Meeraj

Un salto indietro nel tempo, prima dj dimenticarmi dell’India.
Lezione di ieri: ci sono certi appuntamenti ai quali non si può arrivare all’ultimo.
Sabato 07/05/2022 Muscat (Oman)
Questa volta sono già in aeroporto e l’aereo non lo perdo. Ci alziamo in volo nella notte araba, lasciandoci alle spalle le luci della costa e dirigendo verso il sole, che non tarda a rischiarare l’orizzonte. Mare, mare, mare, fino ad un momento prima di toccare terra. Sorvoliamo le lagune interne del Kerala, a sud della città di Kochi, poi iniziano le proprietà private: giardini, case e qualche chiesa bianca. Non mi aspettavo così tante chiese in India.
Per poter entrare nel paese è prevista una breve intervista e mi tocca raccontargli che andrò in un ostello a Kannur, che ho già prenotato. Spero che l’oste non ci rimanga male.
Non avendo molta voglia di dichiarare alla dogana il mio trasmettitore satellitare, facciamo che non dichiaro proprio niente. In teoria questo modello è legale in India, ma solo in teoria.
Rabbocco le mie tre borracce ed eccomi in India, questa terra esotica e affascinante. Ora ho due o tre settimane per macinare i 3500 chilometri che mi separano da Ahmad, che si trova a Lahore e sta studiando come un matto. All’inizio di giugno tornerà in Italia, quindi mi devo sbrigare. Le possibilità di campeggiare qui intorno sono estremamente limitate e in verità a giudicare dalla mappa tutta la terra è privata e probabilmente recintata. Prevedo che ci sarà da camminare parecchio. Benvenuti in India.
Ancora nel parcheggio dell’aeroporto, la mia attenzione viene catturata dai frangipani, i cui fiori geometrici e profumati sono tanto famosi a casa mia. La mamma va in estasi solo a  sentir nominare i fiori che hanno fatto da cornice al viaggio di nozze. Sotto allo svincolo di una strada sopraelevata, un giardiniere sta innaffiando la batteria di vasi del proprio vivaio. Qui lo spazio va usato va utilizzato con estrema razionalità, l’inutile marciapiede sottostante era sterile e improduttivo.
Da ultimo, poso lo sguardo su un sandalo di plastica, abbandonato. Guardo il sandalo e guardo la fettuccia dello zaino, poi di nuovo il sandalo. Non sarebbe male avere un pezzo di fettuccia di ricambio e anche una fibbia. Lo prendo? Tornerà utile un giorno, sicuramente le intemperie lo hanno già disinfettato. Afferro il mio bisturi Victorinox e opero sul posto, senza anestesia perché il paziente non dà segni di vita.
La temperatura prevista per oggi è quindici gradi in meno rispetto a Muscat, solo ventinove gradi, ma l’umidità compensa la differenza. È incredibile, fa caldo esattamente come ieri. Aggiro l’aeroporto lungo una piccola strada a due sensi di marcia, diretto ad Est. Non passerò per la città di Kochi, ci vorrebbe almeno un giorno a entrare e un altro per uscirne.
L’ambiente intorno a me non mi fa sentire un alieno, ma sta iniziando a diventare decisamente diverso da casa. Anche il colore della pelle inizia è cambiato improvvisamente, segno che qui la mia pelle chiara è totalmente inutile, sarebbe meglio nera. Le macchine strombazzano lungo la strada, ma la ragione è presto chiara: dietro tutti i camion c’è scritto di suonare il corno, prima di sorpassare. Il corno sarebbe il clacson, ma in India il clacson è un corno e la rotonda è un cerchio. Semplice e chiaro.
Nella mia ricerca di supermercati, non trovo niente. Ci sono solo piccoli negozi che vendono verdure, biscotti e altri prodotti da forno confezionati. Non mi resta che comprare dei panini dolci e qualche pallina di pasta fritta. La mia prima scelta sarebbe stata un altro panino, ma la signora mi ha fatto notare che è scaduto ieri, non ha intenzione di venderlo e questo le fa molto onore. Mi faccio dare anche un pezzo di cartone, ne hanno solo uno molto piccolo.
Con un po’ di cibo sotto i denti dovrei essere più gioviale nel fare l’autostop però mi serve anche qualcosa di più sostanzioso.
Camminando lungo la strada, vengo fermato da un uomo di passaggio, uno di una certa età. Si chiama Sadih ed è semplicemente curioso di sapere chi sono e da dove vengo. Non è facile caoire che cosa dice nel proprio inglese scalcinato, ma qualche gesto chiarosce i concetti. Poco oltre trovo un locale, una sorta di ristorante, ma vuoto. Scambio due battute in inglese con i figli del proprietario, ma piano piano perché non vanno fortissimo con l’inglese. Non è l’accento, il problema è il vocabolario. Mi spiegano che c’è uno  che vende del riso, poco più avanti.
Il negozio non ha neanche l’aspetto di un negozio, lo ignoro e lascio perdere.
Adesso che c’è una piazzola, posso darmi all’autostop. Il ministrero degli esteri non ne sarebbe entusiasta, ma anche l’Iran è consideratoun posto pericolosissimo. Si è visto come è andata. Fortuna? Forse, ma fortuna costante da casa fino a qui.
Nel traffico di questa strada, si fermano Said e Svidu, che non possono aiutarmi molto, ma possono accompagnarmi fino a Mattoor. Parlano inglese molto meglio di quelli che ho incontrato finora, anche se l’accento differente e il rimore delle macchine non mi aiutano a capire che cosa dicono. So già che tra un paio di giorni le mie orecchie si adegueranno al cambio di accento, va sempre così. Mi spiegano anche che c’è un autobus che va a sud verso Muvattupuzha (si legge Muvatupura, con la t indiana e la r indiana. In India si usa pronunciare certe consonanti con la punta della lingua arricciata a toccare il palato, un centimetro dietro la linea dei denti. Qualsiasi parola pronunciata così suona molto indiana.) Grazie, ma sono un autostoppista incallito ormai.
Alla fermata dell’autobus c’è troppa ressa e non mi si vedrebbe, perciò mi sposto più avanti. Si ferma Vadik, in moto, che non arriva fino a Muvattupuzha, ma mi può accompagnare a Perumbavoor, otto chilometri più avanti. Che faccio, salgo? Non sembrano esserci altri modi per superare questo traffico, per otto chilometri direi che si può fare, il primo autostop in moto del viaggio.
Un quarto d’ora dopo sono di nuovo a terra e vengo raccolto da un certo Nijil. Speravo di riuscire ad arrivare alla prima destinazione, ma Nijil sta rientrando a casa e prosegue solo fino a Mannoor, venti chilometri più avanti. È facile trovare un passaggio, ma diavolo, ce ne vorranno cento per arrivare a Kumily! Mancano 110 chilometri, sono solo otto passaggi in autostop, di questo passo. Il problema non sono gli ingorghi di macchine delle grandi metropoli, è che questa strada è stretta. Nijil mi rassicura sul fatto che non ci sono autostrade come le intendo io, è davvero questa la strada principale. Mi dovrò adattare.
Arrivo a Muvattupuzha, in cerca di un piccolo spazio che permetta alle macchine di accostare in sicurezza, ma vengo preceduto: un automobilista abbassa il finestrino e mi offre di seguirlo verso Thodupuzha (che si legge Todupùra, non todo-pùza). Salgo al volo e ripartiamo.
L’autista ha una decina d’anni più di me, si chiama Meeraj, è sposato e sta rientrando a casa. Mi spiega che si è fermato a prendermi perché è un collega viaggiatore. Mi chiede se posso fermarmi a casa sua. Io non sono molto sicuro perché mi aspettavo di arrivare più lontano, ma è difficile rifiutare un’offerta così gentile, in un paese che difficilmente sarà ospitale quanto l’impareggiabile Iran. Accetto, avendo saltato Kochi posso permettermi un giorno di ritardo, spero. Nel centro dell’India ci sono le autostrade e si potrà andare forte.
Pochi anni fa Meeraj è andato in treno nel Nord del paese, dove ha viaggiato in moto per più di un mese, raggiungendo anche il Nepal. Non era da solo, ma ha partecipato ad una spedizione organizzata da un’emittente televisiva locale, che ha ripreso il viaggio. Quando è a casa, Meeraj lavora come landscape designer, specialmente nelle ville private. Mi porterà a visitare la oiccola tenuta di sua proprietà, con una piccola foresta di alberi da frutto.
Parcheggiamo tra i manghi del cortile di casa, sotto un portico con un acquario. Nell’acquario c’è un pesce enorme, parcheggiato tra le piante acquatiche. In casa ci sono genitori di Meeraj, sua moglie, che aspetta un bambino, sua sorella, il marito e tre nipoti: Jennifer, Isa Maria e Emma Margareth. C’è anche un neonato che dorme in una una culla di rete, accanto al divano. Come si intuisce dai nomi, loro sono cristiani e sulla parete ci sono un crocifisso e un’immagine di Maria. Per prima cosa mi offrono un piatto di mango e una doccia, se mi voglio rinfrescare. Accetto volentieri entrambi, ma prima il mango perché sono mesi e mesi che lo aspetto. Quando sono in Italia, di solito i manghi mi arrivano dalla nonna Eleonora, che me ne aveva regalato uno poche settimane prima della partenza.
Mentre degusto il primo mango del viaggio, racconto di come sono arrivato fin qua. La sala è spaziosa, soprattutto in altezza, e dal soffitto del primo piano ci arriva l’aria del ventilatore, che rende la calura sopportabile. Sotto al crocifisso c’è un televisore, alcuni giornali e un grosso uccello scolpito di legno (credo che fosse un uccello, tra molti mesi controllerò le foto).
Metto in carica il telefono accanto al computer di Meeraj, e mi casca l’occhio sul tavolo della sala, coperto da una tovaglia e un ripiano di vetro. Tra la tovaglia e il vetro c’è una vasta collezione di banconote, con facce di re e presidenti di tutto il mondo. Ci sono anche, immancabilmente, le lire della banca d’Italia. Ora che mi sono ripreso dalla calura e ho messo sotto i denti qualche salatino di pasta fritta ripiena di verdure, possiamo andare a vedere il frutteto. (I salatini di pasta fritta si chiamano samosa, ma questo lo scoprirò tra un mese)
Attraversiamo le strade tortuose del Kerala, fino ad una piccola risaia. Oltre la risaia c’è un canale, che demarca il confine della proprietà di Meeraj. Improvvisamente ho ritrovato gli alberi smisurati della foresta tropicale, come tre anni fa in Costa Rica. Mi ricordo bene di quando sono tornato a casa, dove la crescita degli alberi è limitata dal clima e anche le querce in campagna sembrano dei ridicoli cespugli. È meraviglioso esserci di nuovo in mezzo, fa un effetto simile nonostante si tratti di un giardino. Il giardiniere ha appena finito di tagliare un banano e sta sbucciando il tronco, scoprendo la parte interna, bianca e tenera. “Ah, quindi si mangia anche il fusto?” “Sì, con quello ci prepariamo un curry.” Sono un po’ confuso, perché a casa mia il curry è la polvere di spezie che si usa per cuocere il pollo alla maniera indiana. Forse lo fanno essiccare, anche se quel tronco è enorme. Boh.
Il terreno del frutteto è coperto di erba corta, tutta uguale come un prato all’inglese, dal quale spuntano palme da cocco, banani, manghi e alberi di rambutan. Meeraj mi dà il permesso di passare la notte qui, in amaca. Purtroppo la stagione dei rambutan è ancora lontana, i manghi qui sono acerbi e le noci di cocco vengono raccolte prima che cadano. Il giardiniere si occupa di raccoglierle, là in cima ad un’altezza vertiginosa.
“Scusami, so di essere ignorante, ma non sarebbe più semplice aspettare che le noci cadano da sole?”
“Sì, ma sarebbe pericoloso per noi starci sotto, quando veniamo qui per un picnic con le bambine. In ogni caso, stai attento quando ci passi sotto!”
Sarei già pronto a imparare come si scalano i cocchi, ma Meeraj non è capace, quindi dovrò aspettare tempi migliori per imparare. Il mio cicerone mi mostra l’erba che stiamo calpestando, che è la base del suo lavoro, letteralmente. Lui la chiama pearl grass, credo che in italiano si chiami erba brasiliana o erba bahìana. Cresce strisciando rasoterra come la gramigna,  ma ha foglie larghe, lucide e color verde brillante. Crea un tappeto denso che monopolizza la luce, nient’altro ci cresce in mezzo.
Proseguiamo il giro turistico nel vivaio, dove viene prodotta l’erba brasiliana. C’è una grande superficie ricoperta di pannelli di plastica su cui cresce la pianta infestante, parzialmente ombreggiati da una rete perché il sole del Kerala è spietato. Sotto un riparo ombreggiato, stanno una decina di donne sedute in cerchio, intente a preparare le talee di erba brasiliana, da piantare nel terriccio dei pannelli di plastica nera. Oltre il vivaio, c’è un’ultima porzione di terreno, della quale Meeraj va assai fiero. Attraversiamo alcuni filari di alberi della gomma, ormai privi di valore a causa della crisi del mercato del lattice naturale. Davanti a noi si spalanca un frutteto singolare, perché contiene almeno settanta specie diverse di alberi da frutto, piantate disordinatamente e lasciate crescere senza pesticidi e senza pratino all’inglese. Meeraj è a conoscenza dei principi dell’agroecologia e ha pensato bene di destinare una parte della propria terra a questo esperimento. Le farfalle sicuramente hanno apprezzato la scelta, a giudicare da quante ce ne sono. Ha piantato gli alberi solo pochi anni fa, perciò bisognerà aspettare per avere un bosco come si deve, con un tappeto di foglie invece dell’erba alta. Quando il giardino sarà pronto, Meeraj intende costruirci una casa. “Quello è un albero di rambutan, quello è un albero del pane, questo è un fico, quello è un durian, quell’altro lì si chiama wax apple, questo è un soursop, quell’altro è un jaboticaba…”
“Mi sono perso dopo durian, non sono pratico di frutta tropicale.”
“Purtroppo non è la stagione giusta per la maggior parte di questi, ma puoi assaggiare questi frutti di wax apple, che si chiama anche jambo. Non hanno ricevuto pesticidi, perciò non c’è bisogno di sbucciarle.”
Ci siamo fermati a parlare sotto il sole, mentre le farfalle svolazzano allegramente, ma la verità è che fa un caldo micidiale. Noto con piacere che anche Meeraj gronda sudore, nonostante sia nato e cresciuto in questo clima.
Torniamo alla macchina, per andare a casa a pranzo. Lungo la via, passiamo dalla cima di una collina, da cui si vede la campagna a Nord di Thodupuzha. Già che passiamo di là, diamo un passaggio a una signora che abita in cima.
Trovandomi in India, mi aspetterei di vedere case, strade e campi coltivati, tanti campi coltivati. Invece da quassù si vedono solo alberi, alberi e la chiesa bianca di St. Thomas che sbuca dalle chiome, in lontananza. Sicuramente non c’è un solo metro quadro di foresta, sono tutti frutteti e piantagioni di gomma, ma a prima vista sembra quasi una foresta tropicale, è incredibile.
A casa, per prima cosa salgo a farmi una bella doccia fredda, così da essere di nuovo presentabile. Nel frattempo la nonna sta finendo di preparare il pranzo, sta cucinando il frutto del pane, che si chiama jackfruit, così me ne fanno assaggiare un pezzo crudo. Mi spiegano che devo mangiare solo la polpa intorno al frutto, che ha l’aspetto delle foglie del finocchio. Il seme all’interno non si mangia crudo, e con la polpa e con i semi cotti si preprano due diversi tipi di curry. Adesso ho capito, è come la storia del kebab: “un curry” è un’espressione generica per indicare qualsiasi pietanza da abbinare al riso. Il curry di Madras che ho in casa non è la polvere in sé e per sé, ma più probabilmente quella polvere insieme al pollo serve per preparare il curry di Madras. Meeraj conferma.
Solo Meeraj e io ci sediamo al tavolo, per qualche ragione non mangiamo tutti insieme. La nonna e le due figlie portano in tavola un treno di piatti, ciotole e scodelle, con pesci secchi preparati con una salsa, jackfruit preparato con un’altro sugo, e poi ci sono degli altri pesciolini fritti, riso in quantità, curry di qua e curry di là, con tanto pesce perché siamo in Kerala.
Accanto al mio piatto c’è jn cucchiaio, nel caso lonvolessi usare. Assolutamente no, tantopiù che ho già iniziato a fare pratica in Oman. Però ho una domanda: perché preferite mangiare con le mani, nonostante l’arrivo degli inglesi e delle posate?
Beninteso, capisco benissimo che sia naturale mangiare con le mani. Lì c’è il cibo, qui c’è la mano: lo prendo e lo mangi.
È una domanda difficile, ma secondo il mio ospite mangiare con le mani aiuta a mescolare meglio gli ingredienti e soprattutto a prelevarne la giusta dose, che con le mani è più semplice.
Da aggiungere a piacere c’è una salsa al peperoncino, che è rimasta a parte perché spesso gli europei fanno i difficili. Non sanno che io mi preparavo da anni al fatidico arrivo in India, aggiungendo palate di peperoncino agli spaghetti aglio e olio. Prima di assaggiare qualcosa dal mio piatto, mia sorella si assicura sempre che non sia avvelenato. Così diciamo a casa mia, “avvelenato”. Ho l’onore di spiegare che, sebbene nella cucina tradizionale della mia città il piccante sia pressoché assente, nel centro e Sud Italia cresce fior fior di peperoncini e a casa mia si mangia piccante, a volte. La maggior parte dei turisti europei proviene dal centro e dal Nord Europa, dove il peperoncino è raro. Mai giudicare gli italiani. “Qui in India come funziona? I bambini a che età iniziano a mangiare piccante?”
“Appena iniziano a mangiare quello che mangiano i grandi, assaggiano quello che mangiamo noi.”
“E i cani, e i gatti? In Europa non mangerebbero mai il cibo avvelenato con il peperoncino.” Con mio grande stupore, a quanto pare anche gli animali indiani tollerano il peperoncino. A differenza degli indiani, io mi ricordo molto bene la prima volta che ho mangiato piccante, perché avevo dieci anni. Quel caciucco alla livornese a Castiglione della Pescaia era piccante da matti, ma buonissimo! Non avere mangiato peperoncino per dieci anni qui sembra una barzelletta.
Dopo pranzo abbiamo tempo di godere ancora a lungo della frescura e chiacchierare, finché è ora di uscire per andare a prendere degli operai che lavorano per Meeraj in una villa.
La villa è enorme, Meeraj dice che è costata al proprietario quaranta lakh di rupie. Che cos’è un lakh? Significa centomila, è decisamente più comodo che dire ogni volta “centinaia di migliaia” (hundred thousands) ed è anche più breve di “milioni”, se vogliamo fare i pignoli.
Comunque sia, nel retro della villa ci sono gli operai e le operaie, che stanno livellando di nuovo il terreno rossiccio e estirpando le erbacce appena spuntate e scavando un laghetto, in modo che sia tutto pronto per trapiantare il prato nuovo, tra un mese. Tutti lavorano scalzi, perciò prima di andarsene si sciacquano con la gomma dell’acqua.
Meeraj è qui per portare a casa alcuni di loro, ma soprattutto per consegnargli la paga giornaliera. Percepiscono circa 900 rupie al giorno, che moltiplicate per trenta giorni al mese e divise per 84 rupie per euro, fanno 320 euro al mese. Potrà sembrare strano, ma il riso in India costa non meno di 50 rupie al chilo, che assomiglia molto ai settanta centesimi di euro del riso che sta in basso in offerta negli scaffali della Coop. Strano? No, il riso è pur sempre riso, in Italia e in India. Si conserva a lungo e si può trasportare via nave, dove non si ammacca. Bisogna pagare un obolo alla catena di distribuzione, ma arriva nel supermercato praticamente allo stesso prezzo dell’Italia. Se in India ci fosse un riso magico che costa la metà, qualcuno lo esporterebbe subito in Europa sbaragliando la concorrenza. È la verdura prodotta localmente a costare poco, così come, spero, anche gli affitti e i servizi, se ci sono.
Pagati gli operai torniamo verso casa, passando a comprare da mangiare e da bere per stasera, al fresco nel frutteto. Nelle vie ancora trafficate di Thodupuzha, parcheggiamo davanti a un locale da asporto che produce un cibo tioico del Kerala: il roti paratha.
Fuori fa ancora caldo, ma dentro fa ancora più caldo, a causa della piastra di un metro quadro usata per cuocere. Il cuoco al lavoro dietro la piastra ha sicuramente meno di vent’anni, dai lineamenti Meeraj capisce che viene dal Nord dell’India. Mi spiega che ci sono molti indiani del Nord qui, che cercano condizioni lavorative migliori. Se qui in Kerala si può sperare di guadagnare novecento rupie in un giorno, nel Bihar e nell’Uttar Pradesh se ne guadagnano un terzo. Per lo stesso motivo, gli indiani del Kerala che cercano salari migliori emigrano nella penisola arabica, ecco perché ho visto così tanti indiani in Oman. Insieme al roti paratha ordiniamo anche della carne di pollo e di manzo da mangiarci insieme, ben piccante.
“Roti” significa “pane” e il roti paratha è una specialità di qui. Il cuoco unge per bene il piano di lavoro, poi stende una pallina di pasta con un mattarello sottile, finché diventa semitrasparente. Arrotola la sfoglia e con il rotolino affusolato fa una spirale, che piazza accanto alle altre a riposare per cinque minuti. Nel frattempo produce altre spirali al ritmo di una macchina e gira il roti paratha in cottura. Riprende le spirali, una a una, e con il mattarello le spiana di nuovo, ottenendo un disco largo una spanna e spesso pochi millimetri. Ora il tocco finale: schiaccia vigorosamente il disco tra le mani, più volte, come se stesse acchiappando una mosca. Le lamine della spirale si distaccano leggermente e il pane è pronto da sbattere sulla piastra. Lo cuoci un po’ di qua, lo cuoci un po’ di là ed è pronto da mangiare. Non invidio per niente il cuoco, diavolo, qui dentro c’è un caldo allucinante. Anzi, forse il vero problema non è il caldo, ma la paga miserabile.
Andiamo a comprare da bere, forse oggi posso fare un’eccezione e bere una birra in compagnia. È finito il medio oriente, e si vede. Il negozio che vende alcolici si trova in fondo a un vicolo, protetto da grosse inferriate. In India è vietato bere per strada, e in generale l’alcol non è visto di buon occhio. Tuttavia davanti a questo negozio la ressa è notevole, tutti radunati a comprare whisky. Noi saliamo al primo piano a comprare la birra. Paga tutto Meeraj, io nel frattempo sono occupato a cercare un cartone per proseguire l’autostop, domani.
Ormai fa buio, torniamo a casa a prendere lo zaino e ragguungiamo il giardino con i cocchi. Là ci aspetta un amico di Meeraj, di nome Sridhar. Seduti sul prato nella penombra, apriamo il roti paratha e stappiamo una bottiglia di Kingfisher a testa, brindando a questa prima notte indiana.
Sridhar lavora come programmatore, è sposato e ha una figlia piccola. Mentre si chiacchiera, giustamente mi chiedono che impressione mi ha fatto l’India.
Sicuramente me l’aspettavo sporchissima, invece il Kerala mi sebra più pulito dell’Iran. Non mi aspettavo di vedere così tanto verde e tanti alberi. Inoltre, in tutto oggi non ho ancora visto vacche in giro per le strade. Mi aspettavo di vedere più templi, invece ho visto solo chiese.
Sridhar ha la risposta pronta. È normale che questa parte di India abbia un aspetto così diverso, perché c’è una maggiore istruzione, meno povertà e anche il clima tropicale aiuta. “Qui in Kerala la maggioranza è cristiana o musulmana, è per questo che puoi vedere le macellerie bovine lungo le strade. Negli altri stati sarebbero vietate.”
“Ah, quindi voi due siete entrambi cristiani?”
“No, io sono induista.”
“Aspetta aspetta aspetta. Io di induismo so solo una cosa, che gli indù non mangiano carne bovina. Ora, tu sei indù, ma stai mangiando questa carne di manzo. Come me lo spieghi?”
Il motivo in realtà è semplice, semplice come il fatto che io, che mi dico cristiano, non ho controllato il calendario prima di mangiare la carne. Incidentalmente, oggi non è venerdì. Allo stesso modo, qui a Sud gli induisti tendono ad essere meno rigorosi.
Questi sfilacci di manzo però non hanno finito di stupire. A un certo punto Sridhar sbotta: “Certo che ci sono andati pesanti con il peperoncino. Non so come fai a mangiarla tu, ma per me è troppo piccante. E io sono indiano!”
Questa sarà una delle maggiori soddisfazioni del viaggio, arrivare in India e dare la paga a un indiano, il primo giorno.
Finita la seconda birra ci salutiamo, per loro è ora di tornare a casa. Si assicurano che trovi un posto per appendere l’amaca e se ne vanno, gettando via le cartacce della cena accanto a una vecchia automobile arrugginita.

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