Lezione di ieri: Può capitare di assistere a comportamenti sbagliati, se sei fortunato non sono così immorali. Guarda e fanne tesoro.
Venerdì 17/06/2022 Dunagiri (India)
Stamattina piovvigina ancora, Kilari volta gallone e se ne sta a letto, io intanto preparo lo zaino. Finalmente il clima si è rinfrescato, in maniche corte sento addirittura un leggero adorabile freschino.
Arriva il tè e iniziamo a organizzare la partenza. Io partirei per Dehradun anche prima di pranzo, ma non sia mai che un ospite parta a stomaco vuoto, semmai pranziamo in anticipo, facciamo a mezzogiorno.
Niente capre al pascolo anche oggi, forse hanno paura che si prendano un malanno.
Alla doccia mattutina annuncio la mia partenza a definitiva ai miei bhai, ma ci rimangono male e vorrebbero che restassi altri due o tre giorni o anche quattro. D’improvviso, ho un lampo di genio. Dehradun è dalla parte opposta rispett al Nepal, la mia prossima destinazione. Questo significa che dopo aver attraversato le montagne per incontrare l’altro Ashish, amico di Aleot, posso riattraversare le montagne e fermarmi di nuovo a Dunagiri (Dungri). È così irragionevole da essere terribilmente affascinate, che gusto c’è nel percorrere la strada veloce che passa per la pianura?
La compagnia è entusiasta quanto me del nuovo piano, perciò adesso posso partire liberamente. Andiamo a fare colazione, senza bianchetti fritti, ma con roti appena cotto, verdure, yogurt e tè. Passiamo a salutare al bar, ma la nostra vera meta è Adalikhal, perché io non ho ancora ricaricato la SIM. Forse stavolta ce la facciamo, anche se prima bisogna salutare l’elettricista che vuole invitarmi a offrirgli da bere e mi chiede dov’è la sua parte di pesce e tante altre cose incomprensibili perché si esprime più a gesti e dialetto che a parole comprensibili. Mi salva la vecchia arzilla signora del gelato, che questa volta mi serve una tazzina di tè nel proprio negozio. Intanto mi guardo intorno e trovo una strana struttura dorata che pare una filigrana, pendente da uno scaffale. Per gli altri è un volgare nido di vespe, ma qui hanno delle vespe bellissime, c’è poco da fare. Finalmente riesco a ottenere questa benedetta ricarica, che costa ben un euro e mezzo per due settimane.
Torniamo a casa a pranzare e a prendere lo zaino, ringrazio tutti caldamente e aspetto un passaggio davanti al bar. I bianchetti sono spariti, probabilmente la notte piovosa li ha uccisi e saranno finiti in pasto ai cani.
Nel giro di mezz’ora sono su una jeep con Babolou, che ha pochi anni più di me ed è sposato con due figli piccoli, guidare è il suo mestiere e mi domanda cento volte di fermarmi a casa sua, se non stavolta almeno quando ripasserò da queste parti. Non posso fermarmi adesso che sono appena partito, mi porta fino a Jadaukhand e ci salutiamo. È una bella giornata di sole e sono ancora le 13 quando si ferma una macchina rossa fiammante con a bordo padre e figlio, Jae Shankhan e Abhay Shankhan (scrivo un po’ i nomi come capita, Jae si legge giae, Abhay si legge abheî). Sono in viaggio verso la propria casa a Lansdowne, che non è esattamente lungo la mia strada ma almeno fino a Dhumakot mi possono portare. Anche se, anche se… fanno molta molta strada e arrivano parecchio vicino a Rishikesh, la mia tappa intermedia prima di Dehradun. Ma c’è un’altra ragione molto più importante per stare con loro, al di là del fatto che sono molto simpatici a pelle. Abhay vive e lavora da cinque anni a Christchurch, nell’isola del Sud, in Nuova Zelanda! Non ha la cittadinanza perciò tecnicamente non è neozelandese, ma rappresenta quella terra mitologica agli antipodi dell’Italia, quella meta che in principio ha ispirato il viaggio e che la pandemia mi ha costretto a dimenticare. Credevo che fosse solo una vana speranza vederla riaprire in tempo, invece già ad aprile era possibile entrare con un visto lavorativo. Ora ho davanti a me un uomo che l’ha vista con i propri occhi e che ci abita. Da ora potrò raccontare agli ufficiali della frontiera che ho un amico all’interno del paese. Non ci credo, non voglio più scendere. Parliamo molto grazie al suo ottimo inglese, così apprendo che lui ha un anno più di me ed è andato in Nuova Zelanda insieme ad alcuni amici, cambiando stile di vita e abitudini, non c’è nulla di indiano a casa sua, neanche gli accorgimenti intelligenti dell’India. Chiedo a lui anche il perché degli incendi che ho visto in queste notti, che di giorno non lasciano traccia di sé perché interessano solo gli aghi al suolo. Abhay dice che probabilmente i contadini lo fanno per far crescere l’erba nelle pinete. Può avere senso, anche se le pinete qui sono talmente ripide da essere inutilizzabili come pascolo, non so quanto abbia senso in verità. Abhey è un grande appassionato di sport invernali, mentre non ha ancora provato la vela, purtroppo per me. Dice anche che la guida laggiù è molto più ordinata, ma anche più noiosa, comprensibilmente. Nel frattempo superiamo curve su curve e lui, alla maniera indiana, suona ad ogni curva cieca finché non ha visibilità oltre la svolta. Questo vuol dire che per suonare usa direttamente l’avambraccio. Suo padre, non so come, dorme.
Ci fermiamo ad una sorgente alacare la macchina dalla polvere, così lo sfacelo di rifiuti gettati nel corso d’acqua mi fa sorgere una domanda che mi pongo da tempo. Prima di porla però aspetto di aver appreso l’arte segreta di Jae, dormendo fino ad arrivare a metà strada. Mi sveglio soltanto quando gli autisti decidono di fare una sosta e bere una bibita alla frutta. La mia domanda è volta a cercare di capire come vengono percepiti agli occhi di un indiano i rifiuti che si trovano sparsi ovunque. È forse un modo per dare un tocco di colore all’ambiente circostante? Ormai sto cercando di pensarle tutte, come è possibile che non siano disgustati dai rifiuti e che non si organizzino, visto che nel vicinato si conoscono e si parlano più che in Italia? Ebbene secondo Abhay anche gli indiani provano un sano ribrezzo nei confronti del pattume, il problema è che una volta che non è dentro casa non gliene importa niente. Così, come per costruire le abitazioni di Delhi, non si organizzano. Uno decide di costruire una casa lì e la costruisce, senza tanti complimenti. Con i rifiuti è uguale, non importa a nessuno e si spargono senza limiti. Abhay è anche decisamente pessimista sul progresso che stanni facendo le nuove generazioni, che semplicemente portano avanti la tradizione. Non c’è alcuna forma di educazione civica a scuola riguardo a questa materia. Solo i murales per strada che consigliano di raccogliere i rifiuti e tenere pulito. Sì d’accordo, ma dopo dove li metti questi rifiuti che hai raccolto, visto che non c’è un servizio di raccolta dei rifiuti e neanche i cassonetti?
Torniamo a parlare di Nuova Zelanda e di quanto lui si trovi bene laggiù. Nonostante molti amici in Uttarakhand mi abbiano detto che è estremamente difficile per loro ottenere il passaporto, la questione è semplicemente che non si sono informati. Per lui non è stato niente di impossibile, qui non siamo in Iran.
Ormai siamo arrivati a Dugadda costeggiando il meraviglioso confine Nord del parco Jim Corbett, e il mio proposito è di farmi lasciare un po’ più a Nord di Dugadda all’imbocco di una strada che porta direttamente a Rishikesh ed è decisamente poco frequentata e selvaggia. Tuttavia i miei piani cambiano improvvisamente quando il miei autisti decidono di scendere a Kotdwar per andare a fare benzina ad un prezzo più conveniente. A questo punto scendo nella periferia della città e ho già individuato la strada che fa per me. Si inerpica su per una collina, raggiunge un punto panoramico e continua a salire e inoltrarsi nella foresta. Dovrebbero esserci anche un paio di gradi in meno lassù, che fanno la differenza quando a valle ce ne sono quasi quaranta.
Il sole ormai sta calando, ma le curve ormai le ho lasciate dietro di me, domani la strada sarà dritta e pianeggiante. Nei primi cento metri di strada trovo un confortante cartello che avverte che in questa zona di foresta ci possono essere tigri, elefanti e leopardi. Tradotto nella mia lingua significa che di conseguenza non ci saranno indiani in giro, che di notte è ottimo.
Salgo per uno stretto sentiero che taglia i tornanti, finché incontro un camminatore in discesa e le fatidiche domande Come ti chiami-Da dove vieni-Un uomo solo-Dove vai? Ovvio che sono solo, vado al punto panoramico. “Quale punto panoramico?” È qui sopra, tu da dove arrivi?” “Ahh il punto panoramico, okay, buona camminata.” Vigliacco se ce n’è uno che si fa i fattacci suoi, ma ormai sto imparando a scartarli meglio di un centrocampista, senza neanche mentire. Il punto panoramico è occupato da alcuni indiani che guardano un film a computer e io non riesco neanche a fare una telefonata decente con Matte Lasalvia, non so come. Dopo un’ora di sofferenza telefonica concludiamo la chiamata perché il sole è tramontato e io devo trovare un buon albero per la notte. Non mi vede nessuno, così proseguo tagliando i tornanti sempre più su, trovando cacca di elefante e tratti di vegetazione bruciata, per ragioni incomprensibili. Forse si faceva prima rispetto a liberare il sentiero tagliando gli sterpi. Di tanto in tanto trovo anche qualche posticino adatto per un picnic. Mancano solo i commensali e il cibo, perché i piatti disposti in cerchio, le borsine e le bottiglie di bibite e alcol sono esattamente lì dove si trovavano quando gli indiani si sono alzati in piedi per andarsene. Giù dalla scarpata accanto invece c’è la memoria dei pranzi passati, che forma una cascata. Ma tanto non gli importa, perché me la prendo tanto io che non ci devo abitare?
Sono di nuovo in strada e sento dei motori arrivare, bisogna che mi nasconda perché ormai è evidente quello che sto facendo. Imbocco un altro sentiero, al trotto perché lo zaino non mi consente scatti eccessivi. Scendono poco dopo quattro moto, quando ormai sono lontano. Ormai la luce sta calando a vista d’occhio, ma sulla mia sinistra appare un maestoso ficus colonnare che non lascia scampo, bisogna dormirci sopra. Mi avvicino ed esamino rapidamente l’intrico di radici intrecciate che ne ricoprono il tronco possente. In cima al piedistallo verticale, le branche enormi si diramano a raggera o in obliquo, creando una piattaforma ideale per appendere l’amaca con comodità. Non c’è tempo per una scalata di collaudo e non è neanche necessaria. Riprendo lo zaino e salgo afferrando le robuste radici aeree di questo portento arboreo, che hanno costruito una maglia con innumerevoli appigli. Mi impossesso così di una autentica fortezza vegetale, di quelle che si pensa esistano solo nelle illustrazioni dei libri fantasy e nei racconti di avventura.
Mentre monto l’amaca viene buio, servirà anche la zanzariera perché c’è qualche zanzara. È sconvolgente quante poche zanzare ci siano nella famigerata giungla rispetto agli sciami di culicidi assetati di sangue che imperversano nel cortile di casa mia, giorno e notte. Non c’è proprio alcun paragone né nel numero né nella ferocia. Alla luce della torcia accorrono anche le solite specie di scarafaggini volanti, che qui nella foresta hanno il privilegio di non vivere nello sporco come fanno nelle case in città. Grazie al pisolino di oggi posso scrivere un po’ prima di addormentarmi, e anche guardare là sotto ascoltando i suoni della foresta. D’improvviso, a poche centinaia di metri di distanza, mi pare di sentire dei barriti. Non posso saperlo perché non ho mai sentito un elefante indiano barrire, potrebbe anche essere una qualche sorta di scimmia che abbaia. A me però sembrano dei barriti, che si ripetono irregolarmente per molti minuti. Scompaiono allontanandosi da me, chissà cos’erano. Poco più tardi invece sento un leggero scalpiccìo sulle foglie secche, e alla luce della torcia vedo in lontananza un piccolo mammifero che corre via, un istrice o un mustelide o chissà che. Dopo questo restano solo i grilli e il sonno, in cima alla mia fortezza. Avrei dovuto portare la bandiera dei pirati per issarla sulla torre più alta.
Sarebbe stata clamorosamente bella la bandiera dei pirati in cima all’albero.