Manuj Bhujel

Lezione di ieri: possono crollare i ponti o può piovere per dodici ore di fila, ma ci pensa la provvidenza a trovarti un tetto e dei buoni amici.
Giovedì 30/06/2022 Butwal (Nepal)
Mi sveglio davvero alle quattro, ma tutto tace e a quanto pare la sveglia alle quattro non implica niente di più di un breve risveglio prima di riprendere a dormire. Io resto sveglio mezz’ora, poi riprendo il sonno dove lo avevo lasciato. Poco dopo è già giorno e bisogna preparare lo zaino per andare a Kathmandu, oggi è il gran giorno. Sarà vero che il ponte è stato riparato durante la notte? Dalla convinzione di Shumraj sono fidicioso, ieri non aveva alcun dubbio. Sarà meglio di sì perché ieri pomeriggio ho scoperto di avere fretta, molta fretta. Il monsone in arrivo riverserà pioggia su tutto il Nepal, eccetto due valli remote, i cui permessi di trekking costano una fortuna e mi sembrano decisamente sopravvalutate. Ormai questo è diventato “Il giro del mondo in bassa stagione” e così sia, a testa bassa sotto il monsone. Ho la sensazione che comunque a valle e a monte la quantità di pioggia non sia la stessa. Mentre studiavo i trekking, ne ho trovato uno “molto difficile” e lungo 19 giorni, così ho controllato che non ce ne fossero altri più impegnativi e ormai la scelta era fatta. Entrando in Nepal mi sono detto che non mi importa niente di andare per forza a vedere il monte Everest da vicino, che tutte le montagne sono belle e meritevoli, ma a quanto pare questo trekking passa proprio sotto l’Everest. C’è qualche piccola lingua di ghiacciaio da attraversare, ma non richiede competenze specifiche perché si tratta comunque di una via di trekking fattibile con le scarpe normali. Aggiudicato! C’è solo un problema, i giorni del mio visto sono pochi e devo correre a Kathmandu il più in fretta possibile.
Mi unisco alla colazione, per poi passare a salutare il buon Shumraj per quello che fa. Le mie lodi possono essere sembrate scontate, ma in questa parte di mondo gli addii non sono molto sentiti, non sono riuscito a decifrare la sua reazione. L’ho cercato a lungo per ringraziarlo di avermi trovato e di aver realizzato un progetto che pensavo esistesse soltanto nei sogni degli indù. È incredibile aver trovato qualcuno che sia riuscito a porre rimedio alla piaga delle vacche abbandonate.
Da ultimo saluto Tikaram, che sta prescrivendo un medicinale ad un paziente. Stamattina ci sono interi sciami di plecotteri a riempire l’aria. Possono sembrare piccole libellule perché hanno quattro lunghe ali trasparenti, ma le somiglianze finiscono qui. Insieme a Tikaram lui ci sono il figlio e la figlia, con i quali ho potuto scambiare qualche frase in inglese perché Tikaram è insegnante di inglese. Suo figlio Manuka e mi richiama mentre me ne sto andando, prende un foglio e lo intitola “La mia famiglia”. Scrive i nomi dei genitori Rita e Tikaram, dei nonni Laxmi e Ritesh, più se stesso e la sorella Milida. Mi allunga un foglio e io faccio lo stesso con la mia famiglia. Ora parto.
“Aspetta!” Manuka si è accorto che ho una sorella, così mi porta una copia anche per la Sofia.
Ormai sono le otto, è il caso di andare davvero, cammino fino ad un chilometro più avanti per piazzarmi in un buon posto. Il posto è talmente buono che la prima macchina che fermo è diretta proprio a Kathmandu. Non solo, è uno di quei furgoni per il trasporto delle merci, ma è vuoto! Ora capisco perché arrivava di spinta. Ramesh e Manuj (Si pronuncia Manuch) si stringono un po’ e ci stiamo tutti e quattro. Lo zaino lo tengo sulle gambe e partiamo verso l’infinito e oltre. Phorev e Roben sono arrivati due sere fa alle due di notte, perché sono rimasti bloccati in un ingorgo enorme a 150 chilometri da Kathmandu. Spero di non fare la stessa fine e conto i chilometri che mancano ogni dieci minuti, ma sono ancora 250 e la strada è pessima. La via sarà molto lunga, facciamo che mettiamo lo zaino sulla paglia che c’è nel retro, in compagnia dei manghi. Ora va molto meglio, inoltre posso parlare in inglese con Manuj. (Si dice Manuch perché la traslitterazione del nepalese in caratteri latini l’ha fatta un ubriaco. Ch si leggerebbe s.) Manuj ha ventidue anni e abita a Kathmandu, nei giorni scorsi è andato fino a Kohalpur trasportando merce e ieri sono ripartiti per tornare indietro. Mi offrono subito un paio dei manghi che hanno nel sacchetto sul cruscotto, olè. Li hanno comprati a Kohalpur e li stanno riportando a casa insieme a quelli nel retro.
La strada è impegnativa, neanche la precisione millimetrica di Ramesh riesce ad evitare i continui sobbalzi dovuti alle buche fangose. Superiamo camion su camion, ma la velocità resta molto limitata dall’inclemenza delle piogge, che hanno ridotto la strada ad una poltiglia marrone. A tratti c’è l’asfalto, ma dura sempre troppo poco. Bella l’autostrada principale del paese, le buche della Georgia erano il paradiso in confronto, non c’è neanche paragone. Lo stesso vale per l’età media dei mezzi in circolazione, talmente anziani che Manuj e Ramesh mi invitano a usare la mascherina per non respirare tutto quello schifo.
Dopo un’ora Manuj mi fa un gesto con il pugno chiuso e il mignolo alzato. È il modo nepalese per chiamare una sosta per pisciare senza risultare volgari. Mi sgranchisco le gambe e ci dirigiamo verso un luogo in cui pranzare.
Il menù può sembrare ripetitivo perché non so i nomi delle verdure, ma giuro che ogni volta il dal bhat, cioè il riso con i legumi, è diverso, dal riso fino alla coppetta di carne in umido. Buonissimo, e in quantità enormi. Pagano loro, non posso contribuire in alcun modo.
Ripartiamo mezz’ora dopo, prevedendo di raggiungere Kathmandu alle 21. Nelle ultime due ore e mezza abbiamo percorso quaranta chilometri, inclusa la pausa pranzo. Non ci si può fare niente, il Nepal è bello così, è una gara di resistenza. Non sono solo le buche il problema, ma anche i posti di blocco. Ben presto un ufficiale adocchia il sacchetto di manghi sul cruscotto e ci pianta una grana perché in teoria non si potrebbe stare in tre sui tre sedili del furgone. Però è disposto a chiudere un occhio e ad alleggerirci di quei manghi, tre servizi in uno. Il terzo servizio è continuare a far fare bella figura alla polizia nepalese, che in questi tre giorni ha dato spettacolo.
Alle 12:30 passiamo Dumkibas, abbiamo percorso cinquanta chilometri e superato tutti i camion del Nepal, ma strada si raddrizza e ritorna l’asfalto, così procediamo ad una velocità ragionevole, a tutta birra verso Kathmandu. Ramesh parla solo nepalese, così Manuj chiacchiera un po’ con entrambi, soprattutto con me che produco domande a ripetizione. In questo viaggio, cambiando spesso interlocutore posso chiedere risposta a tutte le domande che mi saltano in mente. Che lavori ha fatto? Quanto era pagato? È mai stato all’estero? Ha mai visto il mare? Che progetti ha?
La premessa necessaria è che in Nepal il lavoro è merce rara, come in Georgia o forse meno. Lui ha lavorato un po’ come elettricista, come autista di questi furgoni merci, come cameriere per un breve periodo e sa fare qualcosa anche da idraulico. La paga era parecchio superiore al reddito minimo, ma solo quando ha fatto l’elettricista. Prendeva addirittura 22.000 rupie al mese, roba da diventare ricchi. Non è mai uscito dal Nepal e perciò il mare è rimasto molto oltre l’orizzonte. Qui però arriviamo ad un punto molto importante, il capitolo progetti. Ha in mente di andare in Francia perché sa che lavorando nella legione straniera si può mettere da parte un bel gruzzolo. Lavorerà illegalmente per cinque anni con il visto turistico scaduto, per poi ritornare in qualche modo in Nepal. “E poi?” Poi vuole comprare casa e mettere su famiglia con un minimo di base economica. Non è possibile mettere da parte dei risparmi diversamente, con una paga da fame e una moneta che si svaluta in continuazione. C’è una difficoltà grossa però, mi chiede se lo posso aiutare inviandogli con una lettera d’invito nell’Unione europea, perché altrimenti è difficilissimo entrare per i nepalesi e non solo. Io mi aspettavo che esistesse un visto lavorativo, ma non è così, è disponibile solo nei paesi che visito io. Si può ottenere una lettera d’invito dal futuro datore di lavoro, ma bisogna farsi assumere senza essere mai stati in Europa, facilissimo. Così va a finire che la soluzione è fingere di venire da noi in vacanza, lavorare in nero e tornare indietro senza farsi beccare. In tre giorni il popolo del Nepal mi ha già conquistato con la sua bontà. Che cosa dovrei dire ai nepalesi che mi chiedono una mano? Anzi, Manuj è il primo in assoluto da quando sono partito che sa con precisione di voler partire tra sei mesi. In qualche modo bisogna dargli una mano con il suo sogno, visto che lui e Ramesh mi stanno aiutando a realizzare il mio.
Inoltre c’è una questione ideologica, perché non è possibile che gli europei possano girare il mondo pagando una miseria e i turisti in Europa debbano pagare 80 solo per il visto, siano essi canadesi o iraniani. Nessuno mi chiede tutti quei soldi, tranne la Cina, che infatti non mi vedrà ancora per molto tempo. Ottanta euro in Nepal sono come ottocento euro da noi, tre settimane di lavoro per me, chi mai li pagherebbe per avere accesso ad un paese? Siamo dei gran bastardi, ecco cosa dico ogni volta che ne parlo da quando sono arrivato in Iran. Non è questione che abbiamo 27 stati, l’India ne ha 28 e il visto per un mese costa venti dollari. Non visiti più cose se ci sono più stati, un mese dura comunque sempre trenta giorni. Non è neanche un modo per selezionare chi se lo può permettere e chi no, perché tanto bisogna fornire un estratto conto bancario che provi di avere una somma equivalente ad almeno i miei primi otto mesi di viaggio.
Il costo del visto serve per iniziare a spennarli prima che entrino e per limitare la libertà di movimento dei viaggiatori. Tuttavia è solo una congettura, se qualcuno ne sa di più alzi la mano, adesso mi sono sfogato e sono calmo come prima.
Stavo dicendo che Manuj ha bisogno di una lettera di invito e mi sembra giusto garantirgliela, oltre a imporre la condizione che lavori legalmente, per non finire nei guai tutti e due e per avere la possibilità di utilizzare agenzie del lavoro e avere un contratto con delle garanzie. Banalmente tra queste garanzie c’è quella di poter tornare a casa con le mani slegate. Per quanto riguarda la burocrazia del permesso di soggiorno possiamo contare sulla consulenza di Ahmad, che ormai ha trasferito il domicilio nella questura di Reggio.
Proseguiamo ancora fino a Bharatpur, per poi fare una pausa sulla riva sabbiosa del fiume Narayani, sotto un chiosco che vende bibite. La parte più interessante del chiosco è il frullatore, inchiodato ad uno sgabello di legno. Con un piede si tiene fermolo sgabello, e poi si gira la manovella che mescola la bevanda. È un dispositivo un po’ ottocentesco, ma la plastica trasparente rivela che appartiene certamente al secolo successivo. Questa volta offro io, su, almeno da bere.
Facciamo anche due passi nei dintorni, su un isolotto di cemento sulla riva, oltre la statua di Buddha. C’è un ragazzo con una rete che cerca qualche pesce nell’acqua fangosa, ma con scarsi risultati. Ha solo una rete appesa ad un triangolo di bambù e un sacchetto per i pesciolini catturati. Un altro invece vende zucchero filato nei sacchetti, portando in giro questa sorta di albero rosa. Ramesh compra un sacchetto per me e uno per sé, aggiungendo “It’s very tasty!” (È molto buono!)
Io sono impaziente di riprendere la via, torniamo a bordo e ripartiamo verso la meta, su una strada tutta curve ma senza più sobbalzi. Il paesaggio diventa stupendo, tanto che chiedo a Manuj dove sono i sessanta milioni di abitanti del Nepal, perché qui si vede a malapena qualche paesino rurale qua e là. Da cinquanta chilometri godo di una vista magnifica sulla valle, scavata profondamente nella roccia friabile da un fiume limaccioso. Le montagne del Nepal sono franose, è facile notarlo dalla forma di questi monti dalle pareti quasi verticali. Gli alberi però non ci fanno caso e ricoprono comunque di foresta delle pendenze davvero vertiginose, così da renderle completamente verdi.
Ora che la strada è asfaltata come si deve è il caso di fare un’altra sosta per lavare il furgone e far riaffiorare il bianco della carrozzeria. L’autolavaggio si trova nei pressi di una cascata, dove dei lunghi tubi neri trasportano l’acqua ad una pressione considerevole, creando una sorta di idropulitrice seminaturale. Basta pagare un obolo ai due ragazzi che si occupano della manutenzione dei tubi e Ramesh ha a disposizione tutta l’acqua che serve per ripulire il mezzo intorno, sopra e sotto il cofano, due volte. Appena terminata questa minuziosa pulizia andiamo al piccolo bar accanto alla cascata, un piccolo chiosco che vende bibite fredde e prepara da mangiare senza fuoco. Brindiamo con due boccali di una bevanda gialla fluorescente e con due piatti di una singolare preparazione tipica di queste parti. Riso soffiato, noodles secchi sbriciolati, arachidi, piselli croccanti, peperoncino fresco, un pochino di cipolla e un filo d’olio. Le bombole di gas costano, bisogna fare di necessità virtù e inventare qualcosa di gustoso e precotto.
Si riparte, resta l’ultima tratta di cento chilometri, di cui buona parte al buio. Inesorabili proseguiamo su per le vallate fino a quindici chilometri da Kathmandu, quando appare sul versante di fronte a noi una lunga scia obliqua di luci bianche e blu. Non capisco cosa sia, fino a quando mi spiegano che si tratta di un lunghissimo ingorgo. Io speravo già di raggiungere il mio ospite di stasera in tempo, invece la faccenda si complica. Su couchsurfing ho contattato Arjun Sharma, che di solito va a letto presto e spero che mi aspetti fino a mezzanotte.
Saliamo a passo di lumaca, per poi scoprire che tutto questo ingorgo è causato dall’ennesimo posto di blocco, che perquisisce i camion in cerca di irregolarità. Superato quello siamo liberi, Manuj mi aiuta a trovare una moto che mi porti da Arjun, a quest’ora ci vuole proprio un taxi. Anche il tassista si assicura che abbia la mascherina, perché la polvere di Kathmandu è micidiale. Non sono le polveri sottili dovute la traffico, è proprio polvere di roccia in sospensione nell’aria, che in moto dà anche fastidio agli occhi. Di buono però c’è che qui a 1500 metri di quota la temperatura è decisamente migliore che a valle e l’umidità è nettamente inferiore, come testimonia la polvere.
Tre euro per mezz’ora di moto e sono arrivato, finalmente a casa di Arjun. Faccio una doccia e sono operativo, salgo in salotto a fare due chiacchiere, se non fosse che mi chiama Rawat, il pittore di Dunagiri, insieme ad un amico. Mi chiede dove mi trovo, dieci volte e poi continua a straparlare e a ripetere le stesse domande e vuole sapere delle donne nepalesi e parla parla parla. Dopo venti minuti, faticosamente riesco a mettere giù in modo garbato. “Non so che cosa sia successo, a Dunagiri era tanto simpatico…” “È ubriaco” sentenzia Arjun con un ghigno divertito.
Già, ecco perché, buffo che non mi sia reso conto della differenza rispetto al solito.
Finalmente posso chiedere ad Arjun di quando è stato lassù nella valle di Gokyo, cioè nella zona dove intendo andare anche io. Gli chiedo dei trasporti e di tutto quello che mi viene in mente per organizzare la giornata di domani. A quanto pare alle cinque di mattina c’è un autobus diretto per Salleri e secondo Arjun in cinque giorni si può arrivare alla fine della prima tappa del trekking dei Tre Passi, quello a cui aspiro. Domani mattina dovrò comprare i permessi necessari al trekking, poi avrò ancora 25 giorni di visto a disposizione, cioè due giorni per andare e tornare in corriera, 17 per il trekking e poi me ne servono dieci per collegare Salleri alla prima tappa, che è Phakding. In totale sono 30 giorni, ma sono sicuro che da qualche parte si può andare più velocemente e recuperarne quattro o cinque. Facciamolo!
Il tempo vola e andiamo a letto presto perché domattina alle sette anche Arjun è impegnato e bisogna uscire di casa tutti. Resto impegnato a scrivere, sul comodo letto di uno dei figli di Arjun, che sta studiando negli Stati Uniti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *