Lezione di ieri: meglio campeggiare dove gli animali selvatici non passano.
Martedì 16/02/2022 7:25 Katskhi (Georgia)
Sguscio fuori dal sacco a pelo e il sole è proprio lì seduto sulla biforcazione della quercia, a guardarmi. Appoggio la testa sul mio cuscino di amaca per ricevere sulla faccia il primo calore della mattina. Meraviglioso. Non mi posso certo lamentare per la temperatura di stanotte, piuttosto vicina allo zero e accentuata dalla brezza. Mi basta ripensare al Kurdistan turco per sapere che ormai il freddo è alle spalle e la primavera è arrivata, lo dicono i fiori. Sembra ieri che mi sono detto: “Si tratta solo di superare cento giorni di inverno, in Azerbaijan sarà tutto finito.” Sono andato più lentamente del previsto, ma ho appena visitato mezza Georgia in dieci giorni, che non è niente male. Sparisco di nuovo nel sacco a pelo perché scrivere il giornale sul cellulare è molto più facile al buio.
Quando il sole è abbastanza alto preparo lo zaino e torno a cercare un degno erede del mio bastone, magari un po’ più grosso del precedente. Nonostante i validi candidati, non sono perfetti come mi aspetterei, perciò continuerò la ricerca più giù. Stavolta seguo un sentiero intelligente, che passa accanto ad alcune piccole cavità naturali che potrebbero essere ottime come riparo in caso di pioggia. La prossima volta passerò la notte lì, ora è il caso di scendere. Incontro due rocciatori e sono sulla strada asfaltata del monastero, circondato dai noccioli. Non resta che nascondere lo zaino e partire in perlustrazione.
13:10
Pianta dopo pianta, su e giù per i pendii, ho passato in rassegna più di trecento rami quasi drittissimi, ma quello che cerco evidentemente non esiste. Ora basta tornare alla pianta con il ramo migliore e poi parto, ma dov’era quel ramo? Mi sembra di ricordare e invece non è dove pensavo, a quanto pare ho superato di parecchio le mie capacità di mappare il territorio. L’unica cosa da fare è cercare freneticamente un buon ramo e partire, altrimenti avrò passato un giorno intero a cercare qualcosa che non c’è, per niente.
Trovo un ramo adatto cresciuto in un posto scomodissimo, ne taglio una sezione alta come me e sigillo le estremità con la cera, per evitare che si asciughino troppo in fretta creando una crepa. Il piano è di farlo stagionare un mesetto prima di usarlo sul serio, visto che dovrà affrontare l’Iran. Ieri ho ricevuto buone notizie da Sercan a Kars, infatti il consolato azero gli ha detto che il confine terrestre tra Tbilisi e Ganja è aperto. Non devo prendere l’aereo, sono cento euro risparmiati.
Armato della mia nuova pertica, all’alba delle due del pomeriggio, torno in strada per andare verso Gomi. Ieri sera ho individuato un posto ottimo per bivaccare lungo la strada che porta a Gori. So già che serve un po’ di pazienza, ma non passa molto tempo e si ferma Akaki, che fa il carrozziere e sta andando a Chiatura. Ci fermiamo a caricare in macchina un amico e dopo un buon numero di curve siamo a Chiatura. Dopo Chiatura c’è Sachkhere, e ci vado con Valeri e TorniKe, che quando salgo in macchina mettono su Celentano. Grazie a loro capisco che Akaki poco fa non ha detto mankan-qualcosa, che ha a che fare con le macchine. In georgiano marganetsi è il manganese, infatti Chiatura è incastrata tra due montagne ricche di manganese. Akaki, Valeri e TorniKe sono minatori e probabilmente le miniere di manganese danno impiego alla popolazione di Chiatura da molto tempo. Sospesi sopra alla strada ci sono i cavi delle teleferiche in disuso, le cui reti di protezione arrugginite stanno lentamente cadendo a pezzi.
Qualche canzone più tardi ci salutiamo in centro a Sachkhere, su una strada polverosa.
16:25
Mentre aspetto davanti ad un distributore di benzina, si avvicina Miro, che ha ventun’anni e naturalmente è incuriosito dal mio aspetto bislacco. È uno dei primi georgiani che parlano anche inglese, una rarità.
Il nostro dialogo dura pochissimo perché si ferma una grossa monovolume, guidata da un uomo con una lunga barba brizzolata e i capelli lunghi raccolti in un codino. Non va tanto lontano, ma va bene tutto, sono quasi arrivato. Per qualche ragione nella sua macchina c’è profumo di prosciutto, perciò questa ha tutta l’aria di essere una trappola per emiliani. Dice di chiamarsi Nikolozi (che si pronuncia Nicolosi) e nel frattempo estrae il cellulare per tradurre la seconda frase. Mi chiede se voglio andare a casa sua. Come si può immaginare sono un po’ perplesso, specialmente perché non ho idea di chi sia costui e ci siamo incontrati appena due minuti fa. Aggiunge di essere un prete, e in effetti guardando meglio la sua barba, la veste nera lungo fino ai piedi e i capelli lunghi, di sicuro è travestito bene. Ha come sfondo del cellulare una foto di sé stesso con i figli, il ché mi rassicura e mi fa accendere una lampadina: i preti ortodossi si possono sposare. Accetto!
Invertiamo la marcia per andare a fare un po’ di spesa per la cena. Compra khinKali e birra, a spanne sono quattro chili di khinKali e due litri di birra. “Wow, abbiamo ospiti stasera?”
Si riparte, andiamo a Korbouli (che si legge proprio come è scritto), svoltiamo verso il paese e parcheggiamo davanti ad una casa azzurra a due piani, con un grande giardino arredato con un paio di qvebri, gli otri per il vino. Sulla terrazza del primo piano, la marea di vestiti da bambini che ingombrano il filo per stendere è un segno abbastanza chiaro che Nikolozi ha davvero dei figli. Lui prende la spesa nelle sue grandi mani e io lo seguo dentro casa con il mio fedele zaino. Posso lasciare i miei bagagli nella camera davanti all’ingresso, che ha due letti con immagini di Maria, varie mensole di libri e qualche bottiglia di vino. “Modi” mi dice con il suo grande sorriso, “vieni”. Spalanca la porta del soggiorno e appare una folla di figli, dei quali io sono il nono. In realtà questa sera sono otto perché manca LuKa, il più grande. Tutti mi salutano, chi in georgiano e chi in inglese, ma non mi sento un alieno, probabilmente non sono il primo perdigiorno raccolto per strada. Darei una mano volentieri, ma in quanto viaggiatore devo essere stanco e sedermi.
In breve la cena è pronta e i figli più grandi preparano la tavolata, che è piena di pane, di cavolo rosa e di piatti di khinKali. Iniziamo ad aggredire la prima linea di khinKali, ma altri sopraggiungono dietro di loro, all’infinito. Questi khinKali sono più cotti di quelli che preparava Lali, mi guardo attorno, vedo che neanche le teste vengono risparmiate e mi adeguo. Il ripieno è speziato, perciò Tekla mangia solo la pasta e lascia la carne agli altri.
Quando sembra che i khinKali siano terminati, sopraggiunge la pecora bollita, da mangiare con un pizzico di sale e una salsa georgiana agrodolce, color vinaccia. In tutto ciò io ho già iniziato a fare domande, per capire quanto spesso hanno ospiti a casa. Ci pensa Ana a ragguagliarmi sulla situazione, perché è quella che parla meglio l’inglese. A dirla tutta non sento parlare così bene l’inglese da quando ho lasciato Kars, mille chilometri fa. Cezar non conta perché non è del posto. Restando sul vago, Ana mi spiega che ogni tanto ospitano qualcuno e che l’ultima è stata una ragazza iraniana. “But she was an idiot”, aggiunge, “era un’idiota”. È un po’ pesante come descrizione, che cosa mai avrà fatto per essere definita così? “Ha detto che sarebbe tornata, invece non ha mantenuto la parola.” Evidentemente non ha specificato il quando, immagino.
Ana aggiunge “Tornerai qui a trovarci? Prometti che ritornerai.” Mi sembra che stiamo correndo un po’ troppo, sono qui da due ore e devo già firmare per il mio ritorno. Mi prendo un attimo per riflettere perché non ho molta scelta, qui vogliono sul serio una risposta. Si tratta di impegnarsi a tornare in Georgia al più presto possibile e se non lo faccio posso trovare posto nella schiera degli idioti. Se uno promette ma non mantiene la parola un po’ se lo merita, e sono disposto a correre il rischio. Chiarito che il mio ritorno non potrà avvenire prima di due anni, il patto è siglato.
Ana parla e capisce bene l’inglese, anche se ha ancora otto anni e ha imparato da autodidatta facendo pratica sul computer. Suo malgrado, mi spiega che domani noi uomini andremo in gita a RaCHa, saltando la scuola per un giorno. Menzionano altre due mete alternative, ma ci sono già stato pochi giorni fa. Già che ci siamo gli faccio vedere dove abito, come al solito “vicino a Bologna”.
00:20
Meglio andare a dormire, domani ci sveglieremo presto perché la strada sarà lunga. Nikolozi però non va a letto, si infila una giacca e il berretto per uscire. Nel frattempo c’è una pentola di latte sul fuoco e un grosso biberon sul tavolo. Insisto per seguirlo mentre va a dare da mangiare ai vitelli.
Loma, il cane da guardia, non è troppo contenta di vedermi, ma una volta entrati nella stalla i latrati si placano. Nella piccola casa di mattoni c’è un recinto con due piccoli vitelli e la madre di uno dei due legata nello stallo accanto. Prima si dà il latte ai vitelli, poi può bere anche la vacca che aspira l’acqua dal secchio come un’idrovora. Immagino che mangiare solo fieno secco metta sete, in effetti. Per ultimo il gran finale, la mungitura, che non ho mai visto eseguire dal vivo. In dieci minuti il secchio si riempie di quasi tre litri di latte; si nota che Nikolozi possiede quello che dalle mie parti si chiama “sóvermân”, cioè la naturalezza di un gesto ripetuto da una vita. Rimpinguate le scorte di fieno nelle mangiatoie, arriva il momento tanto bramato dall’altro spettatore fisso di questo rito quotidiano, il gatto, che reclama un sorso di latte per sé.
Adesso la giornata è proprio finita, crollo a letto nella stanza fredda, sotto delle caldissime coperte.