Lezione di ieri: cercare gli ospiti di couchsurfing con serietà fornisce la determinazione necessaria a trovare sorprese incredibili.
Domenica 11/06/2022 4:30 Delhi (India)
Se non mi sveglio presto va a finire che faccio tardi. Visto che qui siamo in Europa, niente chapati o riso o lenticchie. Acqua bollente, fiocchi d’avena, uvetta ed è pronto il porridge.
Scendiamo alla macchina e ci rimango di stucco vedendo che abbiamo un autista privato. In effetti è possibile che una coppia in trasferta per lavoro in una metropoli non abbia comprato una macchina. Non ci avevo pensato, questo alza un pochino i costi del viaggio. Con noi viene anche u altro viaggiatore con lo zaino in spalla, Sebastian, di trentun’anni. Ha saputo dell’esistenza di questo treno dei desideri perché è un collega della moglie di Leron. È qui a Delhi da cinque mesi e mezzo e adesso ha due settimane di ferie prima di rientrare a casa in Germania. Partiamo in fretta per schivare il traffico mattutino, ma non è semplice perché uscire da Delhi richiede un’ora, dopodiché si raggiunge l’agglomerato urbano di Ghaziabad, che ha lo scopo di rallentare noi fuggiaschi. Solo i più accaniti possono farcela.
Così, per un’ora attraversiamo una schiera infinita di case tutte uguali, di mattoni rossi, cisterne bianche, pubblicità dipinte a mano sulle facciate. “Hanno una struttura particolare”, osserva Leron, “è come se i costuttori avessero lasciato la possibilità di buttarci sopra un altro piano.” Ha detto proprio così, e in effetti gli edifici danno proprio l’idea di essere stati gettati uno contro l’altro. È come quando costruiamo i castelli di sabbia al mare, se le torri non sono proprio allineate fa lo stesso, riempi il secchiello e ne fai un’altra. Per noi discendenti dei romani la pianificazione urbanistica è un concetto basilare, qui invece non è neanche stata presa in considerazione. Per fortuna che la città di Delhi non è a rischio sismico, mi viene sa pensare. Forse però la giungla dei cavi che passano si casa in casa è sufficientemente robusta da scongiurare i crolli.
Appena raggiungiamo la vecchia periferia, compaiono i camini delle fornaci per cuocere i mattoni, onnipresenti da metà del Rajastan fino a qui. Altra osservazione intelligente di Leron: “Non ho ancora capito perché si usino ancora questi mattoni per costruire le case, quando sarebbero molto più convenienti i foratini, i mattoni cavi che forniscono un minimo si coibentazione. Forse esiste una qualche mafia dei mattoni.” In effetti è un’ottima domanda, anche perché le temperature qui oscillano tra 0 e 45 gradi. Senza contare che i mattoni vengono cotti alla vecchia maniera, per mantenere l’inquinamento a livelli stabili. Queste fornaci ora sono ancora più efficaci perché la città si è espansa ben oltre e sono circondate da altre case. Da ultimo passiamo accanto ad una discarica, una montagna smisurata di rifiuti, segno indiscutibile che da qualche parte vengono raccolti, per fortuna. Sicuramente non è l’unica perché è decisamente troppo piccola rispetto alla città.
Dopo qualche ora di guida facciamo una sosta per far riposare l’autista e per fare uno spuntino, ora che Rebea si è svegliata. Leron mi racconta anche di come ha conosciuto la moglie, proprio tramite Couchsurfing. La ospitò a casa propria a Miami tanti anni fa, ma quella volta non successe proprio niente. Fu solo tempo dopo che si incontrarono di nuovo e vissero felici e contenti in Germania, la patria di lei.
Nel frattempo un martin pescatore si posa su un palo poco distante. È il martin pescatore blu della Kingfisher, la birra nazionale indiana.
Riprendiamo la strada, commentando i cespugli di cannabis che crescono a bordo strada, che devono appartenere a parecchie specie diverse. Ce n’è veramente ovunque, ma naturalmente non si tratta di Cannabis sativa, il cui uso è illegale anche in India.
Sei ore dopo, arriviamo a Ramnagar, nell’angolo a Sudest del parco nazionale. Io scendo qui e anche Sebastian, che vuole raggiungere alcuni amici in un campeggio. Durante il viaggio mi è salita la povertà e mi sono reso conto di quanto sia irragionevole spostarsi sempre gratis e poi pagare l’unico che se lo può permettere. Leron capisce perfettamente, ma accetta molto volentieri le 1500 rupie di Sebastian, così non arriverà dalla moglie a mani vuote. Tutto questo viaggiare in Asia ha fatto precipitare la nostra mentalità europea molto in basso.
Restiamo io e Sebastian, nel traffico congestionato, colorato e rumoroso di Ramnagar. È una città molto carina con le case variopinte, così il mio compare estrae la macchina fotografica per fare qualche scatto. Faccio un giro a cercare una SIM, ho deciso che presenterò il mio problema as ogni singola persona che incontro, fino a trovare un indiano che mi compri una SIM a nome proprio. Qui a Ramnagar non hanno l’apparato informatico necessario per vendere SIM agli stranieri, perciò il mio piano non può fallire. L’Iran mi ha stupito in molti modi diversi, ne faccio tesoro e rigrazio ancora una volta il buon Ekber per la SIM.
Compriamo cibo di sopravvivenza, Sebastian ha bisogno di birra e io ho bisogno di frutta. Mentre Sebastian si fa consegnare le birre attraverso l’inferriata dello spaccio, arrivano tre bambini sporchi, scalzi e vestiti di stracci a pretendere un’elemosina. Ogni tanto anche le belle città ti risvegliano con uno schiaffo. Ogni volta penso a cosa troverò laggiù in Africa.
Sebastian va in cerca di un tuktuk e io avvisto un frutto dell’albero del pane, proprio delle dimensioni che fanno al caso mio. Non sono per niente sicuro di come cucinarlo, ma è dal Kerala che ho voglia di affrontarlo. Per ultimo cerco un wifi dentro un piccolo supermercato di stampo occidentale. La guardia gentilmente mi presta la connessione dal proprio telefono, così posso avvisare a casa che starò mella giungla per un paio di notti. Già che ci sono aggiungo un chilo e mezzo di riso e legumi misti alle mie provviste, così non morirò di fame. Compro anche una piccola testa d’aglio e il mix di spezie per preparare uno dei piatti di legumi che mi hanno offerto ieri Guram e Sona. Ora che ho tutto, posso partire per il paese di Kyari e raggiungere Sebastian.
Passo il ponte sul fiume Kosi e compro anche sei uova per ben cinquanta centesimi di euro. Ora sì che ho tutto. Imbocco la strada per Kyari, otto chilometri in mezzo alla foresta pianeggiante. Sono ben rifornito di acqua e si voglia di camminare nella natura, perciò rifiuto gentilmente almeno una dozzina di offerte di un passaggio. Vado a piedi, in fondo ci vogliono solo un paio d’ore.
Lungo la via trovo una penna di pavone e un albero sacro, sul quale è stata costruita una piccola capanna, alla quale si accede con dei pioli inchiodati al tronco. Sotto l’albero c’è un uomo magro magro e con una lunga barba grigia, davanti ad un pentolino dove sta cuocendo il pranzo sulle braci di legna. Insieme a lui c’è un altro uomo più giovane che, sdraiato su una branda, è concentrato in una siesta. Nonostante il telone che li ripara dalla pioggia e dal sole, fa un caldo notevole e anch’io grondo sudore. Il vecchio guru mi invita a fermarmi e così mi siedo lì vicino a vedere cosa fa. Indica il pranzo e biascica qualcosa di incomprensibile, poi inizia a prepararsi una sigaretta, con molta calma. Probabilmente questi due vivono delle offerte lasciate dai passanti sull’altare ai piedi dell’albero. Altrimenti solo il guru vive qui e l’altro è semplicemente l’autista del tuktuk parcheggiato qui di fronte.
Una volta fumata la sigaretta, il nostro guru apre un pacchetto di biscotti e lo va a spargere poco lontano, gridando “Ah! Ah!” per richiamare le scimmie. Almeno credo, perché nessuno accorre alla chiamata.
Non sapendo che cosa bolle in pentola e quali spezie da guru ci siano state aggiunte, ringrazio e riparto prima che venga pronto. Mi saluta con grande garbo e mezz’ora dopo sono a Kyari, in cerca del campeggio “Hornbill” (Il bucero). Mi lasciano entrare, portandomi anche una sedia e un bicchiere di tè mentre sono in piedi a conoscere gli amici di Sebastian. Linda e Noah sono tedeschi, mentre Nisha è indiana e viene dallo stato del Bihar. Noah è arrivato appena qualche giorno fa dalla Germania e sta ancora cercando di adeguarsi al clima. Lavorano in progetti simili a quello di Sebastian, il quale ha partecipato alla pianificazione di un progetto pilota per la bonifica dei suoli. Mi aspettavo e speravo che si fosse ad uno stadio più avanzato, più su larga scala, ma a quanto pare c’è ancora molta strada da fare. Lo stesso Sebastian non è così soddisfatto degli ultimi cinque mesi, perché il suo contributo è stato piuttosto limitato ed è stato mandato qui principalmente per scambiare idee con il gruppo che già lavora al progetto. Le ragazze se ne vanno e resto ad approfondire le avventure di Noah, che a diciannove anni è andato in Sudest asiatico da solo, per sei mesi.
Starei qui tutto il pomeriggio a chiacchierare con loro, ma la foresta mi sta chiamando a squarciagola e mi servirà qualche ora per inoltrarmi abbastanza e trovare il posto giusto. Ho tutto il piano in mente, si parte!
Il torrente che passa per il paese è molto pulito e non ci sono altre abitazioni a monte. Mi serve una fonte d’acqua perché con il caldo che fa bevo come una spugna. Imbocco la strada sterrata che va a Nord, cercando di passare inosservato, ma si alzano in volo due trampolieri, tipo delle pavoncelle, che girano in tondo stridendo “Allarme! Allarme!”.
Poco più avanti trovo un gruppetto di indiani in vacanza che sguazzano nel torrente e mi invitano a unirmi a loro. Sono di fretta, mi spiace, taglio per la boscaglia fino alla strada di prima. Cinquecento metri dopo il paesaggio si fa molto interessante e l’unica traccia di presenza umana è costituita dal sentiero, che di tanto in tanto attraversa il torrente. Lungo il sentiero incontro due fazzolettoni di stoffa ingombri di erbe e foglie fresche. Appartengono a due donne che stanno raccogliendo il foraggio psr le proprie vacche, che qui in India si fanno trattare bene. Suscito un certo stupore e apprensione, mi avvertono che qui nella giungla c’è la tigre, mimano una mano artigliata dicendo “bagh, taigar”. Per chi si ricorda del libro della giungla, la pantera si chiama Baghera, infatti bagh in hindi significa tigre. (Tecnicamente la pantera sarebbe un leopardo, che si dice “tendua”, ma Tenduera faceva schifo, meglio chiamare Tigre una pantera e “Foresta-Re” la tigre Sher Khan) Le tranquillizzo indicando che più tardi tornerò indietro, perché in effetti sono assoluntamente intenzionato a proseguire il viaggio. Aggiro due fototrappole del WWF e un chilometro dopo mi sento abbastanza distante da poter iniziare a cercare un posto per accamparmi, visto che si sta facendo tardi.
Oltre un’ansa del torrente appare una piccola piscina ombreggiata da un masso, perfetta per rinfrescarmi. Non molto distante, un grosso ficus che pare semplice da scalare. È il migliore nei dintorni, quindi mi arrampico su ad ispezionare i rami.
È approvato, è un buon albero, perciò porto su corda e amaca per installare il mio giaciglio aereo. Bisogna che mi levi la maglia perché a quest’ora il caldo del pomeriggio si somma all’umidità della sera, generando un mix micidiale che fa sudare ad ogni minimo movimento. Però è un posto bellissimo, anche adesso che c’è buio.
Faccio una pausa per asciugarmi un minimo e poi l’ultima fatica, portare su il dolce peso dello zaino. Adesso con l’amaca montata c’è un solido appiglio in più che rende l’operazione decisamente più semplice. Lo scarico va eseguito con moltissima cautela, perché se il mio fratellino precipita da questa altezza si fa tanto male. Lo assicuro ad una robusta forcella orizzontale, l’equivalente arboreo di un comodino, e mi fiondo in acqua perché faccio troppo schifo per entrare in amaca.
Mi lavo molto vicino perché pur ignorando il terrore che le foreste suscitano negli indiani, anche io non sono immune a un po’ di sana fifa ingiustificata. Non c’è niente, solo lucciole che fluttuano tra i cespugli al chiaro di luna e il gorgoglio dall’acqua tra i sassi. C’è anche un nudo che fa il bagno, ma senza spettatori niente e nessuno sa che ci sono. Venendo qui ho visto solo qualche traccia di cervo e le palle da cannone che si lasciano dietro gli elefanti. Se ci fossero degli scarabei stercorari sufficientemente grossi avrebbero la vita facile, palle già pronte.
Torno sull’albero lentamente, così che l’acqua fresca non esaurisca il proprio effetto, e lentamente mi calo in amaca, imboccando ben bene la zanzariera a cavallo della corda portante. Posso scribacchiare qualcosa, scolarmi un litro d’acqua e ascoltare i grilli frinire. La temperatura è calata di un paio di gradi e si sta bene.