Leziobe di ieri: lo schifo che i turisti si lasciano dietro può tornare utile.
Sabato 09/07/2022 Pangboche (Solukhumbu, Nepal)
Apro gli occhi è c’è una signora con il volto pieno di rughe, poco distante da me, che ispeziona l’UFO che è atterrato accanto a casa sua. Appena vede la mia testa sbucare fuori dal sacco a pelo capisce che cos’è questo impianto e si copre la bocca mentre ridacchia e mima il mio dondolio con il dito. Se ne va verso casa, che a quanto pare è a quindici metri da dove sono io, anche se non me ne ero accorto ieri con la nebbia. Ritorna poco dopo insieme a due uomini più giovani di lei, quello che parla inglese cerca di capire chi sono e perché sono qui a casa loro. Inizio a farfugliare le mie scuse parlando in fretta, ma si capisce che non se la sono presa, piuttosto sono preoccupati perché me ne sto qui in balìa dei cani e dei ladri. Mi sollecitano a sbaraccare in fretta e io eseguo, cercando di evitare che mi aiutino perché non mi fido di quelle manone forzute, quando si tratta si ripiegare il mio telino delicato.
Data l’umidità mi invitano in casa, che è un’abitazione di sasso a due piani e mezzo, ad un rapido esame è la più vecchia del paese. La porta principale si apre sulla stalla, perché il pianterreno è abitato da due vitelli di due anni, bianchi a macchie nere. Salendo alla cieca una scala di legno sbilenca, si arriva nel disimpegno del primo piano, con da un lato la terrazza e dall’altro la cucina e la sala da letto, una stanza grande che serve per tutto. Ci sediamo su un panchetto basso della cucina, per preparare il tè della colazione. La cucina ha un minuscolo tavolino in un angolo, addossato ad uno scaffale pieno di stoviglie e scodelle e cianfrusaglie polverose. Di fronte c’è il piccolo focolare, con sopra una grande cappa di aspirazione, e due fornelli a gas collegati ad una bombola. Accanto ai fornelli c’è un secondo scaffale che serve da dispensa, con cibo secco e spezie varie. Tutto quanto viene conservato in contenitori riutilizzati, che il fumo ha reso un po’ marroncini. Ci sono anche delle foto in un angolo, ma si trovano sopra al livello del fumo, una linea piuttosto netta a circa un metro e mezzo da terra, sopra la qualetutto quanto è nero. È nero anche il telone di plastica posto sulle travi del soffitto, che protegge dalle infiltrazioni d’acqua. Sono qui in cucina con la signora di prima e quello che parla inglese, l’altro invece abita con una donna al primo piano ammezzato, praticamente in un monolocale. I due che sono qui con me non sono sposati, lei si chiama Kami Doma e nonostante le rughe avrà una sessantina d’anni, lui invece si chiama Zomba (Somba con la s di cosmo) ed ne avrà quasi cinquanta. Il fuoco è già avviato, basta attizzare le braci di pino con due rametti di ginepro, che spargono un odore aromatico e creano un po’ di fiamma. Sopra di essi va aggiunta una cacca di yak, che fornisce il resto del calore. Qui come nelle steppe della Mongolia non crescono molti alberi, perciò conviene utilizzare il letame secco per ridurre l’impatto antropico sui boschi. Mantenendo intatti i boschi si ottengono più funghi, infatti qui in cucina ce n’è un catino pieno. Appena è pronto il tè, me ne riempiono una tazza, fino all’orlo, e Kami Doma va a prendere tre merendine al cioccolato per me. Due oreo grossi così e una barretta. Io ho l’impressione che costino moltissimo quassù, però insistono più volte e ne mangio un paio. Arrivato a metà del tè, la tazza viene rabboccata, perché qua si usa così.
Zomba e io usciamo per scendere al tempio dove è già iniziata la puja (pùgia), la preghiera di questi quattro giorni di celebrazione. Già da ore riecheggiano le preghiere baritonali dei monaci, che recitano dal profondo della gola una litania lunghissima, emessa dagli altoparlanti.
Noi due andiamo a sederci su un muretto , insieme a parecchi altri uomini del paese, in attesa davanti al tempio. Il ginepro verde qui viene usato come incenso, c’è un braciere in muratura he butta fumo come se fosse stato eletto il papa. Intorni a me vedo molte paia di scarpe La Sportiva, come quelle che ho io, ma fanno parte di una gamma di modelli più economica, si vede che non costano 24000 rupie nepalesi come le mie. Tuttavia il tratto più vistoso sono i cappelli da cowboy, spuntati come i funghi in testa agli abitanti. “È una festa country!” direte voi che ascoltate Guccini e Mingardi. Ma io risponderò “No, è una festa campestre, c’è una bella differenza tra le due cose.” (Chi non conosce “La fîra ed San Lazer” fili ad ascoltarla.) Questi cappelli sono piaciuti alla gente di qui e sono stati adottati come copricapo degli organizzatori della festa, tra i quali c’è Ram. A quanto ho capito è una festa annuale, non è vero che si tiene una volta ogni 18 anni, anche perché sarebbe un’eternità.
Tutti si voltano, arriva da destra una processione di monaci vestiti di rosso e di giallo con un grande copricapo rosso. Questo alto copricapo ha una punta ricurva in avanti e due lunghe strisce laterali che ricadono sulle orecchie e sulle spalle. Insieme a loro ci sono i cowboy che portano dei cesti pieni di cibo: merendine confezionate e dolci di pasta fritta. Due monaci giovani, che hanno con sé un piccolo corno di metallo, iniziano a suonarli a ritmo lento e costante, mentre un monaco più anziano recita una preghiera. Noi ci alziamo in piedi e aspettiamo, che cosa non lo so. In piedi sulla soglia del tempio, c’è il monaco più anziano, quello con il cappello più decorato e più alto e con la barba più lunga e grigia. Tiene in mano un piccolo oggetto di ceramica, che contiene del liquido da versare davanti a sé, dove una pietra del selciato è stata spostata. Poo poo poo poo, i corni proseguono e intanto qualcuno depone davanti al monaco anziano un triangolo di legno che contiene un oggetto giallino che visto da qui mi sembra un pollo lesso. Questo pollo giallino viene cosparso di un liquido rosso vivo e resta lì mentre la preghiera procede. Poi al monaco anziano viene porta una lunga spada, che lui brandisce ben alta, accanto al piccolo recipiente di ceramica nell’altra mano. Rimane in quella posizione a lungo, ma alla fine della preghiera abbatte la spada sul vassoio triangolare, dimezzando il simbolo rosso che è effettivamente un morbido pollo bollito. Mentre i corni incitano la cruenta carneficina, la spada cala più e più volte sul pollo, maciullandolo malamente in piccoli pezzi. Compiuta la cerimonia, il vassoio triangolare viene rovesciato nella buca davanti al tempio e ricoperto con la pietra di prima. Il pollo, mi spiegano, rappresentava il male e la violenza, che ora giacciono sottoterra per sempre, calpestate dai fedeli.
Finita questa fase della preghiera Zomba mi porta al bar di sua sorella, dove trova anche un amico intento a bere un distillato di riso. Mi domandano se ne voglio anch’io, ma in montagna non si beve, a maggior ragione perché sono in viaggio. Ne assaggio giusto un goccio per sentire il sapore, che è decisamente blando. D’altronde è riso, di che cosa saprà mai?
Zomba ordina anche due piatti di mo:mo (in un mese di Nepal non ho capito che cosa siano quei due puntini, loro li scrivono e quindi li userò anch’io. Comunque si dice mò-mo), che sono dei ravioli di carne o di verdure. Sono tondi, chiusi a sacchetto e larghi cinque centimetri, in pratica dei mini khinKali georgiani a cui è stato strappato il picciolo.
Zomba ha chiesto quelli vegetariani, che sono farciti con l’erba cipollina, le bietole e altre verdure dell’orto qui di fronte, veramente appetitose. Da bere insieme la cuoca mi porta un tè fatto con il latte di yak, invece di quello in polvere. Restiamo lì un’oretta, poi mi presentano il conto. Il conto? Io pensavo che fosse una, ehm, genilezza tra fratelli… Soni abituato troppo bene, ma è giusto così, anche se 800 rupie per un tè e una dozzina di mo:mo sarebbero un’enormità giù a valle. Quassù costa tutto tantissimo, anche il pacco di latte in polvere che ho io, pagato 140 rupie, qui si vende a 200. Pagherò più tardi perché non ho con me il portafoglio, nessun problema. Scendendo le scale noto un dettaglio del muro a sinistra, che prima nella penombra mi era sfuggito. Non è un muro è una catasta di letame secco di yak, che costituisce la scorta di combustibile per scaldare la casa in inverno.
Passiamo accanto al tempio e tiriamo dritto verso una casetta, con una tavola di stuzzichini e parecchi invitati ai festeggiamenti, che ignorano completamente il cibo. Sono tutti assiepati intorno ad un gioco da tavolo che ho notato ieri passando qua davanti. Si chiama kirembòt e si gioca in due o in quattro. È una tavola quadrata di legno, di lato 140cm, con i bordi rialzati in modo da contenere le pedine. Le pedine sono diciannove, larghe come un pollice, nove bianche, nove nere e una rossa, più una gialla poco più larga delle altre. Ai quattro angoli della tavola ci sono quattro buchi circolari di cinque centimetri, come un tavolo da biliardo. Per far scorrere le pedine sul legno si usa un professionale barattolo di farina con il tappo bucato. A una spanna da ogni sponda c’è una linea di battuta, dove il giocatore di turno può posizionare la pedina gialla. Lo scopo è mandare in buca tutte le pedine del proprio colore con un cricco, tenendo la rossa come penultima. Si inizia facendo un mucchio al centro e spaccandolo come a biliardo, dopodiché si gioca a turno. Chi manda in buca una pedina del proprio colore ha diritto ad un altro tiro, chi manda in buca una pedina dell’avversario subisce una penalità e una delle pedine che ha già mandato in buca viene posta di nuovo al centro del tavolo, su una circonferenza disegnata sul legno. Per le altre regole speciali è meglio che faccia qualche video dimostrativo. Non mi è del tutto nuovo come gioco, perché il mio amico Mattia Ferrari mi ha fatto provare un gioco simile canadese, chiamato kroquinole. Mattia è un grande costruttore di giochi da tavolo e durante la pandemia ha deciso di realizzare una tavola da kroquinole fatta a regola d’arte, con tanto di sferette di plastica calibrate per assicurare il perfetto scorrimento delle pedine.
Qui a Pangboche si stanno sfidando i campioni, gente che è in grado di mandare in buca una pedina con due rimbalzi e un tocco in obliquo, non so se mi spiego. Se si impegnano chiudono un partita in cinque minuti.
Dopo qualche partita Zomba mi chiede se ho ancora fame e io cosa posso rispondere? “Beh, mah, sì, no, un pochino sì, ecco.” Mi sto contenendo perché sono ospite suo, ma ho una fame da lupi, altroché. Zomba scalda un po’ di funghi e verdure per tutti e due, così io propongo di usare un po’ del mio olio per cuocere gli altri la prossima volta, per il resto ho solo muesli, riso tostato e… Zomba si è illuminato, mi propone di unire i fiocchi di riso ai funghi, così aggiungiamo e via che si mangia. Io innaffio questo riso con tutto l’olio che può assorbire, tanto è previsto che i funghi navighino nell’olio e sicuramente questa volta l’intestino mi perdonerà. Qualcosa lo dobbiamo pur mangiare e con l’olio extra si sente proprio che il piatto è nutriente, ne aggiungerei ancora ma poi mi sembrerebbe di rovinare il piatto del cuoco.
Nel frattempo parliamo in mezzo inglese e mezzo nepalese e Zomba mi racconta che di mestiere non ha fatto solo la guida escursionistica, ma anche il cuoco. Io ho iniziato stamattina a studiare quel prontuario di nepalese che avevo preparato a Okhaldunga, perché la nostra conversazione è davvero in inglese solo per metà. Senza contare che la lingua madre di Zomba è lo sherpa (serpa, niente sc da queste parti, è una nostra invenzione), quindi nepali e inglese per lui sono la seconda e la terza lingua. Stamattina ho chiesto a lui e alla sorella come di traduce “salt” (sale) in nepalese e loro hanno risposto “salt is… salt!”
Ora che ho qualcosina nella pancia scendiamo di nuovo a fare un giro al tempio, dove continua ancora la preghiera. Zomba resta fuori, non so perché. L’interno è gremito di fedeli, seduti lungo la panca di pietra perimetrale e sulla balconata al piano di sopra, così parlo con un ragazzo che mi trovo accanto, il quale mi consiglia di salire la scalinata che porta al cuore del tempio. Eseguo, togliendomi le scarpe prima di entrare. Dovrei pagare un biglietto di ingresso, ma vengo graziato e posso restare ad ammirare il tripudio caotico di oggettini radunati nella stanza. Al centro c’è una sorta di altare giallo a gradini, ricoperto di decine di statuine dalle forme astratte, decorate con cerchietti colorati di quella pasta multicolore che ho visto ieri sul bordo del catino d’acqua. Quello con cui ho appena parlato mi ha spiegato che queste decorazioni sono fatte di burro, ecco a cosa serviva il catino di acqua fredda. Il tè probabilmente era il carburante per gli artisti. Molti dei supporti di queste effimere decorazioni sono fatti di una sostanza dura e bianchiccia che è riso cotto e pressato. Appesi alle colonne di legno ci sono dei pesanu mascheroni di figure grottesche e vagamente demoniache, probabilmente antiche quanto il monastero. Il resto della stanza è così pieno di festoni, cesti di cibo, strumenti musicali e oggetti sacri che per quanto mi sforzi di osservare tutto mi è impossibile. Torno a sedermi nel salone principale, aspettando che succeda qualcosa, in teoria ci dovrebbero essere dei balli, stando a quanto mi ha anticipato Zomba.
La preghiera prosegue e prosegue mentre altra gente affluisce, finché viene sera e uno dei monaci capi sale la scalinata e inizia a leggere le regole del monastero, scritte su un grande foglio di carta sottilissima, ripiegato a rotolo. È un foglio molto antico, resistente come un fazzoletto bagnato, così grande e sottile che il lettore per manovrarlo lo fa saltellare sulle mani, fino a srotolare altre due righe. La lettura è interminabile perché il manoscritto viene letto in lingua tibetana e poi tradotto in sherpa in modo che tutti possano capire. Quasi tutti, i tre ragazzi seduti accanto a me non capiscono lo sherpa perché sono nati qui, ma studiano a Kathmandu. Uno di essi addirittura studia in America, è proprio lui che ha portato a casa dagli Stati Uniti la partita di cappelli da cowboy che si sfoggia in questi giorni. Terminata la lettura prende la parola lo sceriffo… cioè volevo dire il presidente dell’associazione che gestisce il monastero. In pratica sta elencando le donazioni e le spese annuali, niente di più. Superato anche questo scoglio, accanto a noi si siedono due giovani monaci con i cornetti di stamatina e due corni di un metro, per iniziare la cantilena che accompagnerà le danze. Io immaginavo che ballassero tutti invece poco dopo scendono le scale quattro delle maschere che ho visto di sopra, portate da due uomini e due donne. Indossano dei vestiti coloratissimi, con una grande faccia di drago sul davanti e tanti teschi e nuvolette in stile cinese ricamate sulle ampie maniche a punta e sulla lunga gonna. Ciascuno ha in mano una specie di portauova di metallo, con dentro una pallina di pasta di riso che sembra proprio un uovo sodo. I musicisti danno fiato ai corni a ritmo costante. Secondo me suonano una volta ogni due battiti del cuore, è per questo che mi soni entrati in testa. Camminando a ritmo di musica i danzatori si dispongono in cerchio e girano, girano, girano. Un passo avanti, fingono di gettare l’uovo al centro, una piroetta, un passo avanti e mezzo indietro e via così, come in una maratonda. Dopo cinque minuti gettano via l’uovo lanciandolo in alto, lo sceriffo riempie di nuovo i portauova con vino di riso, un altro uovo e si ricomincia, per tre volte. Finita questa danza riprende la preghiera e alcune donne passano a distribuire bicchieri, tè nero, succo di mango e porzioni di riso dolce con l’uvetta. Poco dopo ritornano i danzatori e si esibiscono in un’altra danza, lunga lunga.
Infine, dopo un certo trambusto per preparare il finale, passano a distribuire dei piatti con la cena. Sono tra i primi e accetto il piatto, anche se poi quasi tutti gli altri rifiutano. Devo dire che sono anche un po’ imbarazzato perché forse avrei dovuto rifiutare, ma in realtà sono tutti contenti a vedermi mangiare e un piatto di cibo non sarà la loro rovina. Gliene sono grato e basta. È interessante notare che qui a Pangboche sono ricomparse improvvisamente le posate, assenti fino a Salleri. Forse è dovuto alla scarsa disponibilità di acqua corrente, sia qui sia a casa di Zomba. Ancora una volta funghi freschi, più riso, patate e un buon sugo per condire, ma senza spezie. Qui non cresce il peperoncino e tradizionalmente si importa poco più che il sale e le granaglie, quasi indispensabili.
Mentre finisco questo piatto gustoso inizio a comprendere perché stiamo mangiando solo in pochi. Un gruppo di baldi giovani ha messo mano ad una pila di sacchi di riso e sta scendendo per distribuirli a tutti. I ragazzi di prima mi hanni spiegato che ogni sera, per quattro giorni, ogni famiglia riceve una misura di riso per ogni membro. La misura è un recipiente di ottone che contiene un chilo di riso o poco più, usato per travasare il riso nelle borse che ciascuno porta da casa. “Già, ma qui ci sono duecento presenti e la festa coinvolge tutta la valle, da Tengboche fino a Chukkung, chi paga per tutto il riso? Il monastero?” No, non è il monastero, ma le famiglie degli organizzatori, quelli con il cappello da cowboy. C’è un libro mastro qui al monastero, dove le famiglie della valle sono distribuite in diciotto gruppi, cosicché ogni anno ce ne sono cinque o sei che offrono il riso a tutta la valle. Per i successivi diciassette anni riceveranno riso, fino a che toccherà di nuovo a loro. Questa usanza mi lascia sbalordito, è veramente bella come iniziativa, impensabile da noi.
Attorno a me c’è il delirio, una coppia di giovani manovra ogni sacco e scarica riso a più non posso, contando le misure versate, mentre tutti quanti gridano “sowl-sowl! sowl-sowl!” al ritmo di oooh-issa! oooh-issa!
Si pronuncia soul, ma si scrive chawl e significa riso, me lo ha insegnato Zomba stamattina. Vanno avanti così finché, per concludere, si distribuisce qualche manciata di riso in mano ad alcuni e altri attingono ad un vassoio pieno di farina e di strani semi pergamenacei (delle grosse sàmare, per i botanici). Tutti aspettano il segnale, poi gettano tutto per aria al grido di “Chawl! Chawl! Chaaaawwl!”
È finita, sono le dieci ed è già finita. Dov’è Zomba? Fuori dal tempio non c’è, da sua sorella, non c’è, quindi forse è gia a casa che dorme. Vado sotto casa sua a chiamare, svegliandolo.
Lui e Kami Doma si preoccupano di chiedermi se ho fame, ma secondo me è meglio se andiamo tutti a letto, in questa stanza a soqquadro. Da una parte c’è un lettuccio corto, con accanto una sorta di lungo pianale con due panche addossate a mo’ di sponda, che secondo me potrebbe accogliere due di noi, se sto leggermente rannicchiato. Tanto io non dormo lungo disteso, che problema c’è? Il problema c’è invece, non c’è verso di dormire in due qui, loro staranno fianco a fianco nel letto di procuste e io userò questo letto, dove di solito dorme Kami Doma. Non è il caso di continuare a insistere, li lascio fare e mi rintano a scrivere sotto il doppio sacco a pelo.
A parte il piccolo televisore a tubo catodico che c’è al centro, la stanza è arredata da questi letti pieni di coperte e da un grande scaffale stipato di sacchi a pelo pesati, piumoni, vecchie scatole, barilotti blu per il riso e le altre provviste, più un angolo dedicato alle immagini del Dalai Lama e altri oggetti sacri. Tutto è rigorosamente impolverato e annerito dal fumo, infatti la parte in alto dello scaffale è piena di roba vecchia ancora più vecchia, le coperte sono in basso.
Da ultimo metto in carica il cellulare e dormo anch’io.