Giorno 9 – Palla di fuoco!

Lezione di ieri: il guinzaglio al telefono va messo subito, non dopo che è caduto.
Domenica 10/07/2022 Pangboche (Solukhumbu, Nepal)
Sono solo le cinque, ma essendo andato a letto con le galline sono già sveglio. Alzo la testa per guardarmi intorno e Cosa?!? Da dove è spuntato quel colosso di roccia e neve alto seimila metri, qui a meno di un chilometro oltre la finestra? Sono due giorni che le nuvole riempiono la valle e io non avevo idea di che cosa ci fosse dall’altra parte. È una vista mozzafiato, anche perché nella luce radente dell’alba i contorni si stagliano sul cielo color cobalto come se qualcuno li avesse disegnati li e come se dovessero restare lì così immobili per sempre. Mi sdraio di nuovo. No devo guardare ancora, controllare se è ancora lì, maestosa e immota, controllare se resterà davvero lì per sempre. Intanto si sveglia anche Zomba, che mi trova con gli occhi sgranati a fissare la montagna attraverso il vetro affumicato. Gli spiego a gesti meraviglia, e lui mi spiega che quella vetta si chiama Ama Dablam. Esco in terrazza a guardare meglio con il binocolo, osservando tutto il contorno frastagliato della neve compatta che ricopre le creste di roccia. Come ogni mattina, Zomba getta nel focolare un goccio di carburante e qualche rametto di ginepro, così riaccende la brace di letame e scalda l’acqua per il tè, cui si aggiunge il latte in polvere. Stavolta usiamo il mio, anzi gliene lascio un altro po’ extra perché qui beviamo tè a tutte le ore. Mentre il sole sta ancora scalando la valle a Est, usciamo a fare un giro. Oggi che l’aria è tersa saliamo alla scuola di Pangboche da dove si vede il monte Taboche, la montagna sacra. Anche quassù c’è un piccolo tempio, facciamo un giro tutto intorno, in senso orario, e poi torniamo verso casa perché il sole picchia già. Entriamo in casa dall’alto, perché qui in montagna anche l’attico si trova al piano terra, infatti il tetto spiovente si trova al livello dell’orto. Cioè, specifichiamo, il tetto in questione è fatto di un telone impermeabile tenuto fermo con le lastre di pietra che si usavano una volta quassù. Il telone non era abbastanza grande, perciò l’ultimo terzo del tetto, se volgliamo chiamarlo così, è un raffazzonato decoupage di lamiera ondulata e plastica. Per me è bello così, da quassù posso accertare con facilità di essere ospite nella casa abitata più vecchia del paese. Tutti quanti gli altri hanno i muri intonacati e il tetto di lamiera colorata e perfetta, talvolta con i pannelli fotovoltaici sopra. Qui invece ci sono due prese di corrente e una lampadina, che ci ha permesso di controllare che stamattina non c’è corrente.
Scendiamo in cucina a preparare qualcosa di colazione. Kami Doma pesca da un barile una grossa scodellata di sbobba dalle condizioni igieniche molto dubbie mettendola a cuocere in una pentola. Che cosa sarà? Poco dopo porta quel misto di riso e altro ai due vitelli al piano di sotto, meno male. Nel frattempo io sorseggio tè e Zomba sta preparando altri funghi freschi con le verdure, che io non disdegnerei mai. Inoltre il cuoco oggi prepara anche carne di yak, tritata fine. Non posso aiutare in alcun modo, perciò esco in terrazza, trovando il vicino di Zomba intento a tagliuzzare con un kukri la carne di yak che è arrivata qui a casa due giorni fa. Sì lo so, non è stata in frigo perché qui non c’è il frigo, ma in casa ci sono sempre dieci gradi ed è quasi come un frigo. Il kukri (o khukuri, che in lingua sherpa si chiama gurkha) è una sorta di coltello che si usa da queste parti. È uno strumento geniale perché combina insieme tantissimi attrezzi da taglio in una lama sola. È leggermente ricurvo e il dorso della lama è spesso parecchi millimetri, per appesantirla. Si può usare come coltello da cucina, come machete o come accetta, perché sopra quattromila metri non si può girare con un’intera armeria appresso, una lama deve bastare. Non so se sia questa la ragione, ma di certo è l’effetto: la sua versatilità lo ha fatto sopravvivere fino ad oggi.
Tornando alla scena: il vicino di Zomba è a sedere su un panchetto, con le gambe divaricate e una tazza di tè a portata di mano. Sotto le gambe ha un’asse di legno su cui è puntato il kukri con la lama all’insù, tenuto fermo con la pancia. Davanti a lui c’è un vecchio saccone di plastica relativamente pulito, con sopra alcuni mucchietti di carne già tagliuzzata e un catino con la carne insanguinata ancora da processare. Le mosche intanto approfittano del banchetto. Al sole invece hanno messo molti funghi a seccare, su un grande vassoio di vimini. C’è dell’altro da notare su questa terrazza, ad esempio la canna fumaria che non tira. Non tira perché il tetto di plastica non ha un comignolo, perciò la cappa attraversa la parete grazie ad una latta d’olio bucata su un fianco. Difficile che il fumo abbia voglia di affrontare la doppia curva a gomito, ecco perché preferisce restare in casa al calduccio. Inoltre noto solo ora che l’albero di ginepro che fa ombra al terrazzo è incorporato nella struttura della casa. Perché la carne di yak viene tagliata in lunghe strisce, anziché a pezzetti? Ci sono! Le strisce sono comode da appendere perché quella carne è da seccare.
Rientro in cucina, sedendomi poco sotto la cortina di fumo che aleggia in casa. Appena pronti i funghi in padella e il ragù di yak, aggiungiamo un po’ di riso in bianco e andiamo a mangiare all’aperto, al caldino del sole. Prima il formaggio, poi i funghi, la verdura e adesso il ragù di yak: le mie papille gustative sparano i fuochi d’artificio per festeggiare.
Andiamo a sederci sul prato, contemplando la valle e la montagna smisurata. Il mio raffreddore sta già calando, ma al momento mi sanguina un po’ il naso. Zomba mi nota e chiede: “No headache?” (Niente mal di testa?) “No, sto bene” “Okkey.” A posto, non è mal di montagna.
Ora viene il dilemma, perché io dovrei andare, ma Zomba vuole che resti perché devo assistere al falò di stasera. Lui è molto ottimista sui tempi del trekking, ma bisogna mettere in conto che potrei trovarmi ad aspettare un giorno intero perché piove, o anche due. Controllo il meteo e neanche lui mi aiuta a partire, nei prossimi giorni è previsto bel tempo. Che fare? Che fare? Resto anche oggi.
Scendiamo al tempio, ma non sta succedendo niente laggiù, solo il monaco al microfono continua a salmodiare dal profondo della gola, lanciato a tutta velocità da stamattina presto. Secondo me là al tempio hanno dormito cinque ore, perché ieri hanno tirato avanti fin quasi alle due. Facciamo un giro dalla sorella di Zomba, a pagare e a bere un altro tè, poi si cambia bar e paga Zomba per tutti e due. Poi compare un mio coetaneo che parla un po’ di inglese. Scambia due parole con Zomba e mi dicono di seguirli. Io non pensavo di essere così grave, ma evidentemente il mio raffreddore è stato sopravvalutato. Mentre arriviamo allo studio medico di lamiera ondulata, riesco a capire che ci stiamo andando perché a Zomba fa male la gola da un paio di giorni. Già che ci siamo salgo sulla bilancia, che segna 62 chili, proprio come Zomba, che però è più basso perché è sherpa. Nello studio medico c’è uno scaffale con le medicine della comunità, che garantisce ai propri membri medicine a poco prezzo o gratis. Inoltre appesa al muro c’è una campagna di sensibilizzazione rispetto alle norme igieniche domestiche, che sembra voluta dal governo. Per noi si tratta di nozioni scontate: riscalda i cibi, cuocili bene, tienili al riparo dalle mosche e roba così. Pago le medicine e torniamo in paese, come spettatori del kirembot, che qui è popolare come da noi il calcio. Su quella tavola di due metri quadri si consumano partite su partite, con sempre un po’ di spettatori a formare un capannello intorno a quel barile con la tavola sopra. Quando, due ore dopo, i giocatori lasciano campo libero, io e una bambina improvvisiamo una partita. Nessuno dei due è abituato e in questo gioco la tecnica è tutto. Su una tavola immensa come questa, due principianti possono sperare di concludere una partita in non meno di un’ora.
Torniamo su e mi siedo insieme a Zomba sul prato davanti a casa, ad aspettare mezz’ora che inizino le celebrazioni. Intanto alcuni monaci stanno compiendo un rito di preghiera in una casetta di legno sopra al paese, insieme agli organizzatori di quest’anno. A tratti il vento porta fin qui un ritmo concitato di tamburi. Passata la prima mezz’ora ne passano almeno altre tre, finché decidiamo di fare due passi lassù per vedere che succede.
Tam-tam tam-tam, Tam-tam tam-tam, Tam-tam tam-tam, Tam-tam tam-tam…
La preghiera è quasi finita, così tutti i cerimonieri escono e già che ci sono offrono a noi due un sorso del vino si riso utilizzato nella preghiera. Un sorso vuol dire che Ram mi porge una ciotola di ceramica dicendo che la devo bere tutta. Quando sono a metà, come è ovvio, la riempiono di nuovo. Io non ho ancora capito quanti gradi faccia questo alcolico, che loro chiamano vino, a occhio mi sembra distillato, ma a lingua parrebbe più una birra. Sono incerto, ma ormai ho deciso di restare anche oggi e quindi accetto volentieri. Solo una cosa, prima di bere bisogna intingere per tre volte la punta del medio nel liquido, facendo un gesto verso l’alto in segno di offerta, credo. Questo è molto migliore del sorso di ieri, mi pare che ci sentano anche gli aromi del legno in cui è stato conservato, infatti questo è stagionato per un anno.
Ognuno degli organizzatori afferra un palo o una canna di bambù, ornati con gonfaloni e nastri colorati, formando dietro ai monaci una processione che scende serpeggiando dalla collina fino ad un cippo bianco. Insieme ai monaci c’è anche una figura che indossa uno dei mascheroni che ho visto ieri appesi nel tempio. Accanto all’altare c’è un mucchietto di ginepro fresco che già fuma tra i sassi. Diverse canne di bambù decorate vengono infisse sul cippo, poi procediamo fin quasi al tempio, fermandoci a gettare riso verso la maschera mostruosa. Ora sì che inizia la cerimonia!
Nel tempio ci sono i soliti due suonatori di corno, che oggi si cimenteranno nel suonare due corni di quattro metri. Questi corni sono telescopici e per suonarli serve un cavalletto di legno. Prot! Prooot! Giù a ridere. No, i suonatori non stanno facendo le prove, fanno gli asini con i corni. Qui tra i buddisti l’importante è alleggerire l’atmosfera durante queste ore di attesa. Più tardi ci sarà tutto il tempo per ritrovare la solennità.
Al centro della sala è stato posto un tavolo con parecchie decorazioni di pasta di riso e di burro, candele e brocche di legno anch’esse decorate con il burro e con quei semi volanti di ieri (le sàmare). Per terminare i preparativi, un monaco si piazza davanti alle scale con una borsina piena di sabbia. Con gesti sinuosi disegna via via una sorta di mandala quadrato, prelevando manciate di sabbia chiara e argentea.
Proo! Proo! Proo! Proo! Allo stesso ritmo di ieri, scende la maschera di prima, reggendo un battente e un grosso timpano fragoroso e cacofonico, da suonare fortissimo mentre gira attorno alla colonna centrale del tempio. Gira ripetendo una sequenza di passi, di tanto in tanto si rivolge direttamente verso il pubblico, in atteggiamento minaccioso. Dopo molti e molti giri si aggiungono alla maratonda altri tre danzatori con piccole maschere e vestiti chiari e leggeri, come degli spiriti o dei fantasmi. Il mascherone nero è visibilmente stanco quando risale le scale a ritmo di musica, mentre i musicisti ormai sono spolmonati. (termine medico per definire la condizione di completo spappolamento alveolare)
Si siedono ai corni due giovani monaci, per dare inizio alla seconda parte, quella in cui la maschera orrida scende di nuovo le scale al ritmo lento dei corni per andare a sedersi su uno scranno vicino a dove sono io. Molti dei presenti si alzano e formano una processione, portando ciascuno un drappo bianco, lungo e sfrangiato. Non so di preciso che significato abbiano, ma ne ho visti parecchi venendo qui, legati ai ponti sospesi insieme alle bandierine colorate. Da ultimi, scendono la scalinata gli organizzatori, reggendo i cesti ricolmi di cibo. Hanno appena finito di giocare a poker texano e bere whisky, il cappello non lascia dubbi. Restano in piedi aspettando che finisca la proocessione delle sciarpe bianche. Ogni drappo viene disteso accuratamente sul tavolino davanti alla maschera, tante e tante volte, formando uno spesso strato. Lo strato di sciarpe impalpabili diventa spesso perché la processione non si ferma, con tanti e tanti drappi. Poi i cesti si avvicinano e… no, mancano ancora altre due sciarpe, no tre, cinque, sei, otto… e basta! Va bene ma smettetela! I cesti si posano sul tavolo e l’uomo mascherato li sfiora uno per uno e porta la mano alla bocca. Ecco, li ha divorati. Si alza e ritorna di sopra, piano piano. I suonatori sono dei fondisti, possono continuare a lungo. Come ieri, sulla balconata ci sono i monaci in abiti rossi e arancioni, seduti ad osservare la celebrazione dall’alto e recitando qualche preghiera negli intervalli. Oggi sullo scranno centrale non c’è più la foto di un monaco bambino, ma un uomo che avrà circa la mia età, dal portamento solenne quanto il proprio seggio. Nella pausa viene distribuito riso dolce e tè nero a profusione, in vaschette di alluminio usa e getta. Come ieri monaci lassù ne ricevono una montagnola tonda in una coppetta. Oggi mangiano, ma a velocità buddista, gustandolo bene. Nel frattempo fuori si è fatto buio, faccio un giro a trovare Zomba, impegnato in chiacchiere sul muretto.
Quando la musica riprende scendono le scale quattro maschere con i costumi variopinti di ieri, più il mascherone nero e arcigno che a quanto pare presiede la giornata.
I primi quattro hanno in mano una piccolissima coppa d’ottone dalla forma arzigogolata, che si fanno riempire di liquido, ora so che è vino di riso. Riprendono a girare in maniera simile a ieri, lentamente, due passi avanti, uno indietro, alza il tacco, giravolta e via così. Mentre saltellano così versano vino a terra, poco a poco, poi rabboccano e ripartono. Il mascherone percuote senza posa il solito ottone stonato. Noi intanto siamo tutti in piedi intorno, a riprendere. Ogni tanto qualcuno mi incita: “Fai video, fai video!” “Sì, l’ho già fatto il video.” Sono gli stessi passi da un quarto d’ora, è interessante per me, ma non per la memoria della gopro.
Finito il ballo si svolge una seconda processione per onorare chi ha pagato per tutto il riso e alcuni altri membri della comunità, distintisi per non so quali meriti. Finiscono sommersi da un soffice groviglio bianco attorno al collo.
Proprio durante questa processione infinita compare un forestiero, un certo Lee proveniente dalla Korea del Sud. È arrivato in paese un paio d’ore fa, ma dato che il sentiero per il campo base passa per la parte bassa di Pangboche non ha trovato il tempio facilmente. Proviene proprio dal campo base, ha un anno più di me ed è buddista. Iniziamo a chiacchierare fitto fitto perché io sono curioso di sapere com’è il sentiero lassù e lui vuole sapere in quale ostello alloggio e com’è il servizio. Non è facile spiegare dove ho passato le ultime due notti e come ci sono capitato. Mentre parliamo passano a distribuire i piatti della cena, difficili da rifiutare adesso che so per certo che buona parte delle mie provviste torneranno a valle, nonostante l’uso copioso di olio ad ogni occasione buona.
Stasera assieme al riso ci sono funghi e zuppa di legumi. Lee assolutamente rifiuta più volte, ma mi conferma che c’è completa libertà di accettare o no il piatto, senza per questo sottrarlo a qualcun’altro.
Così mentre finisco di mangiare scopro che quel monaco seduto al centro era un personaggio importante, era la reincarnazione del Lama. (Non il Dalai Lama, un Lama generico.) Si distribuisce il riso, gridando “Sowl!” a più non posso, poi usciamo tutti al fresco esterno.
Intanto stanno pulendo dal riso, dalla e dalla farina, così poco dopo iniziano il riassetto dei mobili, necessario a dividere il salone per il lungo. I monaci prendono posto dando le spalle al pubblico, sulla panca e sulle sedie disposte a elle. Io sono lì di fronte in un cantuccio, a osservare ogni mossa della preparazione del fuoco di cui ha parlato Zomba. In un angolo del tempio sono state scaricate parecchie bracciate di legna, spaccate con il kukri in schegge più fini. Al centro delle sedie invece viene posizionato un bizzarro braciere triangolare, praticamente al livello del pavimento, preparando una piccola pira triangolare. Sopra la pira viene posto un pentolone largo quaranta centimetri e alto quindici, sorretto da un treppiede. Da adesso in poi non si possono fare foto.
Nel pentolone vengono posti alquanti chili di burro, dopodiché molti fedeli si avvicinano per aggiungere un piccolo contributo di burro, come prima con le sciarpe, pare che non finiranno mai. Questa volta Zomba è entrato e si trova alle spalle dei monaci, dalla parte opposta del tempio. Quando mi nota, mi chiama a sedermi in fondo vicino a lui e a Kami Doma. Da laggiù la pira non si vede, ma in fondo io sono qui per loro più che per la pira, che amico razza di amico sono. È tutto pronto, si comincia con il gran finale.
I monaci più anziani prendono a recitare in fretta una nuova lunghissima preghiera incomprensibile, finché dopo mezz’ora il monaco giovane si alza e dà fuoco alla piccola pira. Ci vuole tempo perché si accenda tutta, intanto la preghiera prosegue ininterrotta, accompagnata dal ritmo incalzante di un piccolo tamburo. Si spengono le luci e resta solo il fuoco a rischiarare l’ambiente. Il burro inizia a fondere e il monaco fuochista aggiunge altra legna nei buchi vuoti. Quando la fiamma è abbastanza alta, viene infissa in un anello del portico, in orizzontale, una canna di bambù con una bandierina disegnata a ghirigori rossi. Si trova proprio sopra al fuoco e perciò sventola verso l’alto. Adesso un monaco anziano sta prelevando una manciata di riso da una ciotola. La passa al fuochista che fa un giro attorno al braciere e la getta nel fuoco come offerta. Sul tavolo al centro della sala sono state assortite molte di queste ciotole di granaglie e cibo secco, non solo il riso. Ci vuole molta energia per portare il pentolone ad ebollizione, così c’è tutto il tempo per svolgere una preghiera articolata ed esaustiva di tutte le produzioni agricole del Nepal. Da ultimo si versa nel fuoco anche un bicchierino di vino di riso, perché non deve mancare neanche quello il prossimo anno. La superficie del burro fuma e alimenta la fiamma, che si leva già ad un metro e mezzo da terra.
Si continua a recitare preghiere su preghiere su preghiere, mentre la fiamma sale fino a due metri e mezzo, come mi aveva anticipato Zomba. Qualcuno sale sul tetto per scostare il telone bianco che copre la parte centrale degli spioventi. Quando c’è stato il terremoto qui in Nepal, questo tempio quattrocentesco ha subito dei danni notevoli e quel telone è palesemente nuovo, meglio trattarlo bene. Che strano però, noto solo adesso che c’è un segno di bruciatura sul bordo del soffitto del primo piano, non pensavo che questa fiamma scaldasse così tanto. Intanto il primo piano si è riempito di fumo e gli spettatori sono scesi.
Il burro inizia a gorgogliare allegramente, ed è solo ora che il monaco più anziano, quello che ieri ha ucciso il pollo lesso, si alza in piedi. Porta un lungo vestito pesante diverso dagli altri, con il cappuccio e una cortina di cordicelle nere davanti alla faccia, come fossero capelli. Vestito così pare proprio un potente sciamano. Afferra due aste d’acciaio terminanti in una coppetta, che viene riempita di vino di riso. Coprendo una coppetta con l’altra, il monaco inizia a girare attorno al fuoco, mentre gli spettatori si alzano in piedi e si avvicinano. È questo il gran finale.
Che cosa fa una piccola quantità d’acqua portata brutalmente molto oltre i cento gradi? Esplode in una nube di vapore, esatto, portando con sé il liquido soprastante, che viene nebulizzato. Quando succede in cucina si schizza olio ovunque, ma solo perché la fiamma è coperta dalla pentola. Se la pentola è immersa in una palla di fuoco, beh, il risultato è ben diverso, stai a guardare.
Il tamburo di Jumanji continua a suonare a ritmo sostenuto, mentre cerco di indovinare la prossima mossa. Con un gesto rapido e secco, la figura incappucciata getta il vino nel burro. Dalla pentola si leva una fiammata che arriva su su fino al tetto, sette metri più in alto, una colonna infuocata che travolge quel poco che restava dell’asta della bandiera. Intorno a me si leva un “Wooo” di meraviglia, mentre i piromani stanno già ricaricando la coppa. Una seconda fiammata, più grossa della prima, si leva dalla pentola e arriva ad accarezzare il soffitto del primo piano.
Il tamburo non si ferma e la coppa si riempie ancora. Il monaco prende a girare di nuovo, d’improvviso getta la bomba incendiaria e spicca un balzo indietro. Questa volta la palla di fuoco si leva con una potenza inaudita, riempie metà del tempio e sale ben oltre il tetto, espandendosi fino al telone bianco, che se la cava senza danni. Non so come, la pentola è finita a terra, si getta una secchiata d’acqua sul fuoco ed è tutto finito.
Che cosa
Ho appena
Visto?
Il bello è che loro, non contenti, lo fanno ogni anno! In chiesa! Incredibile, incredibile!
I monaci sono ancora al proprio posto per conferire la benedizione finale ai fedeli in processione. Il problema è che il tempio si sta riempiendo di vapori di burro bruciato, che sono vietati dalla convenzione di Ginevra sulle armi chimiche.

La gente tossisce sommessamente perché quella roba irrita la gola anche a me e Zomba che siamo ben distanti. Usciamo subito, anche perché è tardissimo, sono già le dieci. Rientrando a casa il mio ospite mi chiede se ho fame e mi scappa un mugugno di assenso, prima di rendermi conto che Zomba crolla dal sonno. Cerco di minimizzare e rimandare a domattina, ma ormai è troppo tardi. Per la mia gioia, mangiamo un alto piatto di funghi e riso tostato, con un bel po’ d’olio per conciliare il sonno.
L’esperienza di stasera è fondamentale, per fortuna che sono rimasto qui un giorno in più. Ad ogni capodanno, festeggio con gli amici delle superiori e per cena facciamola fonduta. Essendo solitamente in venti o venticinque, la quantità di olio che avanza è sempre ingente. Tradizionalmente la sera del primo dell’anno facciamo un falò, che viene rimandato di un giorno per poterlo gestire da sobri. Qui sorge il problema, perché puntualmente abbiamo dieci litri d’olio combustibile, ma spesso finisce sprecato nella raccolta differenziata. Abbiamo provato molte volte a inventare qualche modo per bruciarlo, ma con scarsi risultati. Ora gli sherpa mi hanno insegnato come si usa, grazie.

3 commenti su “Giorno 9 – Palla di fuoco!”

    1. Non vedo l’ora di tornare a fare un falò come si deve con te quando tornerai. Nel frattempo prendi appunti sulle tecniche utilizzate nel mondo🔥🔥🔥🔥🔥🔥🔥

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