Il mio amico immaginario

Lezione di ieri: quello che si inizia si finisce, non portare in giro il cibo per niente.
Domenica 02/02/2022 8:35 Aydın (Turchia)
Che bella dormita, ci voleva proprio. Questo posto è bellissimo, un giardino verde pieno di ulivi baciati dal sole, sia su questo versante che su quello di fronte.
Imballo tutti i miei averi e ritorno sulla strada di autobloccanti e poi sulla strada principale che porta a Köşk e poi a Denizli. La stessa via oggi appare molto più amichevole, come sospettavo ieri. Ci sono semplicemente le case dei proprietari degli uliveti. Ne incontro uno che mi chiede da dove vengo e poco più avanti assaggio un mandarino minuscolo preso da una pianta a bordo strada. Buono, è da un po’ che non compro dei mandarini.
Rapidamente arrivo sulla strada principale, in cerca di un passaggio. Si ferma un uomo che va a Köşk, che è sempre meglio di niente. Parla solo turco, ma ci capiamo abbastanza, si chiama Erol. In dieci minuti siamo a destinazione e faccio cambio macchina con Kaam, che sta andando fino ad Antalya, dopo aver passato il capodanno in compagnia di amici a Izmir. Ha 28 anni e fa il programmatore, sta sviluppando la applicazione della Migros, una catena di supermercati. La macchina che guida mi incuriosisce, perché è una Golf con 120 mila chilometri, come la Up che guido a casa. Al momento dell’acquisto questa aveva 10000 chilometri in meno della Up, che è a metano. Anche lui l’ha comprata usata ed è stata costruita nel 2013, come la Up di mia mamma. La Up in Italia è costata 9.500 €, mentre questa Golf in Turchia costa 10.000 €.
Mentre ci raccontiamo come abbiamo trascorso il capodanno e parliamo del disastro economico degli ultimi anni, Kaam mi dice che i caffè costano parecchio, circa un euro. Non ho mai preso un caffè qui, non lo sapevo. “Ah non hai mai preso un caffè un Turchia? Allora rimediamo subito!” Incidentalmente siamo a cento metri da Starbucks, quindi entriamo a prendere un caffè. Varcata la soglia, Kaam mi chiede se ho fame. Beh, in effetti non ho neanche fatto colazione. “Sì, un po’ sì.” “Allora andiamo a mangiare qualcosa, ho fame anch’io.” Cerchiamo un kebab, ma ci sono solo bar e negozi di vestiti.
Dovete sapere che, per teorema noto, ogni strada porta ad un kebab. (Questo teorema lo devo al matematico Forack, che ringrazio) Spiego a Kaam il teorema mentre torniamo a prendere lo zaino, perché se perdiamo di vista la macchina bisogna che lui venga con me. Come previsto dal teorema, c’è un posto che fa da mangiare. Kaam ordina köfte, insalata e patatine fritte. “Da bere che cosa prendiamo” “Ayran!” rispondo io. Kaam sgrana gli occhi e dice che per un attimo ha pensato di essere al tavolo con un suo amico turco. Che ayran sia, per prima cosa arriva la zuppa, solo per me, poi il kofte e la salsa piccante al pomodoro. Anche questa volta la salsa è servita in un piattino d’acciaio che vaga per il tavolo, sospinto dalla tua forchetta con il köfte. Ora però ho già una certa esperienza e capisco la vera funzione del tovagliolo di carta: creare attrito tra il piattino e il tavolo.
Anche Kaam, come Sam, mi consiglia di andare ad Antalya, che è piena di siti archeologici, campeggiatori e clima eccellente anche in inverno. Lo so che è bella, ma aggiunge altri seicento chilometri al viaggio, non è una deviazione da poco. Kaam finisce di mangiare prima di me e va a pagare il conto perché offre lui, non se ne parla neanche di farmi contribuire.
“Ho una domanda difficile: secondo te dove inizia l’Asia?” Senza esitazione, mi risponde che inizia dove c’è il Bosforo.
Ora però bisogna andare anche da Starbucks per il caffè, che ci sta ancora aspettando. Nel bancone di Starbucks c’è pieno di dolci, etichettati come “pasta” perché qui in Turchia si mangiano più torte che spaghetti. Mentre spiego a Kaam che noi con “pasta” indichiamo la pasta, mi trovo interdetto perché in effetti il plurale “paste” indica qualcosa di dolce che con la pasta in senso stretto ha poco a che fare. Resta il fatto che nel resto del mondo pasta è sinonimo di spaghetti e maccheroni, ma evidentemente ai turchi piace essere equivocati. Un altro fatto buffo riguarda il mio caffè espresso. Kaam prende un caffè americano, io chiedo un espresso e la commessa mi chiede se ne voglio uno o due. Uno, ne ho chiesto uno. Quando Kaam lo vede ci rimane male, guarda dentro al bicchiere per controllare se dentro ci sia effettivamente qualcosa. Le mie rassicurazioni non valgono a niente, chiede alla cassiera se è normale che ce ne sia così poco. La cosa buffa è che questo espresso è quasi il doppio di quello che viene servito nei bar in Italia, sembra più un caffè da moka. Meno male che Kaam non è mai stato in Italia, ci rimarrebbe male. Per la cronaca, un espresso qui costa tredici lire.
Usciamo a bere il caffè e per qualche motivo il discorso ricade sulla situazione della Turchia. Kaam dice apertamente che se alle prossime elezioni dovesse scegliere tra Erdoğan e questa macchina qui, voterebbe per la macchina. Non è neanche la sua macchina.
Lungo la via, il mio autista mi chiede se sono fidanzato e se me ne sono già andato da casa nel senso di avere un appartamento in affitto separato dalla mia famiglia. Il mio è un doppio no, e per lui è lo stesso, come molti turchi e molti italiani della sua età vive ancora con la famiglia. Un’ultima domanda per Kaam, quanti dei suoi amici sono credenti. Dice che tra i suoi coetanei la metà sono musulmani e gli altri atei. Da questo punto di vista l’aumento dell’ateismo è ancora una generazione indietro rispetto all’Italia.
15:20
Arriviamo a Denizli facendo una deviazione verso il centro e mi raccomanda di informarlo se vado ad Antalya, che è molto bella e ottima per campeggiare. Finisco le patatine avanzate dal köfte, preparo il nuovo cartello e mi incammino verso Pamukkale, per fare l’autostop dall’altro lato di Denizli.
Dopo dieci minuti mi accosta di fianco un van con a bordo due uomini. “Dove stai andando?” “Vado a Pamukkale.” “Ok, salta su.”
Non sono hanno delle brutte facce e ormai non dovrei stupirmi più di niente. Mi chiedono se sto viaggiando da solo, ma io naturalmente vado a incontrare un amico a Pamukkale. Dalla Fede, mia cugina, ho ricevuto istruzioni molto precise su che cosa rispondere in questo caso. Almeno sanno che c’è qualcuno che si preoccuperà se non arrivo.
I miei autisti si chiamano Uğur (la ğ allunga la prima vocale, Ūur) e Mustafà, 24 e 23 anni, il primo fa il pugile e il secondo invece fa il cuoco. Avevo il cartello infilato tra lo zaino e la schiena, quindi quando mi hanno visto hanno semplicemente immaginato che stessi andando a Pamukkale. Scambiamo due parole su chi sono e dove vado e Uğur pende un tespih, l’analogo musulmano di un rosario, e me lo regala. “Questo è un simbolo da uomini” dice. Il tespih ha 33 grani e ogni turco ne tiene uno in macchina o in tasca, è normalissimo vedere gli uomini intenti a giocherellarci mentre sono seduti al bar. Nel frattempo siamo arrivati davanti ad un luogo surreale, una collina con un versante concavo completamente incrostato di bianco, il cui riverbero è abbagliante. Non riuscivo a capire a cosa fosse dovuta quella macchia bianca che si vede dal satellite e non capisco neanche adesso quale immenso secchio di pittura sia stato rovesciato per produrre un risultato del genere. È già metà pomeriggio, vale la pena di entrare domani, anche perché Uğur e Mustafà mi propongono di fare due chiacchiere al bar costruito alla base del pendio, accanto ad un laghetto con le oche. Ci sediamo a prendere un tè e a fare qualche discorso più complesso grazie a Google traduttore. Riescono ad afferrare qualche parola di inglese tanto quanto io capisco il turco, cioè molto poco. Scopro che sono di origine curda e che le loro famiglie sono fuggite da Mardin vent’anni fa e loro ricordano molto poco di laggiù. I loro nonni invece sono rimasti nel Kurdistan turco, sono già sottoterra. Mi confermano che nella zona tra Erzurum e Muş è pericoloso allontanarsi dalla strada perché la zona è pattugliata dalla polizia turca e dal PKK, che è il partito dei lavoratori curdi, ma la Turchia lo considera un’organizzazione terroristica. “Dovresti portare con te un coltello, è legale in Turchia.” Il consiglio non mi coglie impreparato. “Ne ho due.”
“Dov’è il tuo amico?” Ehm, coff coff, il mio amico è… in ritardo. “Non c’è nessun amico, ma il fatto che vi siate fermati spontaneamente mi ha fatto insospettire.” Si mettono a ridere e Uğur mi passa il telefono, con scritto: “Non hai l’aria di avere molti soldi, comunque.” Molto bene.
18:33
Dopo il secondo tè il sole tramonta e loro decidono di andarsene, così io sono libero di andare a cercare un posto in cui accamparmi. Anzi no, prima chiedo un po’ di cartone al bar perché qui in Turchia bisogna accaparrarselo prima che sparisca.
L’area di Pamukkale è patrimonio dell’umanità, quindi è recintato per disciplinare l’accesso indiscriminato durante le ore in cui non c’è supervisione. Avevo adocchiato sulla mappa un bosco sopra la collina, ma per non aggirare l’enorme recinzione vado in un altro pezzetto di bosco accanto alla macchia bianca. In cima alla piccola collina c’è anche un campo che non sarebbe male per campeggiare, ma trovo pezzi di vetro qua e là e mi trasferisco tra gli alberi, dove il terreno in pendenza non è esente dai rifiuti, ma almeno nessuno ci ha bivaccato.
Accendo un fuoco per riscaldare un po’ i cinque gradi della serata e per continuare ad alleggerire lo zaino. Stasera si mangiano carne in scatola di Mostar e fagioli di Podgorica, accompagnati dal riso del Montenegro. Mentre cucino telefono, tanto nessuno mi sente da questo piccolo avvallamento. I rami dei Pini sono ottimi per fare questo fuoco, fanno molta fiamma e poca brace, quindi posso continuare ad aggiungere legna al mini-fornello che tengo davanti tra le gambe, appoggiato su una pietra.
1:38
Scrivo fino a tardi, ma quando la temperatura scende sotto zero mi decido a entrare in amaca, che forse è ora.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *