Lezione di ieri: Quello che manca quando si viaggia da soli nelle zone rurali, è parlare a ruota libera con qualcuno che capisce.
Martedì 22/06/2022 Agastmuni (India)
Tra le nozioni imparate ieri da Ashish, ho scoperto come mai a Dunagiri si fa la doccia metodicamente ogni mattina. È un precetto induista, al pari della sveglia alla mattina prestissimo. Non è solo per il caldo, ma anche per ricevere la benedizione di Shiva, che passa per le case alle quattro di mattina per benedire chi trova sveglio. Io e Kilari non ci svegliavamo esattamente alle quattro, ma probabilmente la nonna sì.
Stamattina c’era uno zio che andava a Srinagar e avrebbe potuto darmi un passaggio, ma è partito troppo presto e hanno fatto bene a non svegliarmi perché così posso salutare tutti con calma e passare qualche ora in più qui. Preparo lo zaino e scendiamo in paese ad Agastmuni, arrivo alle ultime case e aspetto, aspetto, aspetto. Mi siedo a mangiare i manghi che mi hanno dato come viatico. Mentre sono assorto nella pelatura, a un tratto appare un grande naso umido a pochi centimetri dal mango, due vacche di passaggio sembrano molto interessate. Purtroppo per loro a me sono sacri i manghi e le vacche le uso per tenere su i pantaloni e per coprirmii piedi, oltre che per riempire il carrello dei bolliti nei giorni di festa. Sposto il testone più vicino e mi alzo, mentre un passante mi aiuta a mandarle via. Dopo parecchio tempo, non appena ho finito di compilare il modulo del visto nepalese, finalmente trovo una macchina che va strettamente a Srinagar.
Salto a bordo con Himanchu, Abishek, Minu e Nora, che hanno circa 35 anni e se dicono una frase seria è per sbaglio. I primi due di professione sono coreografi, di commedie deduco, e lavorano a Bollywood ma sono venuti quassù per qualche giorno. Come in Europa, anche qui la via del cinema non è per niente semplice, ma a quanto pare due su mille ce la fanno. Parlano bene inglese e il mio hindi li stupisce, così mi insegnano qualche parola in più. Dopo una marea di tentativi riesco a far comprendere as un indiano che voglio sapere come si coniugano i verbi alle persone plurali. Il concetto dei paradigmi è ignoto all’estero, forse non masticano abbastanza grammatica a scuola. A Dunagiri iniziavo l’elenco così: “io sono, tu sei, egli è…?” “Esatto, io sono tu sei egli è.” “E poi?” E poi niente, sono riuscito a malapena a fatmi insegnare “noi siamo”, ma niente di più. La ragione è che “voi, essi” si ttaduce letteralmente come “tu persone e quelle persone”, non c’è un pronome apposito. Abbiamo molta strada per ridere e scherzare, fino a raggiungere il tempio di Dhari Devi. Qui scopro che Abishek zoppica, così il mio bastone si rende utile lungo la scalinata che porta giù al fiume. Tuttavia, proprio nel mezzo dell’idillio, Nora riceve la notizia della morte di uno zio. Cerca di riprendersi in fretta e proseguiamo sotto il portico che conduce al tempio. Appena prima di raggiungere l’edificio quadrato infisso nelle acque limacciose della diga, Abishek mi consiglia di togliere la cintura, e appenderla accanto alle altre. Non sta bene entrare in un tempio induista con oggetti di pelle bovina. Nel mio caso la cintura vale molto è non me la tolgo neanche per dormire, piuttosto la allaccio in vita senza niente. Però mi sorge spontaneo chiedere perché mai un indù dovrebbe acquistare una cintura di cuoio se gli causa vergogna ogni volta che si ricorda della propria fede. Non c’è risposta, ma tanto ogni religione ha le sue contraddizioni, non sono qua a giudicare. Semplicemente è buffo che così tanti pellegrini e visitatori indiani vestano di cuoio. Non mi tolgo niente, spero che la dea Dhari capisca. Suoniamo una campana appesa all’architrave ed entriamo.
Il poco spazio disponibile è ridotto dal ballatoio intorno al tempio, così i pellegrini si siedono uno accanto all’altro per pregare davanti alla statua di Dhari, protetta da una rete metallica. Attraverso un buco della rete il pandit benedice i pellegrini. Con un impasto di polvere rossa appiccica qualche chicco di riso sulla fronte. I miei amici mi invitano a patecipare alla processione, così quando tocca a me mi viene consegnato un piccolo involto rosso, solo a me. Che cosa significa? Bisogna che chieda spiegazioni a Himanchu, che è a sua volta pandit. Appena prima di uscire ci si china per ottenere un marchio appena sopra il precedente. Il marchio è fatto con una poltiglia arancione e un timbro con il simbolo dell’Om, quella specie di 3 con il ricciolo che spesso è associato all’India. Risaliamo alla strada, per andare a pranzo. La borsina rossa che mi hanno consegnato contiene una sorta di riso soffiato benedetto e un minuscolo cartoccio con la stessa polverina rossa utilizzata prima. Il riso è da mangiare a piccile dosi o da offrire a chi voglio. I miei amici diventano i primi clienti.
Entriamo in un piccolo ristorante, nonostante la mia pancia non mi sembri in condizioni sufficientemente buone per mangiare. Secondo me è meglio se non mangio, ma Himanchu ordina per tutti e quindi mi convince a mangiare riso, legumi e salse varie, che male non possono fare. L’ultima volta andando verso Vijapura mi sono fidato di Chandrashekara e ho digerito tutto.
Ancora una volta non pago io perché no, non se ne parla neanche chissà come mi è venuta in mente un’idea del genere. Sono staniero in India, di conseguenza sono ospite di qualsiasi indiano faccia inciampare nel mio cammino. Sulla via di Srinagar mi interrogano per mettermi alla prova, con scarsa soddisfazione perché mi ricordo ancora tutto anche adesso che sto scrivendo. Gliel’ho detto che mi piacciono le lingue. Mi piacciono e quotidianamente mi sono fondamentali per esprimere quello che mi passa per la zucca, di che cosa ci si meraviglia. Richiede impegno e l’allenamento aiuta, certo, ma sono convinto che i vantaggi di poter comunicare con chiunque siano innegabili. Ovunque si può trovare qualcuno che parla inglese, ma parlare un minimo di lingua locale spalanca una porta. Nelle località turistiche non cambia niente, ma basta prendere un autobus per trovare molti pendolari che di inglese conoscono cinque parole. La maggior parte di quelli che ho incontrato parlavano tanto inglese quanto io adesso parlo hindi. Avere la possibilità di conoscere meglio chi incontro permette di forzare un po’ di più la serratura che impedisce loro di raccontare la propria storia e di ascoltare la mia. Sono tutti uomini e donne di buon cuore e ogni parola che impariamo arricchisce la nostra breve esperienza insieme.
Una volta a Srinagar, cerco il negozio che ho visto ieri mattina, dove potrei comprare un nuovo marsupio perché questo si sta rompendo. I cursori delle cerniere stanno cedendo uno dopo l’altro. Purtroppo però il negozio non si vede, così Srinagar finisce e noi ci salutiamo. Mi serve un marsupio nuovo però, lo sto cercando da quando ero a Pejë in Kosovo, ma adesso bisogna impegnarsi e accontentarsi. Torno indietro quattro chilometri in cerca del negozio, ma niente. In compenso vedo parecchie vacche con un bellissimo muco verde che cola dal naso. Forse ha a che fare con quello che mangiano, una annusa il tetrapak di un succo di frutta e raccoglendolo con un solo colpo di lingua inizia a macinarlo tra i denti. Deve essere buonissimo, sicuramente la cannuccia aggiunge sapidità al cartone. Queste sono le vacche sacre dell’India, abbandonate per strada a ruminare bucce di frutta e poliaccoppiati. Dov’era quel negozio? Proseguo per mezz’ora, ma niente, così lascio perdere e taglio su a sinistra prendendo una scorciatoia fino alla strada che porta a Pàuri. Quando arrivo lassù, proprio all’interno della curva sta brucando una vacca dal manto chiaro imbrattato dal sangue di una ferita molto recente alla base di una zampa anteriore, dovuta forse alla collisione con una macchina. Non passano molte auto per questa strada, ma Jitendra e Bhovind non si tirano indietro e mi portano su a Pauri, lungo la strada serpeggiante tra i monti ricoperti di foreste. Sono ingegneri e si occupano della supervisione dei numerosi cantieri di questa zona. Sono originari di Pauri, ma vivono giù a valle. Mi lasciano sulla curva principale di Pauri, che sorge su un pendio, proprio sulla strada a tornanti.
Sono le 19, mi resta poco più di mezzora di luce e non sono affatto sicuro di poter superare Pauri oggi. Alla peggio campeggerò oltre il crinale, ma bisogna proseguire con l’autostop subito perché non ho tempo di arrivarci a piedi. Salto in macchina con Shures e altri tre uomini giovani, che possono portarmi due chilometri più su. Non si butta via niente, ma vogliono sapere dove vado, che non è mai semplice da spiegare. Hanno un’idea, perché uno si loro conosce il proprietario di un negozio, il quale ha appena finito di caricare un piccolo furgone, guidato da un tizio che sta per partire per Thalisain, a 75 chilometri da qui. Tempismo, fortuna, coincidenze? Tutto insieme, così eccomi su un furgone che ho mancato in tutti gli altri universi paralleli in cui questa scena si è svolta. Dopo letteralmente due minuti, partiamo, io e Arabind. Lui non parla un granché e io dopo il tramonto crollo dal sonno, svegliandomi solamente a tratti grazie alla strada a tornanti che mi fa fare a capocciate con il tettuccio. Un minimo di conversazione però la facciamo, così apprendo che stiamo consegnando i rifornimenti di whisky a Thalisain. Questo è il lavoro di Arabind, consegnare merci su e giù per queste strade infinite per una paga così bassa che spero che abbia un secondo lavoro. Sfiorando velocità di punta di 25 chilometri orari, dopo solo quatteo ore arriviamo a destinazione, dove Arabind è atteso per le operazioni di scarico, nonostante siano le undici. Saluto, ma vengo bloccato da un uomo che dice di lavorare per il governo e vuole assicurarsi che vada a dormire al sicuro in un albergo. Ovviamente è tutto chiuso a quest’ora, io assicuro che cercherò una stanza, ma lui non è convinto e insiste a parlare della mia sicurezza perché siamo come al solito in una tiger area. “Ho un’idea, facciamo finta che io non ti abbia mai incontrato e tu non mi abbia mai visto.” “Yes.” Sono quasi sicuro che non abbia capito, ma me ne vado indisturbato e a quanto pare la faccenda è sistemata. Mi eclisso nelle tenebre e appendo l’amaca agli abeti radi a metà di un pendio, a poche centinaia di metri dal centro abitato. Poco distante c’è un simpatico tempio che a notte fonda continua a sparare nelle casse la sua musica molesta, con lo scopo palese di rovinare il sonno degli abitanti, i quali però non si ribellano. Mi addormento sotto le stelle, perché queata notte il cielo è sereno e l’aria abbastanza tersa, dopo tanto tempo. Fa freschetto quassù a 2500 metri di quota, è bello riutilizzare i vestiti pesanti e il sacco a pelo, dopo tanto tempo.