Il complesso mondo delle caste

Aggiunta a ieri sera: “Questo è Il Cibo, perciò quando è ora di mangiare è questo che si mangia, come conferma anche Mingmar. Dice che questa notte posso dormire di sopra, gratis, e per i due piattoni di riso bastano trecento rupie. Costano tanto perché qui comunque i generi alimentari sono costosi, nonostante arrivino in camion invece che portati a spalla. Appena ho finito di mangiare, il peperoncino sta già facendo effetto. È una reazione piuttosto fastidiosa e involontaria, che condivido con mio padre. Quando mangiamo piccante, bisogna che ci soffiamo il naso, pare inevitabile. No, non mangiamo col naso, ma evidentemente i fumi del peperoncino sfiatano da lassù. Sono sufficientemente lontano dall’Azerbaijan e forse è accettabile soffiarsi il naso in pubblico, provo. Quell seduto al tavolo accanto alza gli occhi dal piatto, trapassandomi e sbotta: “Amico, è disgustoso! Sto mangiando!” Dannazione. Niente, immaginavo che fosse una norma legata ai paesi musulmani, ma più probabilmente è valida in tutta l’Asia. Meglio tirare su col naso che fare pernacchie moccolose, posso capire. Quello che non capisco invece accade poco dopo, quando la moglie di Mingmar gira l’angolo della sala per andare a lavarsi i denti. Nonostante la lunga permanenza nel subcontinente, non sono ancora del tutto abituato alle scatarrate di chi si lava i denti. In realtà non si lavano solo i denti, ma tutta la cavità orale dalla laringe in su. Mi metto il cuore in pace spiegando il disagio degli europei al vicino di tavolo, così almeno facciamo una risata e siamo pari.
Continuo a scrivere fino a tardi sulla panca della sala, mentre la power bank finisce di ricaricarsi. Quando andiamo a letto nel piano di sopra, fuori sta piovendo e io scrivo ancora, tanto il mio compagno di stanza russa bene anche con la luce accesa. Nonostante le mie buone intenzioni, ben presto mi addormento anche io.”

Lezione di ieri: in Asia è consentito tirare su col naso, tanto quanto è vietato soffiarselo in pubblico.
Sabato 23/07/2022 Salleri (Nepal)
Durante la notte è risultato abbastanza chiaro che non ho digerito qualcosa. Fa lo stesso, è il caso di mangiare sei uova, perché ho comunque fame. Delle cinque uova sopravvissute alla cottura una va all’Asia, una all’Elena, una a Vitto, una a me e l’uovo extra va alla Sofia, che di tanto in tanto partecipa con grande entusiasmo alle cene Ciuciado. Vitto stravice malgrado i nostri sforzi congiunti, forse grazie alla sua forma appuntita. In questo modo si aggiudica l’accesso alla finale!
Dopo le uova, beh, forse è il caso di prepararmi per uscire, non ho idea di quanto ci possa volere per scendere a valle. All’andata avevo fretta, ma ora posso tornare al consueto autostop. Quello che mi serve prima di tornare a valle è un chilo di farina tostata, che mi permetta di finire l’olio di girasole avanzato. Non mi semba il caso di comprarla da Mingmar che a sua volta la acquista altrove, perciò inizio a chiedere in giro se è disponibile lo zamba puris, così lo chiamava Zomba. C’è qualcosa che non va però, nessuno capisce di che cosa ho bisogno, neanche specificando che si tratta di farina di grano cotta. Eppure Mingmar mi ha detto che esiste in commercio, quassù. Torno indietro alla locanda di prima, per chiedere spiegazioni. La ragione dell’equivoco va ben oltre la mia fantasia. Nessuno mi capisce perché nessuno parla lo sherpa quaggiù a Salleri, caste diverse parlano lingue diverse. In che senso caste? Possiamo chiamarle caste oppure gruppi etnici o stirpi, per capire meglio il concetto. Ad esempio Mingmar è un tamang originario di Namche: parla tamang, nepali e inglese. Anche sua moglie è nata a Namche, ma appartiene alla casta Magar e Mingmar non parla la sua lingua.
“Aspetta un attimo Mingmar, mi stai dicendo che la popolazione di Namche è divisa in due sottogruppi, i quali non si capiscono l’un l’altro, se non tramite il nepalese?” “Sostanzialmente sì”, rispode lui, “a Namche i bilingui sono rari, così come altrove”. Non ci posso credere. La parte migliore è che a Namche non vivono solo due caste, infatti Migmar me ne elenca almeno una mezza dozzina. Qui a Salleri ci sono anche parecchi uomini della casta Rai. Così, mentre gli sherpa mangiano zamba puris, i Tamang preferiscono il pitu e i Rai il sattu, ma si tratta sempre della stessa farina tostata. Infatti un di quelli che ho interpellato ha capito che cercavo il sattu, ma purtroppo non mi sono potuto congratulare per la sua perspicacia. È il caso di lasciar perdere i negozi e acquistare la merce direttamente qui. Mingmar confeziona una quantità di farina sufficiente a riempire la mia gavetta, mentre io intanto faccio la seconda colazione con sattu, olio di girasole e zucchero.
Riposato e nutrito, all’alba del mezzogiorno parto alla ventura, in attesa di un passaggio. Niente camion, pochi tuktuk strapieni di passeggeri e pacchi, dicerse moto. Le poche jeep che passano mi ignorano perché non ho la faccia di un passeggero che intende pagare. Giunto alla fine della discesa mi fermo ad attendere all’ombra di un abete, seduto sull’asfalto. Mentre aspetto invio, a chi sa apprezzarle, le foto di una cicala che ho raccolto poco fa a bordo strada. Ha le ali nere nervate di verde brillante, quasi fosforescente, disegnate con la minuzia di un arabesco e con la precisione di un manoscritto giapponese. Sembra un eccesso di zelo di madre natura, ma in realtà avere delle ali degne di una pinacoteca è il modo migliore per mimetizzarsi in queste montagne, che sono un’opera d’arte.
L’attesa paziente viene premiata da un fuoristrada carico di pannelli di compensato, che per qualche motivo tornano verso valle. Accanto a me c’è Phrakas, un uomo di mezza età magro e tutto nervi, con addosso un giubbotto catarifrangente arancione. Ci scambiamo i soliti convenevoli e poi mi propone di cambiare il mio orologio con il suo, che sicuramente non è costato molto ma ha un enorme quadrante di vetro, ancora senza un graffio. Rifiuto l’affare, anche perché questo Casio ha una comprovata resistenza ai maltrattamenti e alle intemperie, nonostante i suoi dodici anni.
Il percorso è breve e accidentato, ma sufficiente ad arrivare di nuovo all’asfalto. Ci fermiamo davanti ad una casa, che è ottima per un pit-stop in bagno e per socializzare con l’autista del fuoristrada parcheggiato lì davanti. Questi si chiama Kul Bahadut e mi propone di portarmi in un posto migliore per cercare un passaggio. Qui mi sembra buono, ma lui insiste e mi porta alla fermata dell’autobus, subito dietro un tornante. È un posto ottimo per essere invisibili agli autisti, grazie Kul! Faccio per tornare indietro, ma questo insiste e forse non ha neanche capito che cosa sia l’autostop. Dopotutto è un concetto che esula dal vocabolario nepalese. Perdo la pazienza e lo saluto con poco garbo. Mentre sto ritornando al mio appostamento di prima, arriva un camion!
Ram Gazi non ci pensa due volte e si ferma per farmi montare a bordo, perché è diretto a valle fino a Okhaldunga. Il camion trasportava inerti a Salleri e ora è scarico, perciò si arrampica facilmente su per la montagna, mentre l’aria diventa sensibilmente più fredda, sette gradi in meno. Ram Gazi ha 27 anni e guida con prudenza, affronta i tornanti in scioltezza e fa mulinare il volante come se fosse il timone di una nave. Non c’è un solo tratto dritto su questa strada. Ram sembra esperto come se sul camion ci fosse nato, ma in realtà lo guida solo da tre anni. È molto simpatico e parla anche un po’ di inglese, così mescoliamo inglese e nepali. Ci lanciamo nella discesa, schivando le buche e sobbalzando sui tratti in cui i ruscelli hanno divorato l’asfalto. L’abitacolo è cortissimo ed è solo grazie al cartone che riesco a non sbriciolarmi le rotule contro il cruscotto. In diversi punti il terreno a valle della strada è franato, perciò gli operai stanno ricostruendo il fianco della montagna con quelle gabbie d’acciaio cubiche che si riempiono di pietre. Sulle nostre colline bastano due o tre strati di gabbie per mettere in sicurezza la zona. Qui la pendenza è tale che per trovare un punto d’appoggio solido bisogna sbancare mezza montagna e ricostruire decine di metri verticali. In una curva mi pare di contare ventuno livelli di gabbie. È come una piramide, costruita a rovescio. Faccio il conto alla rovescia dei tornanti, giù giù fino a Okhaldunga, finalmente. Approfitto del bagno del locale di tre settimane fa, che forse non è pensato per gli avventori. C’è un odore di ammoniaca notevole, ma in fondo non ci devo venire ad abitare, apprezzo la cortesia e basta. È tenuto così bene che la lamiera arrugginita della porta è ancora attaccata ai cardini, di che cosa mi posso lamentare?
A lunghi passi, arrivo in fondo al paese e mi fermo ad aspettare un mezzo. Dal bar lì vicino, tre ragazzi mi invitano a sedermi su un panchetto, per fare due chiacchiere. Sumit, il più grande dei tre, mi porta subito una tazza di tè nepalese, come benvenuto. Anche lui capisce abbastanza inglese e ci teniamo compagnia nell’attesa dei clienti e di un camion. Sumit ha sedici anni e quando non è occupato nel piccolo bar viene a fare due chiacchiere. Io ho ancora fame e quasi quasi comprerei un po’ di quelle patatine che stanno mangiando tutti quelli che passano in moto con i figli. Li comprerei, se non fosse che prendendo in mano la striscia di sacchetti appesa all’ingresso, mi accorgo che i sacchetti sono vuoti. Cioè, non sono proprio vuoti, sono pieni di aria e sul fondo ci sono ben trenta grammi di patatine fritte. Il peso dell’imballaggio e del contenuto sono paragonabili, pertanto la mia deontologia professionale mi vieta di comprarli. In Italia sarebbe inconcepibile, ma è facile comprendere la strategia di vendita. Confezioni vuote per tasche vuote.
La compagnia è buona, ma l’attesa è vana e si sta facendo buio. Ho già incontrato parecchi nepalesi, ma nessuno mi ha invitato a casa. In compenso mi hanno dato consigli su dove andare a campeggiare. Consigli che prontamente non seguirò perché il cortile di una scuola chiusa non è quello che intendo io con “buon posto per campeggiare”. La collina qui dietro mi pare molto più isolata e a prova di intrusi, così seguo la cresta fin dove il luogo mi sembra sufficientemente isolato. La regola d’oro dice che “Quando ti sembra di essere abbastanza lontano, continua per altri cinque minuti.” La passeggiata pubblica in cemento diventa un prato con i resti di una bivaccata. Scendo di lato e appendo l’amaca con l’ultima luce fioca del tramonto, magnifico. Da qui la vista spazia su tutta la valle e sul versante di fronte c’è una striscia di lucine e di case. Per stasera è prevista la videochiamata mensile da casa, ma mi addormento molto prima e fine.

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