Lezione di ieri: bisogna sempre avere presente la direzione di bussola delle rotte migratorie.
Martedì 21/12/2021 7:32 Haskovo (Bulgaria)
Mi sono addormentato ed è rimasta la luce accesa, diavolo. Faccio lo zaino e raggiungo i miei ospiti in sala, dove Adriana mi porta un caffè. Sperimento la colazione standard di Volen, una mousse di banana, cacao e uvetta veramente buona. Mentre facciamo colazione Volen dà un’occhiata fuori attraverso la parete a vetri della sala e adocchia un uccellino sull’albero morto nel parco di fronte. “Uh guarda, un fringuello. Un frusone direi.”
“È distante almeno trenta metri e controluce, come fai a capire che è un fringuello, se non si vede come è fatto il becco?” “Per il modo in cui sta seduto sul ramo, poi dalle dimensioni la specie mi sembra quella.” Ok, niente, non discuto, mi inchino e basta. Va a prendere il binocolo e si tratta effettivamente di un frusone (Coccothraustes coccothraustes), anzi c’è anche un picchio rosso maggiore, bianco e nero con un cappello rosso. É a metà del tronco e questo almeno si vede bene.
Volen ha una breve videochiamata alle nove e mezza, poi dovrà uscire per un incontro di lavoro e mi potrà dare un passaggio fino all’estremità della città. Nel frattempo posso andare al supermercato a spendere i miei ultimi dieci leva, perché non c’è verso di pagare la cena di ieri. Grazie mille anche per questo.
Al market compro del mais tostato, un chilo di lenticchie e una salsiccia stagionata, più una scatoletta di carne per arrivare a dieci leva. Alla cassa mi dicono che non va bene, il prezzo scritto sulla scatoletta è sbagliato. Cerco qualcos’altro con lo stesso prezzo e corro su per la strada e su per le scale, perché sono le dieci in punto e dobbiamo partire. La giornata è magnifica, con qualche nuvoletta, molto sole e di nuovo molto vento.
Viene anche Adriana, che ha tenuto da parte per me cinque bonbons, fatti con cacao, burro di cocco, zucchero, datteri e nocciole tritate. Sono tutti molto buoni, ma i migliori sono senza dubbio quelli ricoperti di granella alla menta, concorda anche Volen.
Arriviamo alla confluenza con la strada che porta a Svilengrad e ci salutiamo di cuore, mi hanno dato anche un grande cartone extra perché tra me e Istanbul ci sono ancora 350 chilometri. Confido di arrivare in Turchia entro sera e sono speranzoso di poter raggiungere Istanbul, con un po’ di fortuna. Più la città è grande più è facile trovare un passaggio diretto per il centro, e io sto andando verso una delle metropoli più grandi d’Europa.
Il primo a fermarsi è Gencho, con una macchina perfettamente pulita che mi mette in difficoltà per via delle mie scarpe infangate. Lui parla bene l’inglese e mi accompagna nella prima tratta fino ad Harmanli. Ha viaggiato parecchio, specialmente in Nordamerica, e insiste perché vada anche lassù. È troppo lontano per me, magari facciamo un’altra volta.
Ad Harmanli c’è un centro di raccolta degli immigrati illegali che vengono intercettati dalla polizia. Il cancello principale della zona recintata è aperto e i rifugiati possono entrare e uscire, Gencho dice che percepiscono un reddito decisamente più alto del salario minimo in Bulgaria, e che possono andarsene liberamente perché appunto non sono trattenuti all’interno. Questo trattamento di favore nei confronti di persone che hanno infranto la legge lo disturba parecchio. Probabilmente è meglio se cambiamo argomento perché non condivido molto questo attaccamento a quei dannati confini terrestri che fanno tanto penare i viaggiatori. Non sto collezionando bandiere e non tengo il conto di quanti paesi ho visitato in questo viaggio, quando me lo chiedono devo farci i conti.
10:55
Facciamo un breve giro turistico per il centro di Harmanli e Gencho mi porta al ponte che conduce verso l’autostrada, così provo a pestare un po’ sull’acceleratore di questo lungo trasferimento. Le macchine che sto cercando sono quelle con la targa turca che inizia con 34, il codice del centro di Istanbul.
Dieci minuti e si fermano Gimitar e Stoika, una coppia in pensione che sta andando verso Edirne con il proprio van. È un mezzo abbastanza insolito, ma come mi ha spiegato Volen spesso i bulgari vanno a fare compere a Edirne perché là i vestiti tendono a costare meno. I due parlano solo bulgaro, quindi dopo avergli spiegato dove vado mi limito a guardare fuori.
A Svilengrad Gimitar imbocca l’uscita dell’autostrada, invece che proseguire per Edirne e qui capisco l’equivoco. Quando gli ho chiesto se vanno a Edirne per compere loro mi hanno risposto che ci vanno spesso, non che ci vanno oggi. Niente, grazie del passaggio.
13:04
Svilengrad è piccola e non riesco a capire quale strada prendano gli abitanti per andare in Turchia. Vengono qui in autostrada o possono seguire quella stradina che va a Est fino al confine? Non c’è modo di saperlo, l’altra strada è troppo lontana. Preparo un enorme cartello con scritto Odrin, cioè Edirne in bulgaro, e aspetto prima dello svincolo proveniente dal paese.
Non funziona, provo a tornare sull’autostrada, dove mi hanno lasciato Gimitar e Stoika.
Niente di nuovo, forse avrei fatto meglio a rimanere dov’ero prima.
Aspetta e aspetta, finalmente passano Smitko e Georgi, che vanno fin quasi al confine. In pochi minuti scendo a poche centinaia di metri dalla frontiera. Non mi è tanto chiaro quale strada prendere per arrivarci a piedi, ma un poliziotto mi conferma che posso proseguire sul ponte per le auto.
La frontiera sembra vicina, in realtà è piuttosto lontana, sarà ad almeno un chilometro. Lo si capisce grazie alle grandi bandiere che svettano sugli edifici: l’Unione Europea e la Bulgaria in primo piano e la Turchia sullo sfondo. A bordo strada c’è una discarica a cielo aperto, residuo di tutto il cibo e le bevande consumati dagli automobilisti in arrivo. Le corsie si separano e si riuniscono tra le linee di spazzatura, incanalando le macchine, gli autobus e i camion verso garitte differenti. La prima è vuota, alla seconda ci sono dei nebulizzatori che forse igienizzani i veicoli e c’è un primo controllo dei documenti. Ci sono le macchine in fila e di fianco un’altra corsia vuota con il semaforo verde. Provo a presentarmi lì, ma quella allo sportello mi dice di tornare nell’altra fila. Un minuto dopo alcune macchine della mia fila iniziano a spostarsi nell’altra corsia perché evidentemente lo sportello adesso è aperto. Grazie tante.
Alla terza garitta controllano i passaporti in uscita dallo stato. Una macchina mi supera pochi metri prima di mettermi in fila con le altre e io la supero di nuovo, perché sono a piedi e non mi fregano. Specialmente perché loro sono tedeschi e io italiano, se qui c’è qualcuno che può saltare le file, sicuramente non sono loro. Il passaporto va bene e posso proseguire la mia maratona verso la Turchia, il cui bandierone rosso è ormai ben in vista. Supero un box dove gli autisti di fermano per cambiare i contanti e mi dirigo lemme lemme verso la frontiera turca, finalmente. Qui sono nella terra di nessuno, con alla mia sinistra un grande edificio che ospita il duty free. Ormai è fatta, vado fino allo sportello e per poco non mi ribalto calpestando una chiazza di bagnato sul cemento liscio. Non credo che sia acqua, o è sapone o è olio.
Davanti al mio tentativo di suicidio l’ufficiale non fa una piega e mi informa che non è possibile attraversare la frontiera a piedi. Mi sembra di aver letto un’informazione del genere da qualche parte, ma era troppo assurda per essere vera.
15:22
Sono bloccato qui, devo trovare delle ruote. Il transito alla dogana è sempre un momento delicato, spero di trovare qualcuno disposto a prendere a bordo uno sconosciuto spettinato con zaino enorme appena prima di sottoporsi ai controlli più accurati. D’altra parte l’autostop è il mio mestiere, non sarà così difficile. Male che vada dormo al duty free.
Come mi aspettavo, le macchine mi schivano, ma il flusso è ininterrotto e in cinque minuti si ferma una Dacia Duster. Scende László, che ha quarantasette anni ma sembra che ne abbia dieci di meno (spero di non essermi sbagliato, comunque sembri dieci anni più giovane).
dietro ai sedili anteriori la Dacia è murata di bagagli, c’è precisamente lo spazio per il mio zaino e riesco ad incastrare il bastone in un pertugio. Lo copro di ringraziamenti perché non è da tutti fermarsi in un posto così. Ci siamo incontrati da dieci secondi e non è ancora convinto di portarmi con sé fino a Istanbul, ma il mio plico di cartone non entra in macchina, quindi bisogna prendere una decisione al volo. Passaggio accordato, corro a lasciare i cartoni in un carrello della spesa abbandonato e salto in macchina con il mio salvatore proveniente dalla Romania.
Mentre siamo in fila, László mi racconta perché un rumeno sta andando in Armenia in macchina. Un anno fa una signora francese è andata in Armenia in aereo insieme al figlio per sfuggire alle restrizioni dovute alla pandemia. Recentemente ha avuto bisogno della propria auto, rimasta in Francia, perciò ha chiesto su Facebook se qualcuno fosse disponibile ad effettuare il trasferimento da Parigi a Yerevan. Il viaggio e il volo di ritorno erano pagati da lei naturalmente, bastava solo trovare un autista. László ha colto l’opportunità al volo, perché queste offerte non si ripetono ad ogni pandemia. È anche in un periodo poco felice con il lavoro e quindi ha pensato che staccare per un paio di settimane gli avrebbe fatto bene. Inoltre ha un nonno armeno, uno italiano, uno ungherese e uno rumeno quindi è doppiamente interessato a visitare l’Armenia. Starà via per Natale e Capodanno, venti giorni, quindi non è stata una decisione facile e la sua famiglia se l’è presa. D’altra parte quando il lavoro va male il malumore si ripercuote su tutti ed è rischioso aspettare che passi senza fare niente, per questo è partito. Ma torniamo a noi.
Qualcuno ha guidato la macchina fino a Budapest, László è salito a bordo ed è partito, ieri mattina. Come spesso accade quando si porta una macchina da un paese ad un altro, c’è sempre qualcuno che chiede: “Non è che mi potresti portare un po’ di vestiti?”, “Non è che potresti aggiungere un po’ di questo e di quello?”
Come era successo alla Renault Trafic di Riçard che ho incontrato a Podgorica, anche questa macchina trasporta un grosso carico di mercanzie richieste dal paese di arrivo. Il problema è che questa è solo un’utilitaria ed è colma dal pavimento al tettuccio. Speriamo che i controlli siano sbrigativi, perché László non ha la minima idea di che cosa ci sia dietro i nostri sedili.
Al primo controllo vogliono vedere il passaporto, poi raggiungiamo la fila di macchine in cui controllano i bagagli. Basta un’occhiata veloce al baule aperto per dissuadere l’ufficiale dal guardarci dentro, va bene va bene, andate pure.
Al terzo controllo si verificano i documenti del veicolo, incluso l’atto notarile che autorizza László a guidare la macchina di un’altra persona.
È fatta, nessuno vuole sapere se siamo vaccinati e siamo liberi, accolti in terra turca da una grande moschea costruita appositamente per sottolineare che da qui in poi non si mangia il maiale.
Fine della connessione internet, inizio della Tracia. Da qui a Istanbul c’è un’autostrada dritta che porta fino al centro, attraversando questa regione pianeggiante. Con grande disappunto, mi rendo conto che non sono più abituato a cotanta piattezza. L’autostrada pare di recente costruzione perché il terreno ai lati è piantumato con piccoli alberi alti un metro, un magro contributo alla riforestazione di questa zona interamente coltivata.
La strada per Istanbul è lunga, nel frattempo mi faccio raccontare la storia di László, che è un importatore di tè. Immagino che si tratti dell’azienda di famiglia che lui ha ereditato, ma la realtà è completamente diversa. László da giovane ha fatto parte per anni della squadra nazionale di atletica della Romania, viaggiando in lungo e in largo. È stato tra i sedici migliori ostacolisti al mondo e una volta è arrivato sesto, ma le classifiche sono complesse e non ci ho capito molto. Sta di fatto che tra sedici e vent’anni circa ha guadagnato un sacco di soldi, spendendoli in maniera altrettanto efficiente. Imparata la lezione, insieme ad un amico ha aperto un negozio etnico di oggetti artistici e souvenir provenienti dall’India e in generale dall’oriente. L’attività ha iniziato a fruttare e hanno pensato che sarebbe stato carino offrire una tazza di tè ai clienti.
Non volevano certo offrire un tè scadente, quindi László si è recato di persona in Austria, dove c’è un grosso importatore di tè di qualità. Quando si è presentato là chiedendo cinque chili di tè, il proprietario ha sgranato gli occhi chiedendo a che cosa servisse tutto quel tè ad un privato. Una volta ascoltata la storia ha elargito questi cinque chili di tè senza chiedere niente in cambio.
L’idea del tè ha avuto successo, così tanto che dopo qualche tempo László e il suo amico hanno deciso di lasciar perdere gli oggetti orientali e di convertire il negozio in una casa del tè. Oggi si possono trovare 354 tipi di tè tra cui scegliere.
Negli anni i due soci in affari hanno iniziato ad avere degli attriti dovuti alla gestione del negozio. Essendo anche migliori amici hanno deciso di separsi e László ha tenuto l’attività, pagando una sostanziosa somma al proprio socio. Ultimamente la pandemia sta infierendo sugli affari, quindi László ha bisogno di un po’ di svago per superare questo momento. Pur essendo abituato a viaggiare fin da giovane, da quando ha aperto il negozio non ha viaggiato molto. Specialmente adesso che è l’unico titolare, non è poco potersi concedere venti giorni di vacanza consecutivi.
La sua casa del tè si chiama Demmers Teehaus e si trova lontano dalla capitale, in Transilvania, ma ne esistono altre quattro, di cui una a Vienna. Mi racconta dei suoi compaesani di casa, che sono in buona parte rom. Essendo nato e cresciuto in Romania lui ci è abituato, anzi ha molti amici tra i rom e sa di poter contare su di loro. I furti non sono tollerati in Romania così come in Italia, ma comunque sia László ci passa sopra e dice che sono simpatici e che li capisce.
Siamo già a metà strada e sta per tramontare il sole, è giunto il momento di fermarsi a preparare un tè. Di che cosa mi stupisco, vuoi che il proprietario di una casa del tè viaggi senza fornello, teiera a stantuffo, pacchetti di tè e tazza? Ma certo che no, ci mancherebbe.
Naturalmente nel negozio di tè ci sono tutti gli infusi più strani, ma László preferisce la semplicità e prepara un tè verde giapponese. Già che sono in compagnia di un esperto, mi faccio spiegare la differenza tra tè verde e tè nero. Se il tè sono semplicemente foglie essiccate, come si fa ad ottenere l’uno o l’altro?
Questo forse non lo sapevate, ma il tè verde sono semplicemente foglie essiccate, il tè nero invece viene sottoposto ad una breve fermentazione prima di disidratarlo. Mentre viene pronto il tè disponiamo sul cofano gli snack che abbiamo. Io ho solo il mais tostato, mentre la mamma di László ci ha fatto avere una fettona di formaggio e mezzo chilo di noci tostate, per timore che il suo bambino deperisse durante il viaggio. Ci scherziamo sopra, ma insieme sono davvero ottimi. Il mais tostato invece non c’entra niente, ma nella fretta di comprarlo ho pensato che fossero arachidi.
Questo tè verde è decisamente diverso da quelli che ho bevuto usando quello in bustine. Innanzitutto è proprio verde, come quella soluzione di cloruro ferroso che ho a casa. Ha il colore dell’acqua di cottura delle ottiche e anche il sapore è decisamente diverso dal tè nero e si avvicina molto a quella tisana di ortiche che preparai con Mors e Tara quando andammo a fare un fantastico trekking di quattro giorni tra il lago Paduli e l’alpe di Succiso. Forse la bontà di questo tè è composta per metà dai ricordi, per metà dalla qualità del tè e per l’altra metà dalla compagnia del mio compagno di viaggio. Questo aumenterà la bontà della prossima bevanda verde, perfetto.
Se sapevate già la differenza tra tè verde e nero, adesso vi frego perché questa non la sapete di sicuro. Tiè! Premessa: caffeina e teina sono due nomi diversi per la stessa sostanza chimica. László mi ha spiegato che in oriente il tè non si beve come bevanda energizzante, quindi le foglie vengono infuse più volte come si fa con la yerba mate in Sudamerica. Nel caso del tè la prima infusione, che estrae dalle foglie la caffeina, viene gettata via e la si dà alle piante. Si dice che la prima tazza è “per i tuoi nemici” e si inizia a bere il tè dalla seconda infusione in poi. Se sapevate anche questa potete aprire una casa del tè domani stesso e spiegarmi che cosa stavate aspettando, visto che i primi cinque chili di tè a quanto pare li regalano.
Corro a rotta di collo per andare a fotografare il tramonto, che proietta gli ultimi raggi rossi attraverso i margini frastagliati delle nuvole, come una bandiera macedone. Risaliamo in macchina per percorrere l’intricato e caotico centro di Istanbul, fino all’albergo in cui László passerà la notte. Di tutti gli alberghi di questa sterminata città, il mio autista ha un amico albergatore che lavora ad appena due chilometri da dove sto andando io, nel quartiere Şişli (sciscli). Non appena raggiungiamo la periferia della città, inizia l’ingorgo di macchine a tre corsie che ci accompagnerà fin quasi a destinazione. Sono le sei e mezza, ce lo saremmo dovuto aspettare. I viadotti delle strade principali, che si diramano in continui svincoli, sono invasi dalla lava a strisce rosse e gialle, che scorre lentamente fino alla confluenza successiva. D’altra parte quindici milioni di abitanti ci mettono un attimo a congestionare le strade. László mi sta raccontando che non è mai stato in Armenia ed è molto curioso di andarci perché “Il Mare!!!” Scusami László, va tutto bene, è che non vedo il mare da trentuno giorni e sei ore ma non mi mancava per niente. Faccio praticamente un salto sul sedile e ritorno disponibilità dopo un minuto di contemplazione, “Stavi dicendo?”
È per un quarto armeno, un quarto rumeno, un quarto ungherese e un quarto italiano, ma non ha mai visto la terra di suo nonno ed è molto eccitato all’idea di andarci.
Dopo un’ora di guida cittadina il mio autista inizia a entrare nello spirito del tassista turco e riesce a sgusciare fuori dagli incroci senza esserne fagocitato. Dopo una breve eternità raggiungiamo la stradina ripida in cui si trova l’albergo, dove ci accoglie Semih, il portiere. Domani László ripartirà per la Georgia, conta di arrivare a Trebzen (Trebisonda) entro domani sera. Insignisco László del premio per la più lunga tratta di autostop, 270 km. Ci salutiamo e mi faccio indicare da Semih il bancomat e il negozio Türkcell più vicini. Sono qui dietro l’angolo, perché a Istanbul i clienti sono così concentrati che ogni catena di distribuzione ha un negozio ogni poche centinaia di metri, specialmente qui dove c’è uno dei viali principali.
La strada che porta a piazza Taksim è gremita di gente, d’altra parte è quasi Natale. Per me non c’è niente di nuovo nelle luminarie natalizie, vedo addobbi dappertutto da quando sono arrivato a Podgorica un mese fa. Però non ho regali da comprare, pranzi da preparare, stanze da pulire, invitati da aspettare. Non sembra per niente natale, potrebbe anche essere Halloween per quanto ne so. Non è vero, un po’ di pressione la sento, infatti ho fatto in modo di non passare il Natale da solo contattando su Couchsurfing Samuel Grimm, che ha 35 anni e una vasta esperienza di viaggi da raccontare. Ha una foto profilo spettacolare, lui sdraiato su un divano rosso trovato chissà dove lungo una strada. Ha una lunga barba rossa e la testa piegata all’indietro, baciata dal sole. Oltre a queste futilità specifica che normalmente preferisce dare la precedenza agli ospiti non eterosessuali, perché non è semplice trovare alloggio qui in Turchia. Nonostante questo non ho trovato nessun altro ospite più promettente di lui, quindi gli ho scritto un lungo messaggio e ha accettato di ospitarmi anche per Natale. Super!
Per prima cosa però mi serve una SIM turca per tornare online, quindi mi servono dei soldi per comprare la SIM. Al primo bancomat c’è un tizio giovane che cerca di farmi capire a gesti qualcosa che non riesco a capire. Indica la sua carta e lo sportello da cui escono i soldi, che è chiuso. Non ne ho idea amigo, prova a inserirla, magari funziona. Io ho smesso di risolvere i problemi con le carte prepagate altrui, chiedi a qualcun’altro.
Prelevo 300 lire, cioè 20 euro, così da avere un po’ di soldi per comprare del cibo nei prossimi giorni. D’ora in poi le chiamerò solo lire perché si fa prima, quelle italiane non si usano più, orsù!
Al negozio Türkcell, la compagnia che mi ha consigliato Samuel, dicono che la SIM costa 300 lire. Mi sembra un pochino esagerati, esco, ma mi blocco. Mi passano davanti le lande desolate del lago Tuz, le montagne di Erzurum e il sito archeologico della Cattedrale di Ani, dove la mia unica speranza di comunicare con il mondo sarà la Türkcell. Cinque euro a settimana sono in linea con le spese telefoniche nei Balcani. In più ho WhatsApp illimitato, quindi posso spremere questa SIM fino all’ultima goccia, per bilanciare la visita in Iran dove WhatsApp non funziona.
Mentre acquisto la SIM il commesso, che si chiama Aydin, vede la bolla della mia pellicola salvaschermo e si offre di toglierla. “Non è una bolla, è solo una botta che ha preso quando mi è caduto un mese fa. Lascia stare. Sta fermo.” Non, non ci riesce. La bolla non c’è e lo strumento che usa piega la pellicola, che diventa inservibile. Iniziano a cercarne un’altra, ma i pezzi di ricambio Oukitel credo si trovino solo ad Hong Kong. Tutte le pellicole sono troppo larghe o troppo lunghe. Alla fine il collega di Aydin ne trova un pochino più larga della mia, ritaglia un pezzetto con le forbici e la applica al telefono. Non è un’opera d’arte, ma a me interessa la funzionalità più che l’estetica. Ora gli do i soldi, prelevo altre 500 lire, faccio un po’ di spesa e dopo aver cenato mi dirigo verso la casa di Samuel, un po’ più a Nord. Non è facile trovare un cestino nel viale, li avranno rimossi per evitare che qualcuno ci lasci dentro un regalo esplosivo, visto che siamo sotto Natale. Mentre cenavo lungo la via, ho assistito al passaggio dell’ambulanza attraverso la folla, un’impresa veramente titanica. Ah, naturalmente non era un’ambulanza della Croce Rossa, qui si usa la Mezzaluna Rossa.
21:40
Sam mi ha scritto che tornerà a casa verso le 23, ma io non ho più niente da fare e vado a scrivere sotto casa sua. Dopo quaranta minuti mi manda una foto del mio letto già pronto e mi sorge un dubbio. Nei messaggi di sopra c’è un piccolo errore di battitura. Sono io che probabilmente non arriverò prima delle 23, non lui.
Salgo le scale e incontro Sam, che mi allunga le chiavi della propria casa prima ancora di farmi entrare. Mi tolgo le scarpe e mi presento a lui e Asal, la ragazza iraniana che è ospite a casa sua da un mese. Ormai è abbastanza tardi, quindi facciamo rapidamente due chiacchiere e Sam va a letto perché ogni mattina esce di casa alle sei per andare a insegnare in una scuola fuori città. Se mi serve, la password del wifi è “gatto pazzo”, riferito alla sua gatta, che si chiama Salsiña. Sam infatti non è turco, è nato negli Stati Uniti ed è cresciuto a Florianopolis, un’isola del Brasile. Ma queste sono storie per domani, buonanotte. Il mio letto è un grande e morbido materasso sul pavimento della sala. Sono ancora sconvolto perché non mi aspettavo di ricevere le chiavi di casa e il completo accesso alla lavatrice, la cucina, il frigo e il suo contenuto. L’unico frutto di ci non posso mangiare è il melograno di Asal, che è rimasto da parte per domattina perché oggi è una ricorrenza particolare per lei. Per giunta Sam starà fuori quasi tutto il giorno, quindi lascia la casa a noi e a Salsiña. È come essere in un ostello, ma è gratis. Grazie Sam.
Per chi non è pratico, cosa sarebbe un duty-free? Perchè hai scritto che ci dormivi ma poi hai parlato di un carrello, quindi sono un po’ confuso. Comunque hai ragione, saltare la fila è prerogativa degli italiani, e immaginarti mentre lo pensi passando davanti ai tedeschi è veramente buffo!