Il mare di Halmahera

Lezione di ieri: se in Indonesia c’è troppa ressa, sali.
Giovedì 05/01/2023 Weda (Indonesia)
In questa striscia di ponte tra le cabine e il parapetto siamo leggermente scomodi, ma tutto sommato non è male come letto di Procuste. Sono sopravento a quasi tutti i fumatori, è già un lusso enorme.
Al mattino, mi risveglio direttamente a Patani. Il mare è talmente piatto che non si capisce quale sia l’isola e quale il riflesso. La nave approda seguendo un canale tra i banchi di coralli, fino ad attraccare al piccolo molo di Patani. Lungo tutta la costa prospera ancora la foresta di mangrovie, baluardo difensivo della foresta retrostante. Da qui pare che tutto sia ancora intonso, ma i miei compagni di viaggio mi informano che dietro la cresta c’è una miniera di nichel. Me lo aspettavo, è una vista troppo surreale per estendersi oltre l’orizzonte. Tornando a Halmahera è qui che bisogna dirigersi, sperando che questo angolo di isola non progredisca verso l’autodistruzione.
Stiamo fermi al lungo, così ciascuno ha tempo di comprare da mangiare, raccogliere le energie e fare cinque passi fino al bordo del ponte di coperta, per lavarsi le mani oltre il parapetto. È l’Indonesia, nessuno controlla. Così ciascuno si reca in pellegrinaggio a lavarsi le mani, qui davanti a me. La prassi è molto semplice. Affidi la confezione del pranzo alla gravità, ti lavi le mani con l’acqua minerale, abbandoni anche la bottiglia e torni a sederti. Nonostante la vasta esperienza che ho accumulato, la presenza di un bidone da 200 litri a due metri di distanza mi impedisce di comprendere. Basterebbe accorgersene e allungare il braccino, ma in realtà quello che non è abbastanza lungo sono le sinapsi cerebrali. Non pretendo che diventino furbi subito, ma esigo almeno delle puerili giustificazioni di questa scelleratezza. Arriva un giovane a lavarsi le mani, così io, un istante prima che finisca, gli domando perché agli indonesiani non importi niente della propria casa. Lui e i presenti rimangono interdetti, mentre la bottiglia resta incastrata tra le dita abbastanza a lungo da raggiungere il cestino. Adolf il redento si ferma a chiacchierare con me, mentre il bidone inizia ad essere utilizzato. Qualcuno si è accorto che esiste. Ripartiamo, lasciando i pesci arciere a sguazzare sotto il molo. Adolf abita a Patani, ha i capelli raccolti in treccine, il naso a punta, parecchia barba e sostiene di avere quattordici anni. Avrebbe più senso se ne avesse ventiquattro, ma non ho modo di verificare. Secondo lui l’elisir della barba sono i bagni dell’acqua salata. Mi racconta che in passato ha ospitato un italiano lì a Patani, che è stato lì una settimana a fare snorkeling in ogni singola spiaggia. Non solo, anni fa si è fermata a Patani anche una ragazza norvegese. È rimasta tre mesi e ha imparato addirittura il dialetto locale. Se tornerò da queste parti, sono invitato anch’io a Patani, a casa della famiglia di Adolf. A quanto pare c’è una strada non segnata su Maps, che arriva via terra fino a Patani. A saperlo prima l’avrei percorsa tutta. Il mio nuovo compagno di viaggio è diretto a Sorong, per lavorare come autista in una miniera d’oro. Il salario è buono, considerato che siamo in Indonesia, ma tra un mese sarà già ora di tornare indietro. Le sorprese non finiscono qui, a quanto pare a Patani esiste ancora una barca a vela. Se fosse vero, sarebbe la terza che vedo da un anno a questa parte, considerando che la prima l’ho costruita io. Adolf sa addirittura andare a vela, che da queste parti è una capacità eccezionale.
Continuiamo a chiacchierare, mentre la nave rolla sulle onde, che la investono al traverso. Ora che non siamo più sottovento a Halmahera, siamo esposti alle onde lunghe provenienti da Nord-nordest, oscillazioni di un metro esattamente parallele alla nostra rotta. Si balla parecchio, ma sorprendentemente nessuno vomita, almeno quassù. Si fa caldo, meglio dormire di giorno e stare svegli di notte.
Mi risveglio direttamente alla fermata successiva, mentre ci avviciniamo all’isola di Gebe. Moltissimi passeggeri scendono qui, per lavorare nella miniera di nichel. Scendono quasi tutti, forse per comprare da mangiare o non so, così l’equipaggio approfitta per pulire il porcile che c’è sul ponte. C’è una dozzina di secchi e tre bidoni, ma questo non impedisce di certo di gettare  il pattume sotto il tavolo o fuori dal sacro metro quadro dei teli stesi sul pavimento. Oltre alla plastica, sul punte c’è una tale quantità di cenere da giustificare un’eruzione. Una volta pulito e svuotato dall’umanità che lo occupa, la nave sembra un paradiso, dipinta di verde e arredata con una pletora di piante ornamentali.
L’isola di Gebe è già stata prevalentemente deforestata e scorticata dalla miniera di nichel. Dove l’estrazione si è già conclusa è ricresciuto un sottile strato d’erba. C’è anche un vecchio impianto di processamento del materiale estratto, ma pare in disuso. È probabile che la quantità di inerti sversati in mare abbia ricoperto tutto, ma probabilmente nessuno ci ha mai pensato. Sarei curioso di trovare una foto dell’isola antecedente all’apertura della miniera, per vedere quanto era alta. Ripartiamo verso Gag, un’altra isola mineraria da cui si estrae oro. Nel frattempo mi metto a scrivere, mentre la nave ruzzola ancora sulle onde.
Arriviamo a Gag a notte fonda, attraccando nei pressi di tre grosse chiatte per il trasporto del materiale estratto dalla miniera retrostante. Nel profilo nero della montagna, si muovono le luci dei fari dei camion. A causa del buio e della prospettiva, sembra che stiano scendendo su una pendenza impossibile. Forse stanno solo guidando a rotta di collo.
Avendo dormito in abbondanza durante il giorno, resto sveglio anche sotto le stelle, approfittando di queste ore in cui ho già socializzato con glo indonesiani circostanti.

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