentrate nei centri abitati.
In questa parte di mondo il problema principale è che i rifiuti sparsi in giro fanno schifo. Non è una cosa difficile rimettere le bottiglie, i pacchetti di plastica o le lattine nello stesso posto in cui erano quando si è arrivati. Occupano meno spazio di prima e pesano meno. Sto parlando anche delle bucce di banana e di mandarino, che erano in una borsina e ci possono tornare. È vero che sono biodegradabili, ma anche il detersivo è biodegradabile, dipende da dove lo si getta. Una buccia di mandarino gettata su un suolo di ghiaia, magari in estate, rimarrà una buccia di mandarino per molto tempo, perché si secca e resta quello che è. Per fare in modo che sparisca rapidamente va gettata in una compostiera, dove c’è molta umidità e un suolo ricco di funghi e batteri pronti a nutrirsene. È per questo che chi fa il compost non lancia i rifiuti organici sul selciato, ma preferisce la compostiera, sembra quasi fatta apposta.
Visto che lo scopo è farli sparire dalla vista, almeno seppellite i rifiuti organici in modo che non si vedano e che stiano in un posto umido, a contatto con il terriccio. Così sì che si decompongono, sottoterra il cartone ondulato svanisce come neve al sole.
Di solito si dice che un fazzoletto di carta è biodegradabile in un mese. Tuttavia i boschi sono pieni di fazzoletti di carta, perché i batteri sono soprattutto sotto le foglie, non sopra. Altrimenti le foglie, che per coincidenza sono fatte della stessa materia dei fazzoletti, sarebbero già scomparse, giusto? Sposti le foglie, fai quello che devi, getti il fazzoletto e ricopri di foglie. Ma questa è materia per un’altra volta, io in realtà volevo parlare di fuochi. Le precauzioni da prendere sono molte, ma qui mi interessa solo specificare che il carbone vegetale ci mette parecchio a sparire.
Nel paleolitico non era un problema perché eravamo in pochi, ma adesso i resti di falò si stanno moltiplicando, specialmente nelle mete più accessibili. Il trucco per non lasciare tracce è lasciar bruciare completamente le braci. Bastano pochi minuti a creare una base di pietre per separare la legna dal terreno umido, dopodiché si può già accendere il fuoco. Verso la fine lo si alimenta con legna piccola, che brucia in fretta, così bastano venti minuti per far consumare completamente le braci. Soffiandoci sopra si fa volare via la cenere in modo che prendano ossigeno e brucino più in fretta. Ogni cinque minuti si ventila il focolare e non resta che cenere bianca, che non richiede ulteriore decomposizione e può essere lavata via dalla pioggia. Per concludere si lanciano le pietre in giro ed è quasi come se non fosse mai passato nessuno. Se non ci sono le pietre si può sempre staccare una zolla di prato e fare il fuoco sulla terra nuda, in modo da ricoprire il carbone con la terra, che provvederà a digerirlo.
Scrivo tutto questo dopo numerosi falò in spiaggia che hanno lasciato ingenti quantità di carbone nella sabbia. Ecco, la spiaggia è uno di quegli ambienti in cui le condizioni sono sfavorevoli alla decomposizione, perlomeno in superficie.
Fine della rubrica dell’ecologo
Ora dovrebbe essere chiaro quello che sto facendo con le braci, in breve il focolare è tutto bianco e non resta che prendere in mano le rocce meno bollenti per soffiare la cenere tutta intorno. Per ultimo faccio rotolare via i sassi, non credo che gli archeologi del futuro saranno interessati al mio focolare improvvisato.
Finito, è rimasto solo qualche mucchietto di cenere e forse l’erba non si è cotta troppo. Tutto intorno ci sono abbondanti segni di calpestio, ma non posso mica volare.
Domani, che poi sarebbe oggi, la mia intenzione è di visitare le rovine di Efeso e poi spostarmi verso Pamukkale, che si trova a 200 chilometri da qui e non penso si possa raggiungere in giornata. Ora è arrivato il sole anche qui, ma prima di scendere mi ricordo che non ho ancora mangiato la frutta. Dalla tasca da coppino (grazie Mors per la terminologia specifica) estraggo l’ultimo melograno di Kotor e provo a fare i conti di quando l’ho raccolto. Viaggia con me da 44 giorni ormai, due etti di melograno che hanno avuto molto tempo per maturare, subendo anche qualche congelamento. È rosso cupo come quei melograni finti in esposizione davanti ai negozi di spremute e brilla al sole. Si fa presto a spremerlo, ma in questo modo ci si priva dell’esperienza meditativa della sgranatura, che deve essere delicata e meticolosa. È anche molto buono, oltre che bello, lunga maturazione lo ha reso ancora più dolce dei suoi tre colleghi.
10:20
È giunta l’ora di avventurarsi giù per il pendio, sarà più facile camminare alla luce del giorno visto che riesco a vedere più lontano. La luce del giorno chiarisce una volta per tutte che per arrivare fin qui non c’è alcun sentiero e la via che devo seguire per scendere è molto tortuosa e richiede tutta la mia concentrazione. Attraverso l’uliveto e ancora i cani non mi hanno visto né sentito. I decerebrati si accorgono di me solo quando passo davanti alla casa, e fanno accorrere subito anche il cane di là dalla rete, che si unisce di buona lena alla calorosa accoglienza dei suoi antipatici amici. Noto con piacere che uno dei seccatori ha la voce nettamente più roca di ieri sera, magari se rimango qui un giorno in più diventa furbo. Voi andatevene pure al diavolo, che io vado a farmi vedere da uno bravo che mi possa insegnare l’empatia con i cani, perché sta toccando il fondo.
I latrati hanno interrotto il filo dei miei pensieri, ma stavo cercando di fare i conti del peso dello zaino, che ieri sera pesava 22,5 chili. Di questi, tre chili erano dovuti alla spesa per la cena. Gli altri quattro erano composti da porridge e polenta portati da casa, un chilo di carne che mi hanno regalato Antun e Moon a Mostar, mezzo litro d’acqua extra regalato da Vadat, riso, fagioli e melograno del Montenegro e lenticchie della Bulgaria. Nei prossimi giorni bisogna iniziare a svuotare lo zaino da questa roba, perché è ridicolo portare a spasso tutto questo cibo.
Mentre ripercorro il perimetro della zona recintata faccio una foto all’acanto, che qui cresce spontaneo da migliaia di anni insieme alle altre erbacce. È così antico che sono stati rinvenuti parecchi esemplari di questa pianta fossilizzati nei capitelli corinzi della città.
Efeso è stata abitata fin dal X secolo a.C., quando la linea di costa si trovava nel bel mezzo del sito archeologico attuale. Con il passare dei secoli la stretta baia in cui sorgeva la città si è riempita di sedimenti e la linea di costa è avanzata, tanto che adesso il mare dista cinque chilometri dal centro. Questo fenomeno è iniziato molto presto, perciò gli efesini scavarono un canale per mantenere in comunicazione il mare aperto con la darsena vicina alla città. Questa darsena è situata al termine di un viale affiancato da due file di colonne, che sono state parzialmente ricostruite utilizzando le parti architettoniche trovate durante gli scavi. È decisamente suggestivo immaginare come doveva essere un tempo questo posto e la quantità di turisti presenti aiuta a ripopolare la città, che oggi sembra ancora viva. È un sito archeologico di grande bellezza, con domus, fontane, templi, edifici pubblici e piazze. I fiori all’occhiello della città però sono due, il teatro e la biblioteca di Celso, la terza biblioteca più importante dell’impero romano dopo quelle di Alessandria e Pergamo. L’alta facciata a due piani è stata riassemblata e fa angolo con l’ingresso monumentale dell’agorà adiacente. Nell’agorà vedo qualcosa che si muove tra le foglie e mi fermo a fotografare un riccio, uscito per mangiare qualcosa in questa magnifica giornata di sole. Anche il teatro è impressionante, è stato ampliato più volte innalzando la scena fino al terzo ordine e poteva contenere 24 mila spettatori. Addirittura lo spazio centrale dell’orchestra fu intonacato per poter ospitare gli spettacoli acquatici. Solo le gradinate e la scena del primo ordine sono sopravvissuti fino ad oggi, ed è interessante vedere le fotografie fatte all’inizio degli scavi, quando del teatro non rimaneva pietra su pietra.
Prima di lasciare Efes faccio una tappa in bagno a lavare la gavetta e rabboccare le borracce.
15:12
Mi piazzo alla fine della via di Efes a fare l’autostop, sperando che passi qualcuno che va direttamente a Pamukkale, ma vanno quasi tutti verso il mare e il primo a fermarsi è Aslan, che sta andando semplicemente a Selçuk. In cinque minuti possiamo parlare ben poco, ma sono sufficienti per ricevere una dritta importante per raggiungere Pamukkale. Maps mi consiglia di andare a Belevi e prendere l’autostrada, ma è molto più sicuro e probabilmente più semplici trovare un passaggio verso Aydın (si pronuncia Aidn) e Denizli. Naturalmente lo ringrazio e cammino fin fuori dal centro di Selçuk, che è un paese piuttosto piccolo, ma dotato di un ospedale.
Le macchine sono poche, ma in breve si ferma Emre, che sta andando addirittura ad Aydın. Parla un po’ di inglese e dice che lavora per una compagnia di logistica, ma io mi incanto a guardare fuori e la nostra conversazione finisce abbastanza presto. Ora che devo solo aspettare di arrivare, il cervello si sta spegnendo. Devo solo trovare un posto in cui appendere l’amaca e poi buttarmi a letto.
18:02
Aydın è una città piuttosto estesa, anche se non abbastanza da giustificare la presenza di un aeroporto. Nei venti minuti di luce che rimangono provo a raggiungere Köşk (ş si legge sc), che è un paesino più piccolo situato poco più avanti. Non funziona quindi attuo il piano B, cioè raggiungere una zona di uliveti, dove da satellite si vedono alcune zone molto promettenti, con gli alberi fitti. Si trovano quasi cento metri più su di qui, ma domattina sarò già vicino ad un buon posto per proseguire verso Pamukkale.
Incontro un gruppetto di persone lungo la strada, dai quali sono istintivamente diffidente. In realtà sono solo curiosi di sapere da dove vengo e qualcos’altro che non capisco. Comunque proseguo lungo la via, che prosegue dritta in mezzo alle case e ai giardini. Ben presto iniziano a che gli uliveti, con qua e là qualche cane che mi sente arrivare e inizia ad abbaiare.
La strada su cui sto camminando è davvero notevole perché non è asfaltata, ma è lastricata di autobloccanti. È lunga parecchi chilometri e immagino che la posa della pavimentazione sia stata un lavoro certosino, ma di sicuro il risultato è durevole.
Il luogo che avevo visto è ancora distante, quando alla mia sinistra appare un nuovo uliveto, senza filo spinato a recintarlo. Direi che sono arrivato, entro e inizio a risalire la collina lungo i solchi di un trattore, visibili anche senza torcia. Oltre la collina c’è una piccola valle che si allontana dalla strada, ben riparata dalla vista. La percorro tutta cercando le coppie di ulivi più vicine, perché questi alberi vengono messi a dimora ben distanziati gli uni dagli altri, ma senza usare il metro.
Torno indietro nel posto migliore, tendo l’amaca con sopra il telo blu e mi chiudo dentro a gustare questa serata tiepida.