Missione compiuta!

Lezione di ieri: sikh è sinonimo di generosità.
Sabato 10/06/2022 9:20 Delhi (India)
Preparo di nuovo lo zaino perché questa volta me ne vado davvero. Prima di uscire mangiamo pezzetti mango sott’olio e chapati preparati dalla mamma. Li aveva preparati anche ieri, ma nella fretta si andare in palestra ci siamo dimenticati.
Mentre andiamo verso la solita femata dell’autobus Sundeep mi ricorda che se non trovo alcun ospite per la notte, la sua porta è sempre aperta. Un abbraccio e via, verso l’autobus. Forse.
Mi era già venuta la tentazione ieri, perciò oggi non resta che provare a fare l’autostop in città. Per un indiano probabilmente sarebbe impossibile, ma per me che sono straniero dovrebbe fuzionare. È un’idea che richiede una certa astuzia perché le strade di Delhi non convergono a raggiera verso il centro, anche perché i centri sono due. È un garbuglio in cui bisogna cercare le vie più frequentate e preferite dagli automobilisti. Non ci sono punti di riferimento importanti, perciò posso dire solo: in fondo alla strada. Inoltre c’è pieno di tuktuk, che tendono a fermarsi perché credono che abbia bisogno di un passaggio.
Si fermano Guram e Tennu, sia lui che lei lavorano verso il centro e condividono la macchina perché la benzina ha un costo notevole. Parlano abbastanza inglese, così tra le loro mille domande riesco a spiegargli che se possibile resterei anche oltre la fine della via. Non c’è problema, anzi si fermano anche per prendere un bicchiere di una bevanda rosa brillante al latte e acqua di rose. Oggi è una festività particolare e viene distribuito da bere in tutta la città.
Tennu lavora in ospedale e scende qui, mentre Guram mi porta fino a uno svincolo della circonvallazione interna. Insiste per portarmi alla fermata dell’autobus, così accetto, scendo e torno allo svincolo.
Non c’è molto traffico ed è facile fermare Mohammad Aslum, un impresario edile che va proprio verso il centro. Mi accompagna fino alla stazione della metropolitana perché non sono riuscito a spiegargli che cosa sto facendo. Chi mi vede per strada probabilmente pensa che mi sia perso.
Di nuovo aspetto che lui se ne vada e torno in strada per proseguire, quand’ecco che appare un viso familiare: è Guram che è passato a prendere una collega e sta andando a lavorare. Siamo uno più incredulo dell’altro, dall’Italia a qui è la seconda volta che incontro di nuovo la stessa persona, e anche la prima volta ero in India, in Kerala. Sona Rajesha parla un po’ più inglese di Guram e mi spiega che lavorano per il governo, in un ufficio che si occupa della costruzione delle strade e dell’abbattimento delle case abusive. No penso che sia difficile trovare delle case abusive a Delhi. Mentre ci avviciniamo al palazzo dove lavorano, che è a un chilometro dalla mia prima destinazione, mi chiedono di andare a pranzo con loro. Non è che mi invitano e basta, insistono.
Hanno in mente un pranzo in grande stile, mi mettono davanti un menu ma lascio fare a Guram perché la mia prima scelta non lo ha soddisfatto del tutto. Ordinano una quantità di pietanze decisamente generosa e dato il livello del ristorante sono anche molto buone. Sono così buone che faccio fatica a raccontargli tutto quello che vorrei perché sono anche incaricato di finire tutto. Inoltre mi pare che stessero andando al lavoro, mi dovrei sbrigare? Non lo so, dopo un’ora molto piacevole passata insieme ci salutiamo e io vado a cercare un wifi per controllare i messaggi su Couchsurfing. Niente da fare, nessuno collabora, quindi torno indietro e raggiungo Agrasen Ki Baoli, un antico impianto ler garantire la disponibilità d’acqua nei dintorni della città.
Si tratta di una costruzione lunga, stretta e profonda, con sette ordini di volte che scendono fino al livello della falda acquifera. Per raggiungere il livello dell’acqua c’è una lunga scalinata che raggiunge il fondo della vasca. Mi fermo all’ombra per ritornare ad una temperatura ragionevole. Nel frattempo c’è uno stormo di piccioni che vaga tra l’albero e un altro posto altrettanto interessante poco lontano da qui. Se ne vanno e tornano entro cinque minuti, il ché li tiene molto impegnati. Ora che la scalinata si è un po’ svuotata scendo a fare qualche foto e a fare amicizia con due ragazzi potrebbero prestarmi un po’ di internet. Il più grande mi può aiutare, ma ha il telefono quasi scarico. Intervengo io con il mio mattone di power bank, così una volta tanto mi rendo utile. Mi ha risposto Leron, che è un collega biologo e mi può incontrare stasera alle sette. Dice che non mi potrà ospitare perché domattina deve uscire di casa alle cinque, ma evidentemente non mi conosce ancora. In ogni caso abita nella zona giusta e il mio piano per domani è fare l’autostop lungo la circonvallazione più esterna della città, sfruttando un analogo dell’effetto fionda gravitazionale. Di fatto io devo andare a Nord e Leron abita a Sud, ma non bisogna lasciarsi condizionare da queste inezie.
Tornando alla vasca dell’acqua, il livello è spaventosamente basso, arriva appena al primo ordine. D’altra parte la cementificazione circostante sicuramente non aiuta a ricaricare la falda superficiale, neanche durante la stagione del monsone.
Prima di finire la visita ho bisogno dell’aiuto dei miei due compari per compiere la mia missione.
Qualche settimana di partire sono andato ad ascoltare un concerto della band di Mazz (Giovanni Mazzoli) e non ho potuto comprare una maglietta con il loro logo perché erano finite le M. La sera della cena organizzata dalla mia sorella organizzatrice, Mazz si è ricordato di portarmi la maglia, e per l’occasione me l’ha regalata. La band si chiama “Funk a Delhi”, perciò a quel punto è diventato obbligatorio passare di qua.
Ingaggiato il fotografo, cambio la maglietta al volo e mi faccio scattare qualche posa qui, prima di andare verso la mia vera destinazione, la tomba di Safdarjung. Non è un monumento molto famoso di Delhi, per ragioni a me ignote. La somiglianza con il Taj Mahal secondo me lo rende perfetto perché quell’architettura esotica si associa immediatamente all’India e questo mausoleo si trova nella città giusta. Entro in esplorazione, cercando il lato giusto e soprattutto un fotografo. Questo mausoleo è rivestito della stessa arenaria rossa del Forte Rosso, ma con dei motivi di marmo bianco che formano cornici e decorazioni geometriche. Come il suo cugino più grande, anche questo sepolcro ha quattro vasche disposte a croce, ma solo in quella a Est c’è l’acqua. C’è appena un dito d’acqua, quel tanto che basta per fare da specchio. Lascio da parte l’ammirazione e domando aiuto a tre amici seduti in un angolo. Uno dei tre ha una Canon di un certo calibro e si offre di farmi le foto con quella. Si chiama Suraj e studia qui insieme agli altri due, ma domani torneranno giù in Kerala, là dove io sono partito.
Mi infilo la maglia bella e non sudata e siamo pronti. Facciamo un servizio fotografico al volo e poi forse dovrei uscire per andare da Leron, ma abbiamo fatto poche foto e non sono ancora soddisfatto. Rimasto solo, mi dedico al fai da te, solo che mi serve un supporto per la gopro. Con molta nonchalance prendo in prestito un piedistallo delle transenne avvolgibili, quelle con la cinghia rossa che si srotola da dentro il tubo. Dalla parte opposta non mi vede nessuno, così scendo nella vasca a divertirmi con le pose, usando un professionale sassolino per regolare l’angolazione. Anche lo zaino vuole partecipare, quindi si infila la maglia e faccio un paio di foto anche a lui.
Qualcuno mi chiama dal ballatoio del mausoleo, è un guardiano che si è accorto del furto. Non vengo condannato per appropriazione indebita di piedistallo, è solo che stanno chiudendo e ne hanno bisogno per transennare l’ingresso. Ecco come hanno fatto ad accorgersene. Cerco di uscire, ma con la luce del tramonto che illumina la pietra rossa come si fa ad andare via?
Si va via perché è già tardi, fermo una macchina al volo ma l’autista non capisce dove sto andando e mi lascia lì. Proseguo di buon passo, incerto se prendere un autobus, quando una macchina di uomini in camicia si ferma accanto a me. Il passeggero dice di lavorare per il governo e vuole sapere chi sono e perché sto camminando lì e se il motivo è che ho della droga e vuole vedere il mio passaporto. Prende il passaporto e prima di aprirlo lo annusa. Così ho un istante libero per ragionare: “Aspetta un momento, ma tu chi sei? TU fammi vedere un documento!” Sono stato un bello scemo, ma anche stavolta è andata bene. Prendo un tuktuk, sbaglia strada e arrivo con solo quaranta minuti di ritardo. Niente scuse, è comunque colpa mia.
Leron è intento a cenare con la figlia Rebea, che deve avere circa tre anni. Evidentemente non sono indiani e parlano un perfetto inglese americano. Di punto in bianco mi trovo a rispolverare l’intero vocabolario di inglese, che in questa settimana si era ricoperto della polvere si questa città. Meno male che Ahmad parla come un libro stampato, altrimenti l’ultimo inglese come si deve risalirebbe al mio incontro con gli amici di Ferzaad a Teheran.
Per un momento ho il piacere di mettere la parte l’opuscolo delle “Frasi che si capiscono meglio se sono sgrammaticate”. È una lettura orribile, leggetela solo se ve la sentite. Non senza un certo sforzo ricomincio a invertire soggetto e verbo nelle domande, facendo ampio uso del verbo “to do” questo sconosciuto.
Nel frattempo Leron mi spiega che è sposato e lavora qui da due anni con la moglie, che al momento si trova in un albergo nei pressi del parco nazionale Jim Corbett. È per questo che domani partiranno alle cinque per arrivare là il prima possibile e trascorrere il fine settimana lontano da Delhi. Mi ospiterebbe se non dovesse svegliarmi di soprassalto prima dell’alba… Ha notato che mi sono illuminato e aggiunge che se mi voglio aggregare c’è posto in macchina e volendo posso contribuire alle spese. “Sì, assolutamente, va bene tutto, ci sto!” La mia buona stella questa volta ha fatto un colpo grosso, stavo progettando di raggiungere il parco di Jim Corbett e un amico di Aleot che abita in Uttarakhand et voilà, ecco un passaggio diretto di più di duecento chilometri. Non mi sembra vero.
Nel frattempo hanno finito di mangiare e Rebea raccoglie gli animali che ha sparso per terra, facendoli tuffare attraverso un anello attaccato al muro. Parla un iglese che metterebbe in imbarazzo molti di quelli che ho incontrato, ma è la sua lingua madre e lei è una femmina, quindi fa molto esercizio. Leron in qualche modo riesce a sostenere due conversazioni contemporaneamente.
Andiamo a casa loro a piedi, lungo la strada compro anche dei momo nepalesi, un tipo di ravioli farciti di carne di maiale. Io non vedo del maiale macellato dal martedì di Pasqua in Iran, perciò sono nuovamente incredulo per la piega che sta prendendo la giornata. Leron mi racconta che adesso lavora per una compagnia che fa ricerca sulle varietà di canapa che forniscono fibre tessili. In realtà la sua specializzazione universitaria riguarda la comunicazione che avviene tra le piante. Sembra che se ne stiano lì, immobili e nullafacenti, invece hanno inventato mille modi per scambiarsi messaggi. Non commentano i risultati della serie A, ovviamente fanno discorsi da piante. Come noi, sicuramente anche loro amano parlare del meteo.
Siamo già a casa, che si trova in un quartiere a prevalenza nepalese, come si può dedurre dalle facce degli abitanti. “Rebea, facciamo le scale o prendiamo l’ascensore?” “Le scale.” Bravissima. Qui in India non so mai se mi devo togliere le scarpe dentro o fuori dalla porta, e ora sono ancora più confuso perché oltre la porta c’è un monso diverso. Questo è un appartamento europeo a tutti gli effetti, enorme rispetto alle normali case indiane. Per prima cosa bisogna che mi lavi, ma nel bagno non trovo la tinozza con la brocca di plastica, purtroppo. C’è una doccia con il diffusore più grosso che abbia mai visto, in grado di generare un diluvio quadrato di due spanne per due. Finita la doccia è ora di assaggiare i momo, con le due porzioni di salsa piccante che mi hanno dato. C’è decisamente molto peperoncino, devo ancora arrivare a questo livello, ma bastava mangiare con più calma.
Tempo dopo torna Leron, che è appena riuscito a far addormentare la figlia, o almeno così credeva. Torna subito indietro e ci riprova.
Abbiamo giusto il tempo di organizzare la partenza di domattina e per la colazione di domani mi lascia a disposizione tutta la dispensa. Mi racconta di quella volta che era squattrinato e in viaggio in Europa, e una famiglia di Milano lo ha ospitato tramite Couchsurfing. Lo hanno sfamato e ospitato e portato al ristorante senza che lui spendesse un centesimo, per questo quando ospita qualcuno anche lui non può essere da meno.
Vuole anche sapere dove lasciarmi domani e io ho già in mente un piano. Per raggiungere l’amico di Aleot dovrò dirigermi a Dehradun, a Nordovest della nostra destinazione di domani. La via suggerita da qualsiasi navigatore passa a Sud del parco, perché a Nord ci sono solo montagne, boschi, paesini e strade tortuose. Chi sono io per tirarmi indietro davanti a una scelta così ovvia? Leron è al tempo stesso perplesso e affascinato, siamo d’accordo che qualunque cosa ci sia lassù debba essere interessante, anche se percorrere quella strada non ha senso.
Io resto un po’ sveglio a scrivere, ma qualche ora la dormo anch’io.

Perché Funk a Delhi? Le leggende narrano che una sera i membri della band si siano incontrati in una taverna del porto per decidere un nome. Tra le proposte avanzate, quella migliore è stata trovata lanciando un dado. Questo nome ha a che fare con il genere di musica che suonano, da loro stessi battezzato “funkedelia”. Per assonanza, ecco Funk a Delhi.

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