Hector, il prigioniero di Sofia

Lezione di ieri: una bella passeggiata riscaldante cambia la serata da così a così.
Giovedì 9/12/2021 5:54 Psacha (Macedonia del Nord)
Deve essere successo qualcosa nell’ultima ora, perché ho avuto i piedi caldi fino a poco fa, ma adesso mi sono congelato le dita toccando il sacco a pelo. Mi sfilo un paio di calzettoni così da riuscire a scaldare i piedi con le mani mentre aspetto che sorga il sole tra un’ora e mezza.
7:40
Sta sorgendo, si vede dal colore rosso delle nuvole. È un’alba bellissima, bisogna assolutamente fotografarla, ma da qui non si vede niente con tutti questi alberi. Mi infilo le scarpe e corro verso la strada, aiutandomi con il bastone perché non sento troppo bene le piante dei piedi, va a finire che do una storta.
Fuori da questa macchia di bosco, l’erba è completamente bianca di brina, forse perché qui c’è stato un po’ di vento che ha depositato l’umidità a contatto con il terreno freddo.
Un attimo dopo sono in strada, correndo sul marciapiede verso la fermata dell’autobus. I pochi abitanti già svegli vedono un pazzo che corre con il berretto calato sulle sopracciglia e lo scaldacollo tirato su sopra il naso, che arriva alla fermata dell’autobus, fa due foto e poi corre via nella direzione da cui è venuto.
La notte ha portato consiglio, mi è tornato in mente dove ho messo il termometro, è in una taschina che non apro da qualche giorno. Lo tiro fuori e segna -7°C. Oppala, ecco perché sento un leggero freschino.
Preparo in fretta lo zaino e parto verso Kriva Palanka, camminando almeno fino a quando non sono di nuovo ben caldo.
Mezz’ora dopo sono pronto per fermarmi e darmi un’aggiustatina ai capelli, che in questo momento sono solo un groviglio confuso. Il cappello li ha spiaccicati tutti, sono dritti e lisci come quando avevo dieci anni. In più l’aria è secca e non c’è alcuna speranza che si arriccino. Sganasciandomi dalle risate dopo undici anni mi pettino di nuovo con la riga a sinistra, come facevo una volta. È una fortuna aver avuto i capelli lisci, sono già abituato a vedermi così. È bellissimo tornare liscio per un giorno, nessuno sospetterà il mio vero aspetto perché sono proprio dritti dritti.
Passano poche macchine qui, ma nel giro di poco si fermano Noško, Duško e Mome, tre uomini sui sessant’anni che sembrano sbucati dal film “Amici miei”.
Data l’età, parlano solo macedone, ma in qualche modo riusciamo a capirci. Vanno a Kriva Palanka, finalmente riesco a raggiungere la città proibita. Arriviamo in centro e mi invitano a prendere un caffè nel bar di fronte. Duško lascia da parte per me il cioccolatino che ci danno insieme al caffè. Fanno un po’ di chiacchiere tra di loro e poi mi indicano un punto ottimale per proseguire verso Sofia, qllq fine del paese.
Ci salutiamo e mi incammino verso Est. Sono ancora vestito per la notte, quindi faccio una sosta in piazza a levarmi la maglia termica e a cambiare la maglietta. Dopo aver dato spettacolo anche a Kriva Palanka, me ne vado definitivamente dal paese.
No, bugia, dopo trenta passi incontro di nuovo Duško, che mi invita dentro ad un bar ristorante. Mi siedo al tavolino e lui ordina un altro caffè e un bicchierino di rakia a testa. Veramente buona anche questa grappa, stavolta è fatta con l’uva.
Nel frattempo chiacchieriamo e Duško mi spiega un po’ di cose di cui ne capisco la metà. Lui ha lavorato come posatore di piastrelle e ha tre figli, un maschio e due femmine. Quando mi chiede cosa penso della Macedonia gli rispondo che è molto, molto bella. “No, non è bella, l’economia è una schifezza.” “Okay, d’accordo, intendevo dire che è bella da vedere, da visitare. Lo so che il denaro è un grosso problema qui.”
Arrivano altri due avventori e nel frattempo Duško decide di farmi assaggiare qualcosa di tipico, perciò ordina una zuppa di trippa per me e un altro giro di rakia per entrambi. Sarà che ho fame, sarà che normalmente mangio panini, ma la zuppa è proprio buonissima, si sente che nutre.
Mentre mangio, Duško spiega ai nuovi arrivati ci sono e da dove vengo, aggiungendo che io ieri sono stato in un posto che lui stesso non ha mai visitato. Gli consiglio vivamente di andarci, ma magari in estate.
Dopo un paio d’ore dal nostro primo incontro lo saluto perché devo proprio andare, perché Sofia è ancora molto lontana. Uscendo dal locale non posso trattenermi dal ridere pensando a quanto sembra surreale il dialogo che si è svolto finora. Lui ha parlato solo macedone e io solo italiano o inglese, il resto lo hanno fatto i gesti e quelle due manciate di parole che conosco in macedone e in serbo-croato. Non potevo aiutarmi con internet perché la SIM si è disattivata ieri sera, quando è scaduta la promozione. Per esempio, quando mi ha chiesto che cosa ne pensano tatko e majka del fatto che io stia viaggiando, ho afferrato la parola majka perché ho visto a Skopje i cartelli con scritto majka Teresa. Se c’è una parola davanti a Teresa, in qualsiasi lingua del mondo quella parola deve significare “madre”.
12:36
Rifornisco la mia provvista di cartone chiedendo in un market e vado davanti al motel indicato dai miei amici. Lì si ferma Fehat, albanese, che lavora come autista di camion e da andando in macchina fino alla frontiera per ottenere dei documenti. Parla inglese e quindi gli posso raccontare del mio viaggio. Mi spiega anche che il cartello arancione di pericolo sbandieratori indica i cantieri stradali. Stamattina quel cartello mi aveva lasciato parecchio perplesso.
Mentre attraverso la frontiera a piedi, mi rendo conto di assomigliare decisamente poco alla foto che c’è sul passaporto, ma qui non sono così fiscali e mi lasciano passare senza battere ciglio.
Superata la dogana, mi piazzo accanto a un taxi e preparo il nuovo cartello. Paese nuovo, alfabeto nuovo, come è giusto che sia. Si tratta sempre di cirillico, ma qui ci sono altri segni per le vocali e anche delle consonanti in più. Il più buffo di tutti è la R scritta ribaltata, Я, che si pronuncia ia. Mentre aspetto faccio due chiacchiere con il tassista, declinando gentilmente la sua offerta di trasportarmi.
14:35
Dopo poco arriva Miri, che sta andando verso una città oltre Sofia e passa a una decina di chilometri dal centro.
Salgo a bordo ringraziandolo in macedone, ma ovviamente lui è albanese ed è partito da Tirana stamattina alle cinque. I Balcani del resto sono pieni di albanesi che guidano avanti e indietro solo per il gusto di farlo, ormai me lo aspettavo.
Miri fa l’architetto e ha due unghie lunghe nei pollici, ma non suona la chitarra. È originario di Tirana e i suoi colleghi sono italiani, due ottime giustificazioni per il fatto che parla fluentemente italiano.
Parla a bassa voce e all’inizio faccio fatica a sentirlo, sta dicendo che deve stare attento agli autovelox perché qui in Bulgaria sono ovunque, ma non ci sono i cartelli che indicano il limite di velocità. Ben presto il paesaggio si spiana e si copre di neve. In Macedonia c’era appena un po’ di neve sulle cime, ma oltre il passo di montagna che separa i due paesi la neve abbonda anche in pianura, imbiancando le distese di campi e gli alberi ai lati della strada.
Raccontando a Miri della settimana trascorsa in Kosovo, approfitto per chiedere se è vero che non ci sono controlli di frontiera al confine con l’Albania e come è percepita l’annessione del Kosovo dal punto di vista albanese. La risposta non è quella che mi aspetto. Innanzitutto i controlli alla frontiera ci sono, in più a Tirana la questione dell’unione tra Albania e Kosovo è di scarsissimo interesse. In Kosovo non vedono l’ora di diventare ufficialmente Albania, ma a quanto sembra questo amore non è corrisposto. Ci rimango un po’ male, avendo conosciuto così tanti kosovari che non vedono l’ora di guadagnare la libertà di viaggiare attraverso l’unione con un paese la cui esistenza è riconosciuta e indiscussa.
Nel frattempo la Bulgaria inizia a scorrere fuori dal finestrino, con molti campi, poche montagne in lontananza e molti palazzi di cemento figli del governo comunista. Qui la povertà si nota di più che altrove.
15:33
Giunti nei pressi di Sofia, Miri esce dall’autostrada per lasciarmi scendere e proseguire verso Veliko Tarnovo. Qui ci sono venti centimetri di neve. Il centro non è molto distante, mancano circa nove chilometri, ma io ho una domanda per i bulgari e mi preme farla prima di arrivare all’ostello. Dopo un chilometro mi faccio dare un passaggio da Evgenj e suo figlio Dean, che vanno proprio fino in centro. Il padre parla bulgaro e russo, mentre Dean a scuola ha studiato bulgaro e inglese e può rispondere alle mie domande. “Si dice Bulgarìa o Bulgària, ma soprattutto, il nome di questa città è Sòfia o Sofìa?” Dean risponde Bulgària e Sofìa, come il nome di donna, anche se qui è poco diffuso. Mi portano proprio al centro del centro, fino a due passi dalla cattedrale ortodossa Sveta Nedelya, dove mi fermo una mezz’ora. Qui in centro il microclima non permette alla neve si resistere a lungo, infatti si è già sciolta tutta. Quando inizia a calare la luce esco per andare a prelevare un po’di contante e poi all’ostello N°1, che è il secondo in ordine di prezzo, ma ha delle recensioni molto migliori di quello più economico. Alla reception dell’ostello lavorano due ragazze turche, che mi informano che una notte all’ostello costa 18 leva, cioè nove euro. Questa volta il mio disappunto è notevole, perciò chiamano Tina, la nonna che gestisce questo ostello. È di origini russe quindi parla solo russo e bulgaro. Ormai l’ho capito che i prezzi sono trattabili, è da Podgorica che contratto, infatti alla fine acconsentono a ridurre il prezzo a 13 leva, cioè 6,60€. Affare fatto. 10 leva di cauzione per la chiave e l’ostello è mio.
È piuttosto freddo perché non ci sono i caloriferi, ma i letti sono provvisti di un coprimaterasso riscaldante e una coperta pesante. Ora la mia missione sarà scrivere e tornare in pari in questi giorni trascorsi all’ostello, quindi vado subito a fare una doccia e lavare un po’ di vestiti, poi nel letto
al calduccio. In camera con me ci sono Alberto, un turista spagnolo, e Antun, un uomo ucraino che lavora qui, ma ha la famiglia in patria.
Dopo qualche ora esco dal letto per andare a prendere un tè in cucina, dove conosco Juliàn, belga, ed Hector, messicano. Secondo loro si dice Sòfia, non Sofìa. Il primo è qui per non rimanere bloccato in Belgio a causa del lockdown, il secondo invece è rimasto bloccato qui a Sofia e non sa come uscirne, quindi mi racconta la propria storia.
Dopo due settimane dal suo arrivo qui, Hector si stava spostando in autobus in centro e ha perso il passaporto che teneva nella tasca laterale dei pantaloni. Secondo lui è semplicemente caduto. Ha fatto denuncia di smarrimento e ha telefonato alla società dei trasporti, ma del passaporto non c’è traccia.
In Bulgaria non c’è un’ambasciata messicana, c’è solo un consolato dove si gioca a carte tutto il giorno, cambiando gioco ogni quattro ore. Lì gli hanno detto che non possono farci niente. A questo punto ha contattato l’ambasciata competente per la Bulgaria, che si trova a Bucarest in Romania. Lì per fortuna possono farsi spedire un nuovo passaporto dal Messico, basta aspettare due settimane. C’è solo un piccolo problema: per avviare la spedizione è necessario che il richiedente si presenti di persona all’ambasciata. Come fa lui a presentarsi in ambasciata a Bucarest se non ha il passaporto per attraversare la frontiera. La sua unica speranza ormai è che qualcuno ritrovi il suo passaporto o che la Bulgaria lo faccia rimpatriare forzatamente alla scadenza del suo visto turistico. È bloccato a Sofia, non può neanche visitare il resto della Bulgaria perché se gli controllano i documenti rischia di finire nei guai. Per fortuna non l’ha presa male, ci scherziamo sopra fino ad aver vagliato tutte le alternative possibili. La migliore è attraversare il confine illegalmente e cercare di raggiungere l’ambasciata di nascosto, perché lì tecnicamente si troverebbe in patria. Non dovrebbe essere difficile per lui, visto che è messicano. Risate.
Dopo questo basta, vado a scrivere in quel letto così comodo, che probabilmente è l’unico posto caldo di questo ostello. Sono debitore alla Federica, mia cugina, che ha insistito perché portassi con me una busta a tracolla in cui tenere il passaporto. Io facevo il tirchio per risparmiare ogni grammo possibile sul mio zaino già piuttosto pesante, ma lei mi ha voluto dare per forza questa bustina e adesso non saprei come fare senza. So esattamente quante volte me la sono tolta da quando sono partito, esattamente dodici. È un indumento più intimo delle mutande, ormai fa parte della pelle.
In un certo senso è davvero così, al giorno d’oggi se superi la linea immaginaria che delimita il tuo paese senza il passaporto smetti di esistere. Lo sanno bene gli iraniani di Sarajevo e lo sa bene Hector, che ha ancora una fotocopia del suo documento, ma per lui è quasi carta straccia.

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