Le mani magiche di mastro Ernests

Venerdì 11/08/2023 Mare delle Fiji (Oceano Pacifico)
Il pomeriggio porta vento leggero, sempre da Sudovest. L’unico modo per continuare a macinare delle miglia è correre al traverso, verso Nordovest. Questo rallenta ulteriormente il nostro avvicinamento alla meta. Almeno abbiamo vento, così continuo a timonare pazientemente, finché Ernest si fa avanti e gli cedo il timone.
Due minuti dopo stiamo ancora navigando al traverso, ma dritto verso Nord. Il vento viene ancora da sinistra, la barca va ancora dritto verso lo stesso orizzonte blu, ma la bussola si è girata di quaranta gradi. Possibile? Forse potevo tenere una rotta migliore.
Dopo mezz’ora Ernest ne ha avuto abbastanza e mi offre la ruota del timone. Non ci penso due volte, bisogna pur che impari a timonare decentemente. Nel passaggio di mano Valiant perde leggermente la rotta, ma con la prua a Nord le vele non portano e la barca quasi si ferma. Sulla mappa del computer di bordo la nostra rotta disegna uno zig zag nettissimo, proprio in corrispondenza dei cambi al timone. Devo parlarne a Charlotte perché sto impazzendo, tutto questo non ha senso, a meno che Ernest sia un potente stregone. “Capitano! È appena successo un fatto strano, non capisco che cosa sto sbagliando!” Charlotte ascolta il mio racconto concitato, mi guarda dritto negli occhi e mi afferra per il braccio. Con voce grave, afferma: “Palla, si chiama Natura! Il vento ha girato.” Ernest, dietro di me, gongola ancora: “Eh sì, le mie mani sono magiche.” Secondo me ha ragione.
A fine turno è buio e il vento ha rinfrescato leggermente. Resto al timone un altro po’ e va a finire che passo tutto il turno a studiare come timona Charlotte, che potrebbe condurre un veliero anche a occhi chiusi. C’è un fatto in particolare che non mi va giù, che è complicato da spiegare. Basti sapere che, ogni volta che ci muoviamo, che sia navigando o correndo o pedalando, percepiamo del vento. La direzione di quel vento è a metà tra la direzione del vento vero e la direzione in cui ci muoviamo. Il vento che investe un oggetto fermo si chiama vento vero. Il vento che investe un oggetto che si muove è detto vento apparente e ha diversa direzione e intensità. Quando si naviga, si regolano le vele e si aggiusta la rotta in base al vento apparente. Tuttavia, ogni volta che regoliamo le vele, Charlotte ci indica la rotta da mantenere in base al vento vero, indicato da una lancetta installata in pozzetto. Grossolanamente funziona anche così, ma sarebbe più preciso navigare in base al vento apparente. Ma che ne so io, qui sono solo un mozzo dopotutto. Tra l’altro la differenza è talmente sottile che non riesco neanche a spiegare perché sono confuso. Fortunatamente ho tempo in abbondanza per riflettere e nelle ultime tre ore credo di aver risolto il mio dilemma. Il capitano sa in qualsiasi momento qual è la direzione del vento apparente, basta un’occhiata alle vele per intuirlo. Forse sa da dove soffia il vento anche mentre dorme. Per questo, avere in pozzetto una lancetta che indica il vento apparente sarebbe assolutamente inutile e ridondante. Conoscere la direzione del vento vero invece fornisce un’informazione in più per pianificare la rotta. Per noi principianti quasi non fa differenza, così Charlotte ci fa timonare in base alla direzione del vento vero. È pressoché impossibile spiegare questa sottigliezza senza fare un disegno, ma un base ai discorsi di questa sera ho capito di aver indovinato e di avere molto da imparare in questo mondo galleggiante di quindici metri per quattro e mezzo.
Dopo un paio d’ore di osservazione e spiegazioni, Charlotte mi offre il timone. Così mi siedo sottovento dove stava lei, osservando le vele e le ondine generate dalla barca che fende l’acqua. Poggio piano piano, fino al punto giusto e tac! Ecco l’equilibrio perfetto per navigare al lasco… l’ho perso. Rifaccio, lentamente, finché le vele si incurvano e quelle ondine ritornano a scorrere dolcemente lungo la murata. Dopo mezz’ora di esercizio, mi pare di sentire la barca così bene che non serve neanche più guardare la bussola.
Questa notte il cielo è coperto. A casa mia, solitamente le notti nuvolose sono quelle più chiare, perché le nuvole riflettono l’inquinamento luminoso della città. Non ci avevo ragionato, ma nell’oceano invece non ci sono luci da riflettere. Nero come l’inchiostro non è un’iperbole per dire che è molto scuro, significa che tutta la luce disponibile sono dieci led in testa d’albero e le luci di navigazione. Non si vedono i profili delle nubi e non si vedono le creste delle onde. Le profondità dell’oceano buio si riflettono nel cielo buio e a più di quattro metri dalla barca tutto è uniformemente nero e insondabile. In queste condizioni, inizio a parlare con Charlotte dell’effetto che fa timonare dal centro del pozzetto invece che qui dove sono io. Seduto qui sento il vento e vedo le vele, ma dal centro del pozzetto? “Certo che si può”, risponde Charlotte, “il principio è lo stesso.”
Non mi faccio certo pregare, è il momento di imparare anche questo, sicuramente servirà. Lascio la battagliola e mi piazzo dietro la ruota, cercando di tenere la barca in rotta senza quasi guardare la bussola. È molto più difficile di prima, finisco per orzare troppo e il genoa sbatte. Torni in fretta alla poggia, ma un po’ troppo e perdo il punto giusto. Mi riaggiusto pian piano, fissando la bussola. Ricomincio daccapo, ma mi pare impossibile. Il lasco è un equilibrio delicato e senza punti di riferimento il mio cervello impazzisce. Ad ogni onda, la murata curva della barca sembra curvare all’orza. È un’illusione ottica, lo so che andiamo dritti, ma senza la conferma della bussola vado completamente in tilt. Mi era già successo durante la regata con Regolo, timonando nel buio pesto con venticinque nodi di vento e due metri d’onda. È come se continuassimo a curvare e a girare in tondo, mille girotondi all’ora. Ora, anni dopo, sono di nuovo in quella situazione e continuo a mulinare il timone a dritta e a sinistra, incapace di raccapezzarmi senza sapere dov’è il Nord. Dopo quindici minuti di questa giostra impazzita tocca a Raphaël e Magali, che mi salvano dal delirio. È ancora troppo presto per questo livello, riproveremo un’altra volta quando il timone sarà aggiustato.
Durante la notte l’oceano si spiana completamente e la mattina del 12 agosto l’acqua è appena increspata. Con le onde cala anche il vento, così il capitano decide di strambare, issare lo spinnaker e dirigere a Nordest per non continuare a deviare verso Ovest. Ormai siamo così lontani dalle Fiji che qualcuno ha proposto di seguire il vento e andare in Nuova Caledonia. È solo una battuta, siamo ancora diretti a Savu Savu.
Lo spinnaker, detto spi, è una grande vela colorata che si issa a prua, è fatto di tela leggera e si usa preferenzialmente con vento leggero. Se sulla mia deriva di quattro metri lo spi sembra grande, lo spinnaker di Valiant pare un campo da calcio. A differenza del diabolico blooper, controllare questo immenso spi è decisamente più facile.
L’unico problema è il rompicapo topologico da risolvere per armare la vela e le sue cime, che sono cinque e devono attraversare correttamente un’autentica ragnatela di sartie, stralli e scotte. Dentro, fuori, in mezzo, sotto qui, sopra là, proviamo a issare. Sbagliato, giù tutto di nuovo.
Il secondo tentativo è la volta buona, lo spi si gonfia e ci porta a Nordest. Oggi che l’oceano è calmo e c’è il sole, ognuno è libero di riposarsi, basta avere qualcuno al timone e un secondo marinaio alla scotta sottovento dello spi. Mentre veleggiamo sospinti dalla brezza, sale dal tambuccio un profumo di soffritto che fa dilatare le narici di tutto l’equipaggio. Oggi anche Magali si è ripresa del tutto e ha fame.

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