Il gran finale

Mercoledì 16/08/2023 Mare delle Fiji (Fiji)
Nel pomeriggio il vento si riprende, fino a venti nodi, soffia ancora da Sudest e porta pesanti nuvole grigie. Le onde sono aumentate, quelle più alte seguono il vento e si distingue un secondo treno di onde provenienti da Sudovest. Tutto l’equipaggio è radunato in pozzetto, a tratti ciascuno scruta l’orizzonte in attesa del momento più iconico delle traversate oceaniche. Mancano ancora cinquanta miglia da Kadavu (che si legge Kandavu), l’isola più vicina a noi.
Un’ora più tardi, mentre scandaglio l’orizzonte grigio a dritta di prua, ecco una nuvola grigia appoggiata sull’orizzonte. È scura, piatta da un lato e tonda dall’altro, come i cumulonembi carichi di pioggia. Solo che è proprio appoggiata sull’orizzonte, è Kadavu! Mi guardo attorno, sono tutti distratti. Prendo il binocolo per controllare meglio. Eh sì, è terra quella. Salgo sulla poppa, appeso allo strallo, con la mano sulla fronte per ripararmi dal sole coperto. Ricordiamoci che qui a bordo sono quasi tutti francesi.

“Terreee!”

Che soddisfazione, ah che soddisfazione. Guardando molto attentamente, si scorge anche la luce intermittente proveniente dalla punta Ovest di Kadavu.
Mentre cala la sera, le nuvole pesanti diventano pian piano nere come è nero l’oceano. La luce di Kadavu è scomparsa, inghiottita dalle nubi. Si vede solo la schiuma a prua, verde a dritta e rossa a sinistra, grazie alle luci di navigazione. Abbiamo ridotto la tela per la notte, due mani di terzaroli sulla randa e un triangolino di genoa, che per il resto è arrotolato sullo strallo.
Accendiamo il motore per ricaricare le batterie, mentre fuori il mare si è ingrossato e le raffiche toccano i venticinque nodi. È proprio durante una di queste raffiche che lo schermo del pilota automatico lampeggia di rosso e poi si disattiva. Mario deve essersi disabilitato come la settimana scorsa, penso io, ci deve essere un sistema di protezione. Il capitano si cala sotto il pozzetto a controllare che diavolo è successo. Riemerge un attimo dopo, spiegando “Il pilota automatico non funziona, da adesso in poi riprendiamo a manovrare a mano.” È così che, nel buio della notte, mi illumini ed esplodo in un trionfante “oh Yes!”
La mia gretta ignoranza non passa certo inosservata, e pochi minuti dopo mi trovo lo sguardo del capitano puntato addosso. “Quello che hai detto poco fa non è affatto tollerato, siamo in una situazione di emergenza e il pilota automatico è appena stato divelto dalla sua base. Non c’è niente, proprio niente di cui essere contenti.” Improvvisamente capisco, e non è affatto semplice presentare le mie scuse per un comportamento così stupido. Non posso neanche spiegare che immaginavo che si fosse solo disattivato come quella volta che è successo una settimana fa, perché non è questo il punto. Sono una bestia e nulla più, posso solo scusarmi e ringraziare per avermi avvisato subito della mia bestialità.
Ora saliamo in pozzetto a spiegare a tutti che cosa è successo là sotto. Praticamente il pilota automatico non ha alcun sistema di protezione qualchessia. Continua a spingere e a tirare in qualsiasi condizione, finché la pressione del timone manda in frantumi base di legno su cui è imbullonato. Comunque questo Mario non mi stava tanto simpatico.
Dalle sei alle nove abbiamo mare mosso e diciotto nodi di vento. Per fortuna che siamo coperti dall’isola di Kadavu, che si trova da qualche parte a dritta. Balliamo sulle onde già da ore e Magali è piegata fuori dalla battagliola a vomitare, con Raph che la regge tenendola per il giubbotto. Non si vede a un palmo dal naso e a tratti piove sul povero Raphaël, che regge il timone da dentro alla propria giacca fradicia. Meglio coprirsi con la cerata impermeabile, come quando abbiamo lasciato Aotearoa.
Mentre Lord Asparagus e io iniziamo il turno di guardia, un lampo rischiara la notte. Sono quasi sicuro di aver visto la gobba grigia di Kadavu, ora è molto più vicina, a ore tre. Poco più tardi, un altro lampo. Il nostro albero è in lega di alluminio, siamo un parafulmine di venti metri sulla superficie piatta del mare. Se ci colpisce un fulmine, tutta l’elettronica di bordo è fritta. Il capitano annuncia che da adesso in poi segneremo la posizione ogni tre ore anche sulla carta, così da mantenere un riferimento se perderemo la posizione GPS.
La pioggia si intensifica, così come i lampi. Sono alti sopra di noi e ora sono piuttosto frequenti. Abbiamo il motore acceso per aiutarci a procedere senza esporre troppa tela, intanto Charlotte ha deciso di mandare al diavolo anche il porto di Suva e di deviare verso Ovest, magari a Lautoka. Cacciarsi nel canale tra Kadavu e Viti Levu sarebbe pericoloso, andando alla deriva finiremmo in frantumi una qualche barriera corallina. La barca è molto solida, ma dopotutto non è fatta di gomma.
Mentre procediamo al traverso e la pioggia scrosciante inizia a penetrare la giacca impermeabile, ecco che suona l’allarme di prossimità. Il sistema AIS rileva un’imbarcazione proveniente da Viti Levu, che si muove a diciassette modi di velocità e dirige dritto verso di noi. Charlotte cerca di contattare la barca sulla radio, più e più volte, ma nessuno risponde. Mastro Ernests e io, in pozzetto, ci guardiamo intorno e tendiamo le orecchie in cerca di segnali. Aspettiamo i lampi per cercare di distinguere una silhouette, ma c’è solo una cortina impenetrabile di pioggia. L’altra barca si trova ormai a poche miglia da noi e non risponde. L’equipaggio analizza la situazione: è notte fonda, c’è buio pesto e piove a dirotto con tuoni e fulmini. Bene, c’è una barca che corre dritto verso di noi, che siamo persi nel mezzo del nulla, è a poche miglia ma non risponde alla radio. Nella penombra del pozzetto, Ernests e io ci guardiamo negli occhi, folgorati dallo stesso pensiero: “Pirati!” In questo inferno nessuno li vedrà mai, nessuno saprà mai che cosa sia successo al veliero di nome Valiant. Chi altro uscirebbe in mare se non i pirati o il diavolo in persona?
Se sono i Fratelli della Costa siamo fortunati, noteranno che abbiamo il jolly roger issato a dritta. Se sono tagliagole fijiani siamo fregati. Continuando a timonare, fissiamo il buio in attesa di un lampo che rischiari i dintorni, in cerca di imbarcazioni in avvicinamento. Non si vede niente di niente, solo pioggia bianca, nuvole bianche e mare bianco. Forse siamo anche un po’ accecati dai lampi continui. Il capitano teme che il centro della tempesta si stia avvicinando, così noi due iniziamo a calcolare la distanza di ogni lampo. “Tu quanti secondi hai contato?”
“Quindici”
“Ah, io otto. Facciamo dodici, dodici secondi sono quattro chilometri.”
Il motore fa un rumore tremendo, spesso non sentiamo neanche il tuono, comunque sono tutti ad almeno tre chilometri di distanza, anche se sembrano sopra di noi. Charlotte sembra vagamente confortata dalle nostre stime inattendibili e lancia il pan pan sul canale radio per le emergenze. Il pan pan è un modo per segnalare che si è in difficoltà a chi è nelle vicinanze, così chi lo sente lo può ripetere e sperare che raggiunga un’altra barca o un centro di soccorso.
Dopo molti tentativi andati a vuoto, la radio gracchia qualcosa in inglese. È la barca di prima, quella che veniva verso di noi. In realtà è una nave mercantile, si chiama B Trader e il capitano si offre di deviare dalla rotta e accoglierci a bordo. “Grazie dell’offerta, ma non intendo abbandonare la nave”, ribatte Charlotte. Io non sento quasi niente con il vento e la pioggia scrosciante, ma Ernests ha l’orecchio teso per riferirmi cosa succede sottocoperta. Il capitano della B Trader ripeterà il pan pan, sicuramente la loro radio è più potente della nostra.
Abbiamo ancora davanti un’ora e stiamo perdendo la copertura dell’isola Kadavu, si capisce perché il vento sta aumentando e anche le onde. Noi restiamo di guardia sotto l’acqua senza battere ciglio, con la schiena ormai fradicia. Tra il rumore del motore e dei tuoni, sto dando fondo al meglio del repertorio piratesco: “L’ultimo goccio di rum”, “Il bucaniere”, “Quindici uomini”, “Barrett’s privateers” eccetera eccetera. Ora che scrivo, è passato ormai un mese e mastro Ernests si ricorda ancora quella notte passata a fischiare e a cantare a pieni polmoni, bagnati di mare e di pioggia.
A mezzanotte e mezza siamo ancora qua, in compagnia di Raphaël che è uscito a vedere in che malabolgia siamo capitati. “Diamine! State bene?”, esclama, vedendo quanto è peggiorata la situazione rispetto a tre ore fa.
Interrompo la musica quando Charlotte sale in pozzetto per aggiornarci sulla situazione. Nessuno risponde alla radio, dobbiamo cavarcela da soli e la soluzione migliore è mettersi in cappa e aspettare l’alba. Mettersi in cappa significa aprire le vele dal lato sbagliato, in modo da smettere di avanzare e andare semplicemente alla deriva. Sottovento alla nostra posizione c’è solo oceano, quindi è la scelta più sicura. “Dobbiamo solo ammainare la randa in fretta”, aggiunge, “ho la sensazione che abbiamo poco tempo prima che il vento aumenti.”
È comodo essere in quattro ad ammainare la randa. Seguo il capitano sul ponte a lascare la drizza e legare la vela, mentre Raph timona ed Ernest manovra la scotta dal pozzetto. Charlotte fa tutto il resto. È questione di pochi minuti, poi torniamo al coperto più bagnati di prima. Il vento sta già aumentando sensibilmente, come previsto. Blocchiamo il timone in posizione con alcune cime libere e ci rifugiamo sottocoperta, nel bunker. Da qua sotto sembra davvero che fuori sia tutto tranquillo, non si sente proprio niente. Per fortuna Charlotte ha già messo in sicurezza la maggior parte della barca perché appena perdiamo l’abbrivio, Valiant inizia a dondolare selvaggiamente sulle onde, qualsiasi oggetto non riposto vola e rimbalza da una parte all’altra. Grazie al cielo il mortaio di pietra è stato messo al sicuro. Siamo proprio nel bel mezzo del braccio di mare tra Kadavu e Viti Levu, dove il vento si incanala e soffia con raffiche oltre i 30 nodi. Se non avessimo ammainato la randa in tempo, a quest’ora l’albero sarebbe sdraiato sull’acqua. Resta aperto solo un fazzolettino di genoa a prua, giusto per stare in cappa.
È l’una di notte, tutto quello che possiamo fare è aspettare che passi, controllando che andiamo alla deriva nella direzione giusta e che la sentina non vada di sopra. Ne approfittiamo per infilare dei vestiti asciutti e sdraiarci in cuccetta a riposare.
Tum! Frrrrrrrrum! Ci svegliamo tutti di soprassalto, tranne Charlotte che sicuramente non dormiva. Abbiamo grattato contro uno scoglio? Siamo lontani da tutto, forse era un tronco. Voliamo in pozzetto, e le torce illuminano il genoa, completamente aperto e gonfiato al contrario. A quanto pare si è strappata la cima da otto millimetri dell’avvolgifiocco, e con la pressione del vento il genoa si è gonfiato in un battibaleno. Per fortuna la tempesta è passata e il vento soffia a solo venti nodi. Charlotte non perde un istante, striscia sui gomiti fino a prua e rimette insieme la cima strappata con un “grosso grasso nodo”, così lo definisce. Prima ancora di sapere che nodo ha fatto, è già di ritorno in pozzetto per coordinare le manovre. Avvolgiamo a tutta potenza il grande genoa, lasciandone aperto metà per riuscire a ripartire.
Sono quasi le sei di mattina, nonostante la cappa di nuvole, si distingue già l’orizzonte. Vengo piazzato al timone, di turno con Ernest, laschiamo un po’ il genoa e partiamo al lasco verso Nordovest. Il mare è decisamente più grosso di ieri sera e il vento non demorde. Restano ancora i due treni di onde incrociati che avevamo ieri, perciò di tanto in tanto arrivano al giardinetto tre grosse creste che fanno inclinare e partire in straorza la barca. Succede solo la prima volta, poi tengo d’occhio le onde e le anticipo, quasi tutte. Adesso sì che mi diverto, cercando di leggere le onde e capire il ritmo di quelle più alte. Charlotte ancora si rammarica di avermi lasciato a imparare a timonare quella notte là, perché da allora la perdita è peggiorata drasticamente. Tuttavia, sono sicuro che timonare stamattina sarebbe stato un disastro, senza quell’esperienza. Invece adesso filiamo via tranquillamente, mentre il capitano cerca di organizzare il nostro arrivo.
All’alba, ancora non vediamo Viti Levu, situata trenta miglia a Nordest. Mentre giriamo lentamente intorno a Viti Levu, le onde e il vento si calmano perché siamo sottovento all’isola. Sopra di noi c’è uno strato uniforme di nuvole basse, grigie come ieri. L’unica anomalia sono dei buchi illuminati dai raggi del sole, dove il vapore acqueo ha delle forme a cerchi. Cerchi o spirali? Sono spirali, sono vortici. Ho già visto quei vortici in un libro di meteorologia, il nome mi sfugge, ma so che cosa sono. Sono vortici provocati dalla scia di turbolenza sottovento alla cima di Kadavu. Quando il vento collide con un oggetto isolato e puntiforme, come una montagna, il flusso d’aria si divide in due. Così sottovento alla montagna si crea una depressione, che richiama aria dai lati. Il flusso che si è appena diviso non si può semplicemente riappiccicare come se niente fosse, e l’aria che riempie la depressione crea un vortice. Il vento circostante trascina via il vortice e crea di nuovo una depressione, che viene riempita nuovamente di aria. Per esempio, se il primo vortice proviene da sinistra della montagna, il secondo verrà riempito da destra, il terzo di nuovo da sinistra e così via, in direzioni alterne. Il fenomeno è noto come vortici di Von Karman e deve essere proprio quello che sto vedendo. Ci sono almeno sette buchi nella coltre di nuvole, illuminati di giallo rosato e disposti a zig zag, su due file. Non vediamo Kadavu, ma adesso sappiamo dov’è. Parecchie miglia più avanti vedo già un’altra serie di vortici, probabilmente causati dalla cima di Viti Levu. Non riesco a spiegare quello che vedo a parole, né a Lord Asparagus né al capitano, bisogna vedere una foto satellitare di questo fenomeno incredibile per capire che aspetto ha. È un vero spettacolo.
Verso le undici sono ancora al timone, così Raph mi dà il cambio. Ieri sera ha sofferto abbastanza il dondolio, per non parlare di Magali che è ancora in cuccetta.

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