La casa nella roccia

Lezione di ieri: due tratti di sentiero non consecutivi non sono per forza collegati.
Mercoledì 12/11/2022 7:50 Göreme (Turchia)
Si dorme piuttosto bene qui, è un peccato che domani la temperatura scenda così tanto, ma almeno ho una scusa per andarmene.
La luce radente che entra dalle piccole finestre illumina appena la camera da letto, che si trova a destra dell’ingresso e non riceve la luce diretta. Come i bravi uccellini sanno bene, il bagno si trova fuori dal nido, quindi esco dalla porta stretta. Ieri non l’avevo notato, ma qui fuori è pieno di buchi di topi. Non sento fischiare, ma le tane sotterranee hanno almeno trenta ingressi.
8:30
È ora di accendere il fuoco e preparare da mangiare, perciò bisogna capire per prima cosa dove accendere il fuoco. Sono abbastanza sicuro che i fori di aerazione siano stati pensati anche per aspirare i fumo, perciò con un filo di plastica controllo tutte le finestre, per capire in che verso scorre l’aria. Non c’è molto vento oggi e la corrente d’aria è piuttosto limitata, ma l’aria esce proprio da un buco nell’angolo. Accendo il mio piccolo fuoco lì sotto, su una pietra che qualcuno ha staccato dalla parete. A quanto pare c’era una mensola di roccia accanto all’ingresso, ma era troppo fragile per lasciarla dov’era, quindi qualcuno l’ha spezzata. Mentre si forma la prima brace faccio qualche video di presentazione della casa, che è stata scavata a picconate. Le pareti e il soffitto infatti sono costellati dei segni a cuneo lasciati da almeno due attrezzi diversi. È stato usato un piccone più grosso per sgrezzare la forma delle stanze, poi con un secondo piccone più fine sono state rifinite le forme, con migliaia di piccoli colpi. Non è frequente vedere tutte queste nicchie che circondano la stanza, immagino che servissero per illuminare l’interno, infatti se ne trovano quattro o cinque in ogni casa. Tuttavia qui ce ne sono a decine tutte nella stessa stanza, quindi chissà che funzione aveva questo posto. Inoltre, come facevano a stare al caldo nei mesi invernali, dato che quella porta fa entrare l’aria fredda? Guardando meglio mi sembra di vedere la risposta, ci sono due vecchi chiodi piantati nella roccia proprio sopra gli angoli dell’ingresso. Sono due chiodi di ferro battuto, di quelli a sezione rettangolare, che probabilmente sostenevano un drappo di cuoio come quello che chiude l’ingresso delle moschee. Una porta di legno sarebbe troppo pesante, non si possono piantare dei cardini nell’arenaria e sperare che resistano per più di un anno. L’ultima particolarità è una conca circolare scavata nel pavimento di quella che io chiamo la cucina, l’ambiente più vicino all’esterno. Serviva a raccogliere qualcosa o magari ci si incastrava dentro la base di un grosso vaso. Non lo saprò mai, ma passare un giorno in un’abitazione costruita secoli fa è affascinante, soprattutto per capire come si vivesse qui dentro.
11:20
L’aria sta diventando irrespirabile qui in alto, la fiamma si è spenta e il fumo non esce dalla finestra come avevo sperato. Meglio riaccendere la fiamma. Ora che il fuoco è ben avviato inizio a cuocere le bacche di biancospino come per fare una marmellata. Visto che sono piuttosto dure le copro d’acqua, aspettando che si ammorbidiscano. Sarà una cottura lunga, ma di legna ne ho portata in abbondanza e nel frattempo posso scrivere un bel po’.
12:40
Badare al piccolo fuoco è troppo rilassante per distogliere l’attenzione e concentrarsi sulla scrittura, però almeno il biancospino è pronto. Cercando di rompere le bacche per amalgamare la polpa ho rotto il cucchiaio di legno, stavolta non basterà un colpo di lima per ripararlo. La sua funzione però la fa ancora, non è così grave. Il biancospino è dolcissimo, non avrei dovuto aggiungere il miele, inoltre ce n’è una quantità enorme ed è pieno di semi.
Dopo un’ora passata a sputacchiare semi di biancospino e a mangiare pane, è il momento di cuocere le lenticchie, magari in una dose più ragionevole di capodanno. Per insaporirle ho tenuto da parte la salamoia delle olive, perché di sale non ne ho e qui non si butta via niente.
Mentre cuociono le lenticchie gira il vento e a tratti soffia il fumo tra me e la parete, direttamente dentro casa. Vorrei tanto sapere dove cucinavano gli inquilini, dubito che nei giorni di pioggia cucinassero all’aperto. Probabilmente quando tutti quanti puzzavano di fumo nessuno ci faceva caso, inoltre il fumo creava un forte incentivo a stare all’aria aperta.
Finite le lenticchie inizia a piovere, con parecchie ore di ritardo rispetto alle previsioni. È ora di spegnere il fuoco e rifare lo zaino per tornare in ostello. Insieme alla pioggia arriva anche il freddo, un’ottima scusa per lasciare questo posto e ritornare in ostello prima di andare sotto zero.
Defenestro la legna avanzata, soffio fuori la cenere e del mio fuoco resta solo un po’ di cenere grigia e una goccia di catrame colata dal fondo della mia pentola. Niente pareti annerite, cumuli di carbone, bottiglie e lattine, ci sono solo le impronte a pallini delle mie suole. Non lo dico per vantarmi, è solo per provare che è possibile pernottare qui senza fare dei danni.
Mentre finisco di riavvolgo il sacco a pelo, finalmente faccio caso a un piccolo semicerchio di pietre accanto alla parete, pieno di treti di papavero, quelle strutture a coppa che contengono i semi. Non sono treti di papavero comune, sono quattro volte più grandi, quasi come se fossero i frutti del papavero da oppio. È strano però, l’oppio si ottiene dal lattice dei frutti verdi, non dai semi. Le canne sottili che ci sono sul pavimento sono steli di papavero e a quanto pare chi è venuto qui ne ha portati con sé a centinaia. Dall’altro lato della stanza c’è un altro semicerchio di pietre uguale, forse sono venuti qui in due. Per terra c’è anche un pezzetto di giornale del 2002, forse è servito per accendere un piccolo fuoco. Non saprei, non sono abbastanza informato sugli usi del papavero da oppio.
È ora di andare, riposiziono tutti i miei averi davanti alla porta e con una manovra da contorsionista esco dal mio nido. Tiro fuori tutto, avvolgo i cartoni nel telo azzurro e mi copro con il poncho impermeabile. Volo via dalla mia piccola casa, dritto verso l’ostello.
Lungo la strada si sono già formati innumerevoli rivoli di sabbia, che proseguono l’incessante erosione di questo posto. C’è addirittura un uomo che con la ruspa sta scavando la strada di terra battuta per deviare un ruscello verso la caditoia più vicina, in modo che non allaghi il cantiere più a valle. Sembra un gioco così divertente che mi fermo sotto la pioggia a guardarlo mentre costruisce un argine per deviare il corso d’acqua.
17:30
All’ostello mi stanno aspettando, sono anche curiosi di sapere dove sono stato ma non so come spiegarlo. Era un posto nascosto in una zona senza nome, posso solo dire che ero in una casa sotterranea. Per prima cosa è meglio che mi faccia una doccia, in modo da riadattarmi a questa vita moderna in cui non si accendono fuochi di legna dentro casa.
Torno a sedermi nel salone al piano di sotto, dove mi aspetta il tè di benvenuto. No, magari dopo, facciamo che prima lavo i vestiti impolverati così entro domani si asciugano. Anzi, prima ancora vado a fare la spesa per la cena, visto che fuori fa freddo.
Finalmente mi siedo accanto a Yusuf e Musat, che stanno giocando a backgammon come ieri. Musat è nato in Russia da genitori turchi quindi conosce il turco e il russo, ma spesso si rivolge a Yusuf in inglese e quest’ultimo gli risponde in turco.
Nel frattempo ceno e di tanto in tanto mi torna in mente la giornata appena trascorsa. È stata un’esperienza talmente surreale che sembra successa una vita fa. Mentre ci ripenso ripasso i numeri in turco perché Yusuf e Musat annunciano i risultati dei dadi ad alta voce. So contare da uno a sei e mi ricordo 7 e 9 perché sono yedi e dokuz, che assomigliano a jedi e Dooku. Mi manca l’otto, ma visto che qui si gioca solo con i dadi non lo imparerò mai.
Ora sì che ho tempo per scrivere, se riesco a smettere di controllare le previsioni meteo e Maps in continuazione, cercando di capire cosa farò dopodomani, quando avrà smesso di nevicare.
Da qui a Yozgat ci sono 150 chilometri e non sono sicuro di riuscire a scendere fino a Çorum, dove la temperatura notturna è più accettabile e posso campeggiare. Non è ancora il momento di pensarci, ho tempo anche domani. Nel frattempo inizio a fare due chiacchiere con Musat, che ha circa la mia età e lavora qui.
Mi chiede se mi piace la Turchia e gli spiego le mie solite considerazioni sulla differenza tra visitare la Turchia e vivere in Turchia. Con l’attuale situazione economica questo paese non è un bel posto in cui vivere. Musat non è dello stesso parere. “Quindi pensi che la Turchia sia un paese povero?” Sono convinto che ci siano paesi molto più poveri di questo, ma visto che i risparmi dei turchi si sono ridotti a niente la Turchia rispetto all’Italia è un paese povero. Nonostante anche noi abbiamo avuto un periodo di inflazione fortissima e il cambio della moneta, mi sembra che siamo messi decisamente meglio. Perlomeno possiamo trasferirci in Turchia e diventare improvvisamente benestanti. I Turchi questo non lo possono fare, perché la lira non vale più niente.
Musat non è d’accordo, in fondo lui qui a Göreme vive bene. Certo, durante l’alta stagione bisogna lavorare sodo, ma il compenso è più che buono e riesce senza problemi a mettere insieme 1200€ in un mese, che in Turchia sono un signor salario. Non è qualificato e i suoi genitori erano così ricchi che sono emigrati in Russia per cercare lavoro. Secondo Musaf con un po’ di accortezza non è difficile ottenere un buono stipendio in questo paese. È un parere interessante, diverso da tutti gli altri sentiti finora. Proprio perché è diverso da tutti gli altri, probabilmente resta solo un parere. Per avere un buono stipendio è sufficiente lavorare in un settore che paga bene come ad esempio il turismo, ma sicuramente non possono lavorare tutti nel turismo.
Torno in camera a finire di scrivere un po’ e nel frattempo porto su un litro d’acqua prelevato dal bollitore, così uso la tanica una terza volta e dopodomani riparto con una scorta d’acqua completa.

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