Giovedì 17/08/2023 Port Denarau (Fiji)
Il mare si calma sempre più e le nuvole si diradano, finché arriviamo all’ingresso della laguna di Port Denarau, dove abbiamo deciso di ancorare. L’abbiamo deciso noi perché sulla radio nessuno si degna di rispondere. Troviamo l’ingresso della laguna, riavvolgiamo il genoa e procediamo a motore, seguendo la mappa sullo schermo del computer si bordo, Luigi.
Guardandoci attorno, vediamo in lontananza acque turchesi, spiagge e palme da cocco. Ieri siamo passati per l’inferno e oggi siamo in paradiso, la differenza è sconcertante.
Quando eravamo a Opua si era parlato di spedire qualcuno di vedetta sull’albero della barca, per controllare dove si trovano i banchi di coralli sommersi. Purtroppo è considerato rischioso, quindi la carta nautica sullo schermo basta a navigare in sicurezza. Sono molto deluso, ma vado comunque a prua a osservare il mare, piattissimo.
Sono passati solo dieci minuti, quando sento alle mie spalle uno scroscio di parolacce francesi. Può sembrare incredibile, ma non è ancora finita. All’improvviso, Luigi ha perso la posizione GPS, sullo schermo si vede solo la carta nautica. Non abbiamo internet per usare Google maps, così apro Organic maps sul mio telefono per avere le coordinate GPS e un minimo di cartografia intorno. Nel frattempo Raphaël si dà un gran daffare per riavviare l’elettronica di bordo e capire dov’è il problema.
Torno a prua con Lord Asparagus, commentando che ormai la nostra ordalia sta diventando una commedia. Siamo stati in alto mare per una settimana, e perdiamo la posizione GPS proprio ora che ci serve per non andare a scogli. È così assurdo da essere ridicolo. Probabilmente prima di arrivare in paradiso bisogna passare per il purgatorio, deve essere così.
Un quarto d’ora dopo Luigi si riprende, portandoci sani e salvi fino a Port Denarau. Per non destare sospetti, è il momento di ammainare il Jolly Roger e issare una bandierina gialla. Il giallo indica che siamo in quarantena, in attesa del nulla osta per scendere a terra. La bandiera pirata è sopravvissuta, ma i veri eroi sono gli stecchini che l’hanno tenuta agganciata alla corda. Evidentemente gli alberi di graviola di Grant producevano ottimi stecchini. Grant è stato il nostro attrezzatore si fiducia a Opua, che si è guadagnato tutta la stima di Charlotte.
Raphaël cala l’ancora tra la spiaggia con gli alberghi e l’isolotto Akuilau, sono le sei di pomeriggio e siamo arrivati. Dopo nove giorni e quattro ore di navigazione, ci possiamo godere il tramonto. Abbiamo percorso 1245 miglia, circa 180 miglia in più rispetto al percorso diretto da Opua a qui.
Ce l’abbiamo fatta, è il momento di sederci comodamente in pozzetto e stappare lo champagne che ci hanno regalato gli amici di Opua. Hurrà!
Mentre parliamo di questi nove, pazzi giorni, mi sembra l’occasione giusta per una domanda a tutto l’equipaggio. “Ormai viviamo a bordo da un mese, che cos’è che faccio di fastidioso? Sono sicuro che qualcosa ci debba essere.” Inaspettatamente vado abbastanza bene, pensavo peggio, solo Mag ha un suggerimento da darmi. Dice che dovrei estendere un po’ il repertorio canoro, in effetti ha ragione. A pensarci, durante la traversata devo aver cantato prevalentemente Santiano e il Liquore di Binks. Erano quattro diverse versioni in francese, inglese e giapponese, ma le melodie sono solo due. Quando ero a Gisborne ho aggiunto parecchie canzoni nuove al repertorio, è che devo ancora impararle a memoria tutte e quaranta, ne conosco solo la metà.
Scendo sottocoperta a prendere qualcosa da mangiare e quello che vedo mi sconvolge non poco. Il pavimento! È orizzontale! Perché il pavimento è orizzontale? Perché siamo fermi? Mi aspettavo di avere un notevole mal di terra all’arrivo sulla terraferma, ma l’acqua della laguna è così piatta che non c’è alcuna differenza. Per fare lo scemo cammino in giro appoggiato alle pareti e puntando i piedi sugli spigoli, ma la verità è che mi sembra davvero che la barca sia ancora in movimento, e anche tanto.
Non possiamo ancora scendere a terra finché non completiamo le formalità doganali, quindi andiamo semplicemente a dormire e domattina ci penseremo. Prima di addormentarmi, prendo matita e calcolatrice per rifare i conti del punto nave di quattro giorni fa, quello con le stelle. Ci sono quasi, ma stranamente tutte le osservazioni sono sbagliate di pressapoco cinque miglia. È strano, sembra proprio un errore sistematico, ma non so proprio cosa sia.
L’indomani mattina, Charlotte è pronta per scendere a terra. Gonfiamo il gommone a prua, caliamo il motore a bordo e prepariamo la miscela. Poi il capitano si mette dei vestiti decenti, il cappello da gaucho di quando era in Argentina, gli occhiali da sole in stile steam-punk e parte a tutta birra verso il porto. Charlotte è una grande fan del film Mad Max, per questo ha quegli occhiali.
Mentre aspettiamo che torni dalla missione, facciamo una nuotata rinfrescante nei pressi della barca.
Il capitano non si fa attendere, ritorna alla velocità di un uragano, salpiamo l’ancora immediatamente e ormeggiamo in fretta Valiant davanti al cantiere navale. Ci accoglie Avi, un fijiano di origini indiane che ci aiuta ad attraccare. Non avendo ancora completato le formalità doganali, tecnicamente noi non siamo autorizzati a toccare la terra con i piedi, perciò restiamo a bordo, in attesa di essere ricevuti dalle autorità locali. Fare timbrare i nostri passaporti è semplice, ma per Charlotte è ben diverso. Serve un plico intero di documentazione relativa alla barca e vorrebbero anche sapere quale sarà il nostro itinerario nelle Fiji. Non lo sa nessuno con certezza, ma a quanto dicono non è fondamentale. Un altro capitolo sensibile sono i prodotti organici a bordo. Il miele non è consentito, può essere veicolo di alcune patologie ancora assenti nel paese. Noi ne abbiamo a bordo due barattoli, quindi c’è una multa da pagare per il loro smaltimento. Anche i prodotti animali sono regolamentati, ma tranne un pezzetto di sgombro affumicato non abbiamo carne a bordo, perché siamo una barca quasi vegana. “E i rifiuti organici?”, chiede l’ufficiale della biosicurezza. “Quelli li gettiamo fuori bordo”, risponde Charlotte. L’uomo alza lo sguardo, accigliato: “In mare dove?”
“A cinquan… ehm… lontano lontano, molto lontano, in oceano aperto.”
“Siete al corrente della convenzione di Marpol?”
“La convenzione di che? In tanti anni ho sempre visto gli equipaggi fare così, non ho mai avuto problemi.”
“Lasciamo perdere, è vietato dalla convenzione, firmi qua.”
Per chi non conoscesse la convenzione di Marpol, si tratta di un accordo internazionale per ridurre al minimo l’inquinamento marino. Mira principalmente ad evitare la dispersione di rifiuti tossici, non biodegradabili o altamente inquinanti, ma comprende in realtà qualsiasi sostanza che non sia acqua e sale. Per quanto riguarda i rifiuti organici in piccole quantità, si possono gettare in acqua ad almeno dodici miglia dalla costa. Se uno si prende la briga di fare a pezzetti i rifiuti in modo che si decompongano in fretta, tre miglia sono il minimo necessario. È una convenzione, non una condanna, sarebbe già un miracolo se venisse rispettata così com’è.
Con i passaporti timbrati, siamo liberi di visitare le Fiji per quattro mesi. Fuori dalla porta però, c’è la polizia che ci aspetta. “Chi di voi si chiama Ernesta?” Il mio compare strabuzza gli occhi, non sapendo che cosa pensare. Dalle prime parole del poliziotto, capisce al volo che sua mamma deve aver chiamato la polizia fijiana per avere notizie. La storia completa è più complessa di così, perché la polizia neozelandese deve avere ricevuto in qualche modo il nostro pan pan, allertando la polizia fijiana e anche i genitori di Ernests, che poi non hanno avuto ulteriori notizie per un giorno e mezzo. Ovviamente hanno contattato la polizia per sapere che ne fosse stato di Valiant e del suo equipaggio. Anche se l’altra notte se l’è vista brutta, Ernest è più vivo che mai. Manda subito un messaggio a casa per fare sapere di essere sano e salvo.
Abbiamo ancora un’ultima formalità da sbrigare, l’ufficiale di biosicurezza salirà a bordo per ispezionare la barca e prendere in consegna i sacchi del pattume e il miele. Ho lasciato il telefono in barca, così sono l’unico dell’equipaggio a godersi la scena, insieme al capitano. Il nostro amico sale a bordo, infila i barattoli di miele in un sacco, poi apre il frigo e controlla il contenuto. Alcune salse, verdure vecchie, sgombro affumicato e formaggio. “È ancora in buone condizioni il formaggio?”
“Sì sì, eccome.”
“Posso averne una fetta per controllare?”
Charlotte taglia una larga fetta dal nostro blocco di cheddar neozelandese. Il nostro ospite ne assaggia un angolino, assaporandolo bene, e aggiunge: “Il formaggio è a posto, potreste avvolgere la fetta nella pellicola? Adoro il formaggio.” Charlotte, con gran classe, non solo gli impacchetta il formaggio, ma gli offre anche il formaggio affumicato ricevuto da Ben a Opua.
Vi lascio immaginare quante risate ci siamo fatti in seguito, raccontando la storia di questo ufficiale così zelante da assicurarsi che il formaggio fosse davvero commestibile. Avreste dovuto vedere la sua faccia quando gli abbiamo regalato il formaggio affumicato.