La prova finale dell’India

Lezione di ieri: Dedica un minuto in più a pensare a cosa ti può servire nel bagaglio in stiva.
Mercoledì 07/06/2022 10:40 New Delhi (India)
Riprendo i sensi dieci ore dopo, avendo soddisfatto il bisogno di sonno di domenica e lunedì. I miei messaggi su Couchsurfing hanno raggiunto solo ospiti impegnati, perciò cerco una terzo uomo. Avrei tanto altro da fare, ma conviene che mi lavi i capelli e lasci la camera perché se ricordo bene ho visto scritto un dodici sopra il bancone all’ingresso. Può darsi che fosse l’orario in cui lasciare la camera.
12:10
Mi ricordavo bene, perciò mi trasferisco al piano terra sul divano dell’ingresso, perché mi serve il wifi per capire che cosa visitare oggi. Su Couchsurfing si è reso disponibile un certo Sundeep Singh e ho tempo fino alle quattro e mezza per visitare qualcosa. Avevo già preparato un itinerario molto più lungo, ma il resto lo lascio a domani. Mi gusto gli ultimi due manghi e sono pronto a entrare un scena. Lascio lo zaino in custodia all’ostello ed esco solo con il marsupio, il cappello e una bottiglietta d’acqua, vuota.
Il vicolo è largo circa un paio di metri e la debole luce che filtra dall’alto delle case a tre piani si deve fare strada tra la giungla di cavi prima di raggiungere il suolo. Nella lama di luce giallognola che arriva quaggiù fluttua un leggero pulviscolo sollevato dal calpestio. Nonostante i 43°C al di sopra dei tetti, qui fuori dalla porta non si sta così male e percepisco anche un leggerissimo movimento d’aria. Inizio a percorrere i vicoli svoltando a zig zag per spostarmi in diagonale, ma ad ogni svolta trovo qualcuno che mi fa segno di tornare indietro perché il vicolo è cieco. Seguo un uomo a caso e così esco dal dedalo, raggiungendo la strada chiassosa. La motodiversità che popola questa giungla strombazza a tutto spiano, sperando di fendere il marasma per mezzo delle onde sonore. O meglio, questa è l’impressione che avrei se non fossi in India già da tre settimane. I miei occhi vedono dei fasci di fili del telefono più grandi del solito, un tripudio di insegne colorate incastrate come un tetris e un intenso viavai di risciò pieni di pacchi, di tuktuk in cerca di passeggeri e di carretti con la frutta. Probabilmente ci sono anche delle cartacce per terra e qualche buccia di frutta qua è là, ma quasi non ci si fa caso. Mi pare anche di sentire il flebile frastuono delle note dei clacson, ma è proprio l’allegria dell’India che mi mancava.
Mi dirigo per la mia strada, uscendo dalla zona del bazar per percorrere una strada principale, con i marciapiedi sostanzialmente puliti e un traffico relativamente scarso. Ci sono seimila indiani per chilometro quadrato, non si può pretendere la luna, orsù. Per cercare di trasportarmi, un autista accosta e mi informa che fa molto caldo. Lo so che fa caldo, grazie, ma sono qui per capire che effetto fa l’estate a Delhi e se giro in tuktuk mi perdo tutta l’esperienza. Mentre cammino per i fatti miei passa in strada un motociclista, che mi nota, accosta, si leva il casco e mi corre incontro attraverso l’ampio marciapiede. “Da-dove-vieni-Come-ti-chiami-Dove-vai, sei entrato a vedere questo negozio?”
“Non sono entrato, ma devo andare, facciamo che ripasso dopo, d’accordo?” L’ho convinto, facciamo ancora due chiacchiere e poi ognuno riparte per la propria strada. Non dovrei più stupirmi delle assurdità che capitano qui, ma immaginare la stessa scena in Italia mi tiene impegnato a ridere fino al tempio.
Arrivo al tempio Shri Laxsmi Narayan, per gli amici Birla Mandir, dove devo depositare all’ingresso le scarpe e tutti gli apparecchi fotografici. C’è un edificio con tre alte cupole rosse a ogiva, situate sopra un portico a due piani. Sotto il portico giallo ci sono due nicchie dove risiedono le statue di Laxsmi e Narayan, sorvegliate da due guardiani che recitano una infinita preghiera. Le pareti interne sono affrescate con scene colorate provenienti dalla mitologia. C’è anche una statua con uno di questi dei, a cavallo di una tigre. Mi incuriosisce perché è da tanto che vorrei vedere da vicino la superficie di queste porcellane sacre, che sono colorate di un bianco latteo che sembra traslucido, come se il primo strato di terracotta sottostante fosse trasparente. Poco oltre c’è un grande mappamondo moderno, infatti il tempio è stato ultimato nel 1939. All’inaugurazione partecipò nientemeno che Gandhi in persona.
Lascio il tempio per andare a far visita al mio amico di prima, nel negozio. Pensavo che lavorasse qui, ma l’uomo che ho incontrato prima non c’è. Mi vogliono mostrare assolutamente degli scialli, ma invece di farglieli aprire per niente ritorno all’ostello per avere notizie di Sundeep, il mio probabile ospite. Lungo la strada compro due libretti di cartoline, perché ho quasi finito le cinque che avevo a Mostar e stupidamente non le ho comprate a Shiraz. Ormai è terribilmente difficile trovare le cartoline, appartengono a un’altra epoca purtroppo.
Lungo la strada trovo un altro tempio dove è stato distribuito il pranzo gratuitamente. Sotto i tendoni di stoffa rosa decorata ci sono ancora dei pentoloni sporchi e alcuni piatti d’acciaio sui tavoli. Mi avvicino al rubinetto di una piccola autocisterna di acqua potabile, ma subito due uomini si avvicinano per farmi riempire la bottiglia con l’acqua presa in cucina, che è più fresca. Uno degli inservienti si offre di andarla a prendere per me, al piano di sopra. Il primo mezzo litro lo trangugio all’indiana, versando l’acqua in bocca. Essendo un turista, suscito un certo stupore.
16:10
Raggiunto il wifi, Sundeep mi invita ad unirmi a lui oggi pomeriggio, prendendo una metropolitana fino all’ultima fermata. Raccolgo armi e bagagli ed esco di nuovo nel vicolo. Potrei prendere un autobus da qui, ma due mezzi pubblici in un giorno solo potrebbero uccidermi, è molto più interessante camminare un’oretta verso la linea della metro che porta direttamente da Sundeep. Nel vicolo strettissimo c’è un uomo accovacciato che sta segando un pannello di legno appoggiato al muro. Si deve interrompere perché altrimenti non c’è spazio per entrambi. In generale le vie non puzzano in questa zona, ad eccezione dei rari punti in cui ci sono gli urinatoi, come alla fine di questo vicolo. Non so perché solo gli uomini hanno bisogno degli urinatoi per strada, forse qui a Delhi sono incontinenti. O forse è solo un modo per contrastare la norma della pisciata libera che vige in India. Almeno tutti la fanno nello stesso posto.
Per raggiungere la metropolitana basta seguire una strada dritta che passa attraverso una zona che sulla mappa si chiama “vecchia Delhi”. Colgo l’occasione per fare un po’ di chiarezza sulla differenza tra Delhi e New Delhi, perché danno l’idea di essere due città distinte. Beh, non lo sono, semplicemente è successo che il governo aveva bisogno di spazio per costruire palazzi, parchi e piazze. Perciò, invece di costruirli nella periferia di Delhi, ci si è spostati di quattro chilometri a Sud per fondare New Delhi, così la sede del governo si trova in pieno centro.
La vecchia Delhi si rivela essere un grande bazar, con più traffico congestionato, più cartacce per terra, più vacche per la strada e ragionevolmente più borseggiatori. Invece di passare sotto al portico come tutti, cammino in mezzo a fianco allo spartitraffico, dove posso avere accanto al massimo una persona, che è facile da tenere d’occhio. Una metà della merce qui viaggia a piedi, trasportata su carretti carichi di pacchi o direttamente sulla testa. A metà della traversata vedo arrivare un uomo che trasporta sulla testa delle cisterne di plastica per l’acqua che sono larghe quasi due metri ciascuna. Ne trasporta tre fasciate insieme a triangolo, due in alto e una in basso, così voluminose che ci potrebbe stare dentro l’uomo vitruviano. Tiro dritto senza fermarmi, è interessante attraversare questa zona, ma è un tantino troppo affollata per i miei gusti.
Dietro di me sento il solito “Hello sir!”, mi volto e c’è un uomo in camicia azzurra ben stirata che arranca verso di me, scansando i tuktuk. Accendo il messaggio registrato per rispondere alle solite domande indiane e poi ascolto che cosa ha da dire di così importante. Secondo me non ha capito dove sto andando, ma sembra allarmato. È un autista e vuole che torni indietro perché la stazione della metro in cui sto andando è lontana e questa zona è pericolosa. Pericolosa? Magari ho sottostimato il pericolo ed è prudente tornare indietro, non so cosa ci sia nei prossimi cinquecento metri. Ha proprio l’aspetto di un autista, quindi lo ascolto e torniamo indietro cento metri fino ad una fila di tuktuk e si consulta con un paio di colleghi. Uno di questi conosce la stazione di cui parlo, conferma che esiste. Mentre gli autisti si consultano, io ho un istante per valutare la situazione dall’esterno. Un viaggiatore che ha quasi raggiunto la propria meta si trova in una zona di mercato in cui ciascuno è indaffarato nei fatti propri. Arriva un uomo qualsiasi, che non sa neanche dove sta di casa, a dire che bisogna assolutamente tornare indietro perché c’è un’altra fermata della metro, che secondo lui dista cinque minuti. Ma io perché dovrei stare ad ascoltare uno che non ha neanche capito dove sto andando? Lo mando al diavolo con molto garbo e mi rimetto in cammino. Poco più avanti c’è davvero la stazione, un edificio talmente grosso che la sola insegna è lunga quindici metri.
In stazione i passeggeri e i bagagli vengono controllati come in aeroporto, comprensibile date le dimensioni della città. Salgo a bordo e mi piazzo davanti al finestrino, per osservare Delhi dai binari sopraelevati. Davanti a me scorre una distesa tutta uguale di case a tre o quattro piani, con in cima tante cisterne bianche che forniscono l’acqua corrente alle case. A volte le case non sono imbiancate e hanno i mattoni rossi a vista. Mezz’ora dopo sono a destinazione e chiedo l’hotspot a un pendolare per avvisare Sundeep che sono arrivato. Il mio ospite mi accompagna fino a casa propria e per prima cosa decidiamo di andare a cercare una nuova sim per me. Lui ha trentun’anni e non è sposato. Sarebbe una seccatura infinita dover giustificare questa anomalia con chiunque. Anche a me chiedono sempre perché non sono sposato, ma io almeno ho la scusa di essere italiano. Invece di pensare ad accasarsi, Sundeep pensa a risparmiare per il prossimo viaggio e a ospitare viaggiatori quando non può viaggiare. I genitori sono contenti, lui è contento, quindi che problema c’è?
Per qualche motivo irrazionale, lo sguardo allegro e pieno di entusiasmo di Sundeep mi ha ricordato il mio amico Turlea, che mi ha dato la spinta finale per accantonare gli indugi e partire. Per il resto non si assomigliano per niente, Turlea è di origine moldava, ha la barba corta e soprattutto non porta il turbante. Sundeep di cognome si chiama Singh e infatti la sua famiglia è di religione sikh.
Tornando alla sim, Jio sarebbe la compagnia migliore, ma non vende sim agli stranieri quindi cerchiamo un negozio Airtel. Ci spostiamo in moto e solo lui riesce a vederli in mezzo al decoupage di insegne multicolori. Al negozio l’orario di chiusura si avvicina e quel disgraziato dell’operatore continua a richiedere documenti e numeri di telefono di riferimento, come se ci volessero quattro persone per comprare una sim. Nel frattempo si è fatto tardi e Sundeep avrebbe dovuto accompagnare la madre dal dentista. Ormai non c’è più tempo, quindi andiamo a spostare l’appuntamento a domani. Il dentista è un ex medico dell’esercito e il suo piccolo ambulatorio è interessante perché c’è un listino prezzi appeso al muro. Tenendo conto che un euro vale 82 rupie, è interessante notare che togliendo uno zero quei prezzi diventerebbero circa i prezzi italiani in euro. È una serata un po’ rocambolesca, Sundeep mi lascia dal dentista e va a casa a prendere dei documenti, ma rimane a piedi con la moto. La spinge fino a casa, prende un motorino e torna dal dentista. Una volta rimandato l’appuntamento rientriamo a casa attraverso il reticolo di strade, che a me paiono tutte uguali. Scendiamo in strada subito dopo per comprare da mangiare da un venditore ambulante. Sundeep ha un debole per lo street food e non è possibile che io non abbia ancora assaggiato i bagaglini che vende quel tizio. Mentre scendiamo le scale, la mia guida aggiunge: “Non posso assicurare l’igiene alimentare, ma dovrebbe piacerti.” Io questo cibo l’ho già visto ovunque, senza capire come si mangia. Si chiama gol gappe e consiste in una sfera cava di pasta fritta, che viene bucata in cima e farcita di salse varie e ceci. per ultimo si riempiono le cavità con una mescolata di acqua speziata e piccantina. Questi dischi volanti farciti sono abbastanza piccoli da poterli mangiare in un sol boccone. C’erano anche al buffet a Lahore, perciò io li ho presi e mangiati come grissini, ignorando il carrello di salse accanto. È una scoperta interessante, chiediamo anche una mestolata extra di acqua speziata, da sorseggiare come digestivo. Questo è esattamente uno di quegli street food che non avrei provato perché non viene cotto al momento. L’ambulante semplicemente assembla i gol gappe con le mani e con il cucchiaio, poi sposta il carretto per far passare una moto, dà il resto al cliente precedente e finisce di condire le sfere fritte nel piattino. Se Sundeep si fida allora lo seguo a ruota.
21:30
La cena ci sta aspettando, è l’unico momento della giornata in cui la famiglia si riunisce, perché Sundeep fa assistenza clienti negli Stati Uniti e resta sveglio fino a notte fonda. Sono due anni che non ricevono ospiti attraverso Couchsurfing, perciò ricevo un’accoglienza particolarmente allegra. Stasera si mangia chapati, lenticchie in umido, cetrioli e cipolla a fettine e altre salse. “Non hai abbastanza lenticchie, prendine un po’.” Ora “Ti serve dell’altro chapati, ecco qua.” Negli ultimi due giorni ho mangiato solo quattro manghi, c’è tutto lo spazio che serve.
Dopo cena facciamo un giro nel quartiere e un bel po’ di chiacchiere, essendo il mio primo giorno a Delhi ho una marea di domande. In un cortile tra le case, che dovrebbe essere il parco, ci sono due cumuli di rifiuti che sono stati raccolti lì perché forse domani passerà qualcuno a raccoglierlo. Non mi è chiaro come faranno a estrarre tutta quella roba dal recinto del cortile, ma mi fido. Inoltre, perché Sundeep non ha un contratto per il telefono? Perché nel suo quartiere c’è il wifi nelle strade, dappertutto.
Rientriamo in casa e la mamma di Sundeep tira fuori uno scatolino di gelato fatto in casa. “Come faceva a sapere che qui ai tropici il mio frutto preferito è il mango?” Sundeep traduce in hindi e la madre scoppia a ridere. Il mio ospite lavora per una compagnia americana che ha delocalizzato il servizio clienti in India. Per questo la sua paga mensile è uguale a quella degli impiegati negli Stati Uniti, alla settimana. È comunque un buono stipendio rispetto agli altri lavori in India e permette anche di lavorare da casa. Con la benzina che costa 100 rupie al litro c’è una bella differenza.
Adesso però arriva la domanda difficile, perché abita a Delhi nonostante l’aria irrespirabile, il traffico e i disagi dovuti al monsone? Il motivo principale è che suo padre lavora qui a Delhi, perciò spostarsi significherebbe perdere il lavoro. Il primo della famiglia a venire a Delhi fu suo nonno, che era ufficiale di polizia e fu trasferito dal Punjab a qui.
Tuttavia bisogna precisare che adesso l’inquinamento non è ai livelli che può raggiungere in autunno, quando diventa veramente pessimo. Ci sono vari indici per misurare la qualità dell’aria, ma a Delhi tendono ad arrivare a fondoscala. Quello che si usa qui va da 1 a 999 e oggi i valori in città variano tra 450 e 600, a seconda delle zone. Oggi, 600 corrisponde a 700μg/m^3 di PM10 e 260μg/m^3 di PM2,5. In questi giorni l’indice di qualità dell’aria non è proprio ottimale, ma si respira. È solo quando si avvicina a mille che il governo sconsiglia di uscire di casa. L’indice che usiamo in Europa è diverso e i nostri livelli “nocivi alla salute” qui sarebbero un toccasana. Ogni tanto si sente dire che la pianura padana è uno dei luoghi più inquinati al mondo, ma non capisco chi si sia inventato questa panzana. Alcuni amici oggi mi hanno chiesto che effetto fa un inquinamento del genere, ma non so bene come descriverlo. Arrivando direttamente da Lahore la differenza è ampia ma non esagerata, diciamo che non si sente. Anche se sono abituato all’odore dell’aria, camminando per la strada l’istinto mi induce a respirare piano. Non si vede il fumo nell’aria, si chiamano polveri sottili per un motivo.
“Sundeep, io quando scrivo il blog non posso parlare solo di inquinamento e pattume. Qual è la parte migliore di abitare a Delhi?” Quello che lui ama di più è la possibilità di assaggiare tutte le cucine del mondo. Inoltre è comodo perché ogni negozio è a portata di mano, a due passi. Posso confermare che è vero, di sicuro il negozio che c’è, bisogna solo riuscire a trovarlo.
L’ultimo quesito invece riguarda un fatto insolito: in un angolo della stanza c’è appesa una sciabola. Questo è un cimelio risalente a molto tempo fa, quando il secondo emendamento dei sikh era ancora rispettato. Prima che il sikhismo fosse represso dall’impero Mogol, era prerogativa di ogni sikh avere con sé un’arma bianca, portare il turbante e spostarsi a cavallo. Oggi resta solo il turbante, l’orgoglio dei sikh che finalmente possono portarlo secondo il proprio costume.
Anche se in questi giorni è in ferie, Sundeep mantiene lo stesso ciclo di sonno che segue durante la settimana. È scomodo perché di giorno dorme e lavora, perciò fa fatica a mantenere i rapporti con gli amici.

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