Pini e delfini

Lezione di ieri: in Georgia è normale che le persone che incontri ti invitino a casa propria.
Giovedì 11/02/2022 9:40 Ureki (Georgia)
Oggi è giorno di riposo, perciò bisogna che colga l’occasione per scrivere un pochino e per fare un giro sulla pineta in riva al mar Nero.
Superati la colazione e la merenda in rapida successione, Temuri mi chiama per andare a fare un giro a Poti, a Nord. Mi è anche passato il bruciore allo stomaco di ieri l’altro. Mi ero rifiutato di prendere alcunché per farlo passare, non è contrastando i sintomi che si pone rimedio alla causa del malessere. Magicamente, abbuffandomi con cautela, il male è passato in un giorno e mezzo. Può sembrare strano, ma funziona.
Partiamo, facciamo rifornimento dal solito benzinaio con il rimorchio pieno di bombole di gas e ci inoltriamo nella campagna vicino a Magnetiti, raggiungendo un monumento sovietico ai caduti della seconda guerra mondiale. Sopra un alto terrapieno sostenuto da un muro ricoperto di iscrizioni e mosaici c’è un carro armato sottratto al nemico. La parte interessante è che il carro armato è aperto e visitabile. È visitabile nel senso che è stato lasciato a se stesso e può entrare chiunque. Ci arrampichiamo su terrapieno e poi sui cingoli fino al portello di ingresso. Mi immaginavo che non dovesse essere eccessivamente comodo, ma l’interno supera di gran lunga la mia immaginazione. È stato fatto con lo stesso criterio con cui gli inuit costruivano i kayak: più è stretto, meglio è. Davanti ci sono due sedili, situati sotto la placca di acciaio che protegge la parte anteriore del carro. Un metro più avanti ci sono i pedali per guidare e là incastrati ci dovevano stare l’autista e l’artigliere. Oltre a loro doveva esserci anche un terzo uomo a manovrare le munizioni e le taniche di carburante. Sembra un mezzo corazzato indistruttibile, ma è una trappola.
Seguiamo la strada parallela al mare fino al ponte sul lago di Paliastomi. Il lago salmastro è una riserva protetta, e nei boschi circostanti vivono dei buoi selvatici. Il lago una volta non era salmastro, ma poi qualcuno ha deciso di scavare un canale fino al mare. Mi guardo attorno con il binocolo, mentre Temuri prende la mira per sparare con il proprio fucile immaginario. L’ultima tappa del giro è la città di Poti, con una grande chiesa al centro, attorniata da un giardino recintato. Su mia richiesta, ci fermiamo per dare un’occhiata all’interno. In realtà non sarebbe necessario, ma di fatto ogni volta che si entra in chiesa qui si usa comprare un mazzetto di candele gialle.
All’interno la struttura dell’edificio è particolare, con un semicerchio di colonne rosse sul lato opposto all’abside, che formano una specie di navata tonda. Proprio le colonne mi incuriosiscono, perché hanno tutte una macchia scura a un metro da terra, alcune addirittura si stanno sverniciando. Basta fare una prova per capire, sono le manate dei fedeli che si appoggiano alle colonne con le mani dietro la schiena. Il resto della chiesa si è mantenuto bene perché è stato realizzato relativamente di recente. In particolare c’è in una teca un rettangolo di tessuto ricamato che deve avere richiesto un’eternità per la finezza dei dettagli del disegno.
Rimontiamo in macchina verso casa, perché l’On. Chamis ministri, il ministro del mangiare, sente già la mancanza della tavola apparecchiata. Ridendo, mi domanda se ho fame: “Riccardo, gshiā?”
15:35
Dopo pranzo, corro a vestirmi e in un attimo sono sulla porta. “Dove vai?” Ho già preparato la risposta in georgiano. “Vado a cercare un po’ di fame.” Gli spiego dove vado e mi incammino per la strada, mi chiameranno per la cena, se tardo.
In realtà non sto andando solo a camminare, ma cerco anche un ramo di nocciolo sugli arbusti che ho visto in questi giorni quando siamo passati in macchina. I noccioli sono pochi e gracili, la maggior parte delle piante con le infiorescenze gialle e pendule sono ontani, che non crescono a forma di bastone da passeggio.
Peccato, troverò il mio nuovo bastone quando sarò in viaggio verso Kutaisi. Mentre cammino spedito verso la pineta passa una macchina con alla guida un autista di dodici anni, al massimo, con il padre seduto accanto. Scoppio a ridere e gli faccio qualche complimento a gesti quando li vedo tornare indietro, cento metri più avanti, e non posso fare a meno di chiedermi quante altre scene più inusuali di questa vedrò lungo il viaggio, perché questa è solo la Georgia, sono ancora in Europa dopotutto.
Arrivo al varco nel muro da cui si accede alla pineta e vado a passeggiare in riva al mare, che oggi è calmo. Sulla sabbia nera ci sono un paio di uccelli spiaggiati, uno svasso e un altro uccello bianco che non so, cento metri più avanti. Chissà perché i cani randagi della Georgia non li hanno ancora trovati. Oltre agli uccelli, rifiuti di plastica, dappertutto. Il mar Nero è praticamente chiuso, quindi tutto quello che si butta in mare torna sulla terra, presto o tardi. Sulla spiaggia di Magnetiti non si vede, perché è una spiaggia turistica. Viene ripulita dal pattume e privata delle conchiglie, resta solo sabbia scura. Qui invece c’è una discarica a cielo aperto, perché se non insegni a scuola l’importanza di tenere pulito non frega niente a nessuno, specialmente se il problema principale è racimolare il necessario per vivere. Anche i cassonetti dell’immondizia sono rari e non si svuotano certo da soli, quindi probabilmente bruciare la plastica nella stufa è l’alternativa migliore a disposizione. Almeno sai che fine fa. Raccolgo alcune conchiglie di gasteropode, cercandole nel tappeto di rifiuti. Faccio un paio di video per spiegare la situazione del mar Nero cercando di non essere volgare e proprio sul più bello mi arriva una telefonata. È Tenuto che mi dice di tornare perché è pronto da mangiare. Faccio un bel respiro per lasciare da parte la rabbia e trasmettere solo il mio sconforto davanti ad un nuovo pasto. “Mangiare? Va bene, torno tra quindici minuti.”
Ma che razza di pasto è quello delle quattro e mezza? Ho fatto appena in tempo ad arrivare e percorrere cento metri! Pazienza, in fondo sono loro che mi ospitano e se non posso aiutarli in niente almeno bisogna avere rispetto per quanto stanno facendo per me. Però tornare indietro apposta per una stupida merenda è veramente ridicolo, specialmente perché ho quasi smesso di fare merende vent’anni fa. Niente, pazienza.
Ingurgitata la gargantuesca merenda con l’orologio sempre sott’occhio, prendo un sacco della legna e vado a infilarmi le scarpe. Temuri decide di venire con me per raccogliere le pigne, prende un altro sacco e usciamo in macchina.
Di fronte al varco nel muro ci sarebbe da parcheggiare, ma non sarà certo Temuri a fare un passo di troppo, perciò entriamo seguendo la strada sterrata e urtiamo un sasso che sporge dal terreno. “Sheni!”
È evidente che non siamo i primi a raccogliere le pigne, ma prima ho visto una zona in cui ce ne sono parecchie e ci dirigiamo là direttamente. Ce ne sono talmente tante che non ha senso raccogliere i rametti, bastano le pigne, ne riempiamo mezzo sacco in mezz’ora. Durante la raccolta, trovo un grosso cranio. Ci do un’occhiata e lo ributto a terra, pensieroso, ma Temuri è incuriosito. Mentre realizzo cosa sono quei due fori verticali tra il cranio e il rostro, lui dice: “Delpini?” Diavolo sì, è proprio un cranio di delfino, con i buchi per lo sfiatatoio, un bel cervellone globulare e la conca su cui era appoggiato il melone, quell’organo che è particolarmente sviluppato nella testa dei capodogli. A parte questo non resta granché, non resta traccia dei denti e il rostro si sta sgretolando. Che cosa ci fa un cranio di delfino a cento metri dal mare? È presto detto, basta immaginarsi uno dei mille mila cani randagi della Georgia che che trova un cranio di delfino sulla spiaggia e trotterella via fierissimo con il trofeo in bocca, per spolparlo con calma lontano dal mare.
Mentre Tenuti si ferma a chiacchierare con un russo in vacanza con la propria auto qui nella pineta, vado a fare un po’ di legna extra. Basta trovare un piccolo albero secco e spezzettarlo facendo leva tra due tronchi cresciuti vicini. La leva è molto vantaggiosa e il legno di pino si spezza facilmente. Mentre Temuri continua a chiacchierare prendo a mazzuolate i pezzi troppo lunghi, così entrano tutti nel sacco e sono più comodi da bruciare. Adesso che ogni sacco pesa circa trenta chili direi che ci siamo, si può tornare a casa. Non in macchina, naturalmente.
Resistendo a tutti i tentativi di dissuasione dell’autista torno a casa a piedi. Lui dice che c’è un fiume, ma alla peggio tornerò indietro, meglio camminare un chilometro in più che uno in meno. Percorrendo la battigia con il sole prossimo al tramonto, sento uno sparo in lontananza. Alle mie spalle si sono radunati tre cacciatori, che sparano agli uccelli posati sull’acqua. Ecco spiegato come sono morti quei due uccelli che ho visto prima e da dove vengono le anatre che si vendono per la strada, appese per i piedi. Anche se mi chiedo quanto tempo ci voglia per recuperare la selvaggina, senza un’imbarcazione.
Raccolgo le quattro conchiglie migliori per fargli una foto e poi le lancio lontano, perché per quanto mi riguarda stanno meglio lì dove sono piuttosto che a casa in una scatola. Sono già arrivato al cosiddetto fiume, che è poco più di un rigagnolo. Inoltre sono arrivato esattamente nell’ora di picco della bassa marea, perciò basta togliersi scarpe e pantaloni per guadarlo. Mentre mi asciugo vado ad ammirare il tramonto del sole all’estremità di un vecchio pontile di cui resta solamente un reticolo di cemento armato.
Ormai è buio, provo a prendere una scorciatoia verso casa ma incontro solo dei cani assai poco simpatici, quindi li saluto con una pernacchia e due latrati e rientro per la via principale.
Adesso possiamo alimentare la stufa a pigne, la legna bagnata non serve più.
22:20
Ceniamo presto perché domani ci si sveglia prima dell’alba e mentre io finisco di mangiare Lali prosegue a preparare khaCHaPuri per domani. Facciamo una breve sosta digestiva accanto alla stufa e io vado a letto con le galline. Non è un modo di dire, c’è veramente una gallina bollita di fianco al mio letto.
Mentre mi addormento in cucina si frigge a manetta.

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