Si scende!

Lezione di ieri: La pasta non è solo italiana, è ben più diffusa di quanto si pensi.
Giovedì 04/02/2022 8:10 Kars (Turchia)
Colazione, zaino pronto, scarpe, cartone e grazie mille Sercan. Fammi sapere quanto costa la disinfezione della casa.
Scende insieme a me per andare a comprare un souvenir e aiutarmi a stampare il certificato covid. In teoria dovrebbe andare bene anche in formato digitale, ma non ho alcuna fiducia nei piantagrane della polizia di frontiera e preferisco avere anche un pezzo di carta. Il certificato è sicuramente molto più autentico se è stampato.
Fuori dal portone, il mio bastone non c’è più, deve essere finito in mezzo ai rifiuti raccolti dall’uomo che pulisce il palazzo. Poco male, era traballante e poco dritto, anche se oggi mi sarebbe stato parecchio utile. Due sere fa sono salito sul letto facendo una mossa strana e ho sollecitato il muscolo stirato di quando sono caduto sugli sci. Posso camminare a lungo, ma chiaramente un sostegno per darmi un po’ di spinta non sarebbe male.
13:45
È leggermente tardi, ma l’importante è arrivare almeno a Şavşat, dove l’altopiano finisce e la temperatura notturna è accettabile per campeggiare. I 275 chilometri che mi separano da Sarpi sono un po’ tanti per percorrerli tutti prima del tramonto, a meno di essere molto efficienti.
Un grande abbraccio e ci salutiamo, finalmente lascio Kars e torno verso il mare, al caldo. Ci vuole un’ora per uscire da Kars, ma propio quando mancano duecento metri mi nota un benzinaio, che mi propone di fermarmi a bere un tè. Mi sembra scortese rifiutare, anche perché magari così facendo scombini le carte della sorte e la prima macchina che incontro va direttamente a Batumi.
Il benzinaio si chiama Deniz, che significa mare, e non è solo, nella piccola stanza ci sono anche il suo collega Orzat e due imbianchini al lavoro. Parlano solo turco, ormai non c’è neanche bisogno di specificarlo. Sono interessati a lavorare in Italia e vorrebbero sapere quanto guadagna mio zio Mario, che fa l’imbianchino. Non ne ho idea, so solo quanto guadagnavo io come operaio non specializzato, che almeno è indicativo.
Ringrazio della gentilezza e aspetto lungo la strada, nel giro di quattro macchine si ferma una famiglia diretta ad Ardahan. Salgo a bordo con Metin e Aishe, i genitori e le due figlie Ceiled e Aşen, di sei e tre anni rispettivamente. Metin lavora in banca qui in città e oggi stanno andando a trovare i nonni ad Ardahan. Vanno spediti, per il momento sono ancora in tempo per arrivare al mare prima che faccia buio. Mi chiedono del viaggio, mi comprano una merendina e una bibita mentre fanno rifornimento. Dieci minuti dopo Aşen si addormenta rannicchiata sul sedile, con la merendina al cioccolato in mano. Sono così gentili che mi offrono anche di andare a pranzo dai nonni, ma è il caso di rifiutare perché Ardahan è a 2400 metri e c’è solo neve tutto intorno, meglio levarsi di mezzo al più presto.
15:40
Preparo il nuovo cartello per Şavşat e salto a bordo con Selçuk ed Eybro, padre e figlia. Lei studia scienze forestali e lui lavora nello stesso settore, il ché non mi aiuta a capire perché hanno il baule pieno di taniche vuote di olio di girasole.
Dopo cinque minuti Selçuk accosta e i due escono dalla macchina, corrono in tondo e si danno il cambio. Eybro sta imparando a guidare per prendere la patente. La strada sale ancora in mezzo alla neve finché superiamo il passo e iniziamo a scendere tornanti su tornanti per ritornare ad una quota più compatibile con la vita umana. A causa del freddo c’è un po’ d’acqua e un po’ di neve sulla strada, ma Eybro guida bene, non c’è da preoccuparsi. In fondo stiamo solo scendendo una strada di montagna senza guard rail e con la temperatura intorno allo zero, va tutto bene.
Con mio grande sollievo e giubilo, oltre il passo ritornano i boschi. Sembrano un po’ finti perché la maggior parte di questi abeti è piantumata in filari, ma sono comunque boschi. Come mi spiega Selçuk, alcuni di questi boschi sono naturali, anche se non riesco a chiedere nulla riguardo alla zona di Kars, che magari in passato era più boscosa.
Alla base dei tornanti gli autisti fanno un’altra corsetta in tondo, così da passare davanti alla stazione della polizia con l’autista giusto alla guida. Selçuk mi porta fino in centro a Şavşat e mi incammino verso l’altra estremità del paese, che è parecchio lontana. Forse era meglio farmi lasciare sulla strada principale.
Qui il centro della strada è fatto di fango e pozzanghere e il paese è un concentrato di negozi di ferramenta. Alle estremità di Şavşat ci sono dei cartelloni turistici con scritto “Şavşat città slow”, in italiano.
16:25
Quando raggiungo la strada principale, inizia di nuovo a piovigginare. Forse arriverò in Georgia o forse domani, dipende da cosa succede adesso. Nel frattempo avverto Mariami (che si legge Mariàm oppure Maria), spiegandole la situazione ancora incerta. Ora serve una breve digressione per spiegare chi è Mariami e perché la devo avvisare. Mariami è georgiana, ha la mia età, e negli ultimi sei mesi si è presa cura della nonna Teresa, che è la mia nonna materna. Quando Mariami ha saputo della mia partenza si è raccomandata di avvisarla quando fossi arrivato a Batumi, così sarei stato ospite dei suoi genitori, che abitano là. Ha anche specificato di non preoccuparmi e non fare complimenti. Naturalmente ho proposto di incontrarci a Batumi, ma non se ne parla neanche, mi verranno a prendere in macchina al confine.
Sulla strada le macchine sono molto scarse e i primo mezzi che vedo sono due tir. L’autista del primo tir mi fa un gesto con la mano aperta, come per dire “Ma che diavolo ci fai qui in mezzo al nulla, disgraziato che non sei altro, salta su.” È incredibile quante cose si possono dire con una mano. Frena in mezzo alla rotonda e mi arrampico nell’abitacolo, ma per entrare bisogna togliersi le scarpe, come in casa. Per sciogliere i nodi delle mie scarpe ci vuole un po’, così ancora una volta il cartone torna utile, stavolta come tappetino.
Il camionista con i capelli grigi ha un po’ più di cinquant’anni e si chiama Bilal. Abita a Hopa, ha due figli e guida camion da vent’anni. È partito stamattina alle cinque da Baku, in Azerbaijan, ed è diretto a Istanbul. Stanotte si fermerà a Hopa, quindi mi può portare direttamente là, dove mancano solo venti chilometri al confine. Il fatto che Bilal sia partito da Baku è molto interessante, vuol dire che adesso c’è almeno un confine terrestre aperto, perlomeno per chi lo attraversa per lavoro. Mi spiega che oggi è passato per Ganja, Tbilisi e Ardahan, cioè è uscito dall’Azerbaijan proprio nel punto che interessa a me. Chiedo a Sercan (si pronuncia ancora Sergiàn, anche se non lo specifico da un po’) se può chiedere informazioni nel consolato azero di Kars, perché non è detto che i turisti possano già entrare in Azerbaijan via terra.
Nel frattempo abbiamo raggiunto l’invaso artificiale a monte di Artvin, un lago lungo, stretto e ventoso, incastrato tra le pareti ripide di una valle di roccia rossastra. È affascinante nonostante il cielo grigio e la pioviggine. Già ieri sera non ho minimamente guardato le previsioni del tempo. A Kars c’è sereno, ma a Hopa piove parecchio. D’altra parte ho perso il conto di una mi hanno detto che sul mar Nero piove sempre. Non sarà facile campeggiare a Hopa, dove è tutto fradicio, forse sarebbe meglio farmi lasciare qui. No, è troppo complicato da spiegare, tanto vale andare a rivedere il mare, che mi manca.
Bilal non è un gran chiacchierone e riceve diverse telefonate, inoltre ben presto calano la sera e l’abbiocco, così sonnecchio per un buon tratto. Mi riprendo un po’ alla diga di Artvin, dove si trova anche la città omonima, cresciuta come una ginestra su un ripido pendio. Mano a mano la pioggia aumenta, fino alla lunga galleria che sbocca direttamente a Hopa. In realtà non sta diluviando qui, la pioggia è decisamente accettabile.
18:48
C’è buio, ma mancano solo venti chilometri alla Georgia, potrei anche arrivarci a piedi se non stesse piovendo. Hopa sembra amichevole, potrei quasi tentare di fare l’autostop fino al confine. Per prima cosa trasformo le mie ultime quaranta lire in cibo, in modo che mantengano il proprio valore anche in Georgia. Poi preparo un bel cartello grande con scritto “Sarpi” e informo Mariami (lo so che è difficile, ma l’ultima i non si legge) dei miei piani.
Come sapevo già, l’autostop dopo il tramonto è molto difficile, infatti passano molte macchine ma non si ferma nessuno. Poco dopo Mariami mi fa sapere che va benissimo se arrivo stasera, suo padre è già partito e sarà al confine tra un paio d’ore, adesso mi manda una sua foto così posso riconoscerlo e non devo preoccuparmi perché al resto ci pensano loro. “Io ho detto che stavo PROVANDO a raggiungere il confine, non che tuo padre doveva partire da casa a sirene spiegate!” Eh niente, il dado è tratto, qualunque cosa mi riservi la sorte, bisogna arrivare in qualche modo a Sarpi. Se sono disperato posso sempre prendere un autobus.
Non si ferma nessuno, non si ferma nessuno, non si ferma nessuno. Però almeno la pioggia è calata di intensità e il cartone è ancora solido.
Ad un tratto accosta poco più avanti un piccolo furgone e uno dei ragazzi che ci sono vicino a me mi dice di andare. Si è davvero fermato per me? No, c’era un’altra persona ad aspettare il furgone. Però con questo pretesto ho la facciatosta di chiedere se vanno a Sarpi e loro accettano di darmi un passaggio fino a Kemalpaşa. Stipati nell’abitacolo del furgone, iniziamo a fare conoscenza. L’autista si chiama Dursun e il passeggero Ersin, il quale ha circa quarant’anni e un figlio. Vogliono sapere subito da dove vengo, come mi chiamo e se sto facendo il giro del mondo. Evidentemente la scritta che ho in fronte si vede anche al buio.
Non appena mi smascherano, ci scambiamo i contatti e Ersin mi chiede di inviargli una foto ad ogni paese che visito. Poco dopo scende e rimaniamo a bordo solo io, Dursun e una portiera che si chiude male. Mi è sembrato di vedere un cartello con scritto “qualcosa-paşa”, ma magari si trattava di un pascià diverso, perché Dursun ha tirato dritto.
Minuto dopo minuto la strada da percorrere a piedi si accorcia di un quarto d’ora, finché arriviamo direttamente al confine turco. Il mio improvviso sollievo viene compensato da un improvviso infarto perché, mentre Dursun fa inversione nel piazzale, la portiera si spalanca. Non ero appoggiato alla portiera ed ero seduto a braccetto con lo zaino, come al solito ci aiutiamo a vicenda.
Ringrazio molto il buon Dursun ed entro nell’edificio costruito alla frontiera con la Georgia. Sembra di essere in un aeroporto, con lunghi corridoi, scale mobili, duty free e controllo dei bagagli ai raggi X.
Mi sono dimenticato di compilare il modulo online per entrare in Georgia, quindi mi fermo in Turchia aspettando che Mariami mi comunichi l’indirizzo di casa dei suoi genitori. Non è una buona idea entrare nella terra di nessuno senza essere sicuri di poterne uscire.
In breve il modulo è compilato e inviato, perciò posso lasciare la Turchia impunemente e presentarmi alla polizia di frontiera georgiana. Come il suo collega dall’altra parte, quest’uomo non capisce un accidente di inglese, perciò ancora una volta il turco torna utile per comunicare. Ad esempio riesco a fargli capire che ho anche il green pass cartaceo, perché era diffidente del codice QR che ho sul cellulare. Un bel pezzo di carta invece ha un’aria molto più autentica e gli piace di più. Gli spiego chi sto andando a trovare ed è fatta, sono in Georgia!
Fuori piove ancora, mando una foto a Ersin e aspetto che arrivi il padre di Mariami. Nel frattempo ho quaranta minuti per imparare qualche parola di georgiano, visto che qui la mia SIM turca ha ancora segnale.
Durante la quarantena non ho studiato un bel niente, quindi per prima cosa bisogna capire come suonano le lettere dell’alfabeto. Secondo, bisogna poter dire “Ciao, buonasera, come ti chiami?” Invece di imparare “come ti chiami”, mi sembra più versatile saper dire “quale/cosa” “è” “tuo” “nome”. Già qui inizia il bello, in georgiano nome di dice “sakheli”, dove kh è un suono difficile da descrivere. È quel raschio che si fa in bocca per sputare, con il dorso della lingua vicino al palato: khhhhr-ptu! Facile e divertente.
Mentre imparo parole utili, mi rivolge la parola Khvisi, uno che lavora qui, ha circa la mia età e parla bene l’inglese. La cosa mi stupisce, ma lui dice che è normale in Georgia, le nuove generazioni studiano inglese a scuola. Non è mai stato in Italia, ma vorrebbe andare a vivere là o in Francia. È un tipo simpatico, ma purtroppo sta lavorando e la nostra conversazione è breve. Almeno mi conferma che riesco a pronunciare correttamente il nome del paese dove sto andando, che si chiama Lanchkhuti. Ch è una c dolce e kh è la consonante imparata poco fa. Questo è solo l’antipasto, i georgiani vanno pazzi per gli accrocchi di consonanti. I nomi dei paesi finiscono in -chkhuti proprio come a Reggio e Parma finiscono in -ano. (I pochi lettori che non conoscono il Trietto possono trovare un elenco parziale di questi paesi nella canzone “Propôsta”, disponibile su youtube come “Trietto – Proposta”, anche con i sottotitoli.)
Rimasto per conto mio, imparo anche a dire buonasera, che sarebbe saghamo mshvidobisa. Eh lo so, il georgiano è tutto così, bisogna farci il callo, una consonante alla volta. Inoltre la gh non è una g dura, ma una consonante simile alla kh. Invece di avvicinare al palato il centro della lingua, bisogna spostare il suono più indietro, dove c’è l’ugola. È un suono molto familiare, a Parma la erre si pronuncia così. Dato che la maggior parte della popolazione mondiale non abita nel circondario di Parma, si è preferito indicare questo suono come gh, perché quella dei georgiani più che una erre sembra una g, appena appena vibrata.
22:13?
Salgo in macchina con il padre di Mariami e mi accorgo di aver attraversato un tunnel spazio-temporale. Mi sono spostato verso NNW, ma qui è già mezzanotte e un quarto.
Il mio ospite si chiama Temuri e sua moglie invece si chiama Lali. Mariami era piuttosto preoccupata perché i suoi genitori parlano solo russo e georgiano, quindi non avremmo avuto alcuna lingua con cui comunicare. A quanto pare nessuno aveva considerato che Temuri e Lali parlano un po’ di turco, anzi direi che siamo allo stesso livello. Temuri e io abbiamo in comune abbastanza turco per continuare a parlare fin quasi a Batumi senza l’aiuto di alcun traduttore. La strada è lunga e soprattutto piena di buche, in Georgia si sono concentrate tutte le buche che mancano in Turchia. Io non sono invidioso delle strade dei turchi, ma probabilmente i georgiani crepano d’invidia. Ci fermiamo a prendere un caffè, che naturalmente non pago io, e andiamo dritti verso casa.
1:28
Da ciò che mi aveva detto Mariami avevo capito che i suoi genitori avessero una casa a Batumi. Avrei potuto fare l’autostop fino là per non scomodarli, ma venti chilometri all’andata e al ritorno non sono la fine del mondo. A Batumi però abbiamo tirato dritto tra i grattacieli colorati di luci, arrivando fino a Ureki, perciò andata e ritorno sono 150 chilometri.
Le case qui hanno un aspetto nettamente diverso dai condomini di Kars, hanno più l’aspetto di un cottage. In casa ci aspetta Lali, con la cena pronta. Mi hanno aspettato per cenare alle due di notte, infatti lei si era appisolata.
Mi accoglie calorosamente e si va a tavola, dove dopo più di un mese è riapparso il maiale. Maiale arrosto, formaggio fresco simile a quello che c’era in Turchia e una marea di altro cibo che non mi ricordo. “Da bere vuoi la Coca-Cola?” Ho un debole per l’acqua, ma in tavola non c’è e quindi mi offrono la panta. Già, la panta, perché nell’alfabeto georgiano la F di Fanta non è prevista. Mentre ceniamo ho già imparato come si dice “mangia” “bevi” e “siediti”. “Grande” si dice “didi”, facile.
“Come si dice piccolo?”
“Patara”
“Ah, patara.”
“Non patara, si dice patara”
Ci risiamo, suoni nuovi indistinguibili dai vecchi. Meglio pensarci dopo cena, sperando che la mia fame basti a soddisfare le aspettative della cuoca, che vede che esito a servirmi di nuovo e quindi mi riempie il piatto. Per fortuna ho una tolleranza notevole alla sazietà.
Una volta accertato che il mio stomaco ha raggiunto la capienza massima sono libero di alzarmi, non aiutare in cucina perché non si può e andarmi a sedere accanto alla stufa a legna insieme a Temuri, per lavorare alla digestione. Quando ci raggiunge anche la Lali e cerco di capire come diavolo devo mettere la lingua per far uscire quella strana p. È come se l’esplosione della p fosse accompagnata da un click, uno schiocco, ma imitarlo è impossibile. Meglio andare a letto per adesso, la giornata è stata lunga. Non vedo l’ora di avere un briciolo di internet per capire che cosa succede nella gola dei georgiani.

6 commenti su “Si scende!”

  1. Grande Ric!!! In ogni paese apprendi con facilità estrema la lingua locale!!! Non è cosa comune avere questa velocità di passare da una lingua all’altra con la naturalezza che dimostri tu, sei fantastico!!!!

  2. Pietro Lasalvia

    Se questo è il primo giorno in Georgia non oso immaginare come lo siano gli altri.
    Comunque la questione della Coca-Cola mi ha ricordato un avvenimento che mi raccontò mio nonno: andando a cena da un contadino si aspettava di assaggiare un buon lambrusco, ma quest’ultimo (essendo che il nonno veniva “dalla città”) per non fare la solita brutta figura del campagnolo comprò appositamente della Coca-Cola. Risolto il malinteso (con il nonno che andò dal contadino proprio per bere del buon lambrusco) la Coca-Cola sparì.
    Evidentemente ti hanno scambiato per una persona molto più sofisticata di quello che sei ahahah!

    1. Ciao Palla (sono un’amica di mamma). Sono sbalordita dalla gentilezza ed ospitalità della gente che incontri, nonché dalla facilità con cui impari le lingue! Fantastico! Mi dispiace che tu sia un pochino indietro con il diario, accorpa i giorni e mettiti in pari, così possiamo seguirti quasi in diretta. Un caro saluto. Claudia

      1. Le lingue mi piacciono, è molto più facile imparare una materia interessante. Sto ponderando la possibilità di accorpare i giorni, ma è una scelta difficile, ci devo pensare.

  3. Matteo+Lasalvia

    “Per fortuna ho una tolleranza notevole alla sazietà.” mi ha steso! Comunque è vero, i georgiani hanno una passione per le consonanti e per i suoni identici ma diversi, lieto che non fosse stata solo una mia impressione!

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