Lezione di ieri: non tutte le montagne sono posti sicuri e tranquilli.
Giovedì 07/07/2022 Sanasà (Solukhumbu, Nepal)
Gli uccellini, il sole tra le foglie, un leggero venticello e il calduccio del sacco a pelo. Adesso sì che posso scrivere, mentre valuto che cosa fare oggi. Ho mal di testa? No. Sono appena più su dell’altezza di Namche e in teoria per oggi era previsto un giorno di riposo, tuttavia la tappa successiva si trova solo 300 metri sopra a dove mi trovo adesso. Con lo zaino che ho non è male spezzettare le tappe in mezze tappe, sfruttando i giorni di riposo. Inoltre io sono stato quattro notti sopra a 2000, mentre i tempi del trekking sono pensati per chi arriva direttamente da Kathmandu. In più Dushek, ha detto che a Tengboche c’è segnale internet, devo elencare altre buone ragioni?
Rimetto insieme lo zaino cercando di non calpestare lo spesso tappeto di muschio verde brillante che cresce sul pendio.
È tutto pronto, ma mettendo lo zaino in spalla genero una vibrazione o forse un’onda gravitazionale, sufficiente a compromettere l’equilibrio perfetto del pentolino appoggiato su un tronco. Cade, rotola, si apre, sparge il contenuto e prosegue nella folle corsa, infilandosi tra due massi e tirando dritto verso il sentiero, oltre il quale la china boscosa si estende verso valle fino al torrente sottostante, centinaia di metri sotto. Dopo un attimo non lo sento più, è sparito nel folto degli alberi. Raccolgo il coperchio l’uvetta, le arachidi e il cucchiaio e scendo con cautela sul terreno ripido, fino al sentiero. Poso lo zaino e corro giù per cinquanta metri in cerca del pentolino, che molto probabilmente ha saltato il sentiero grazie alla rampa situata a monte. È perduto, non c’è! Come faccio a ritrovarlo qui, tra le pietre grigie i ciuffi d’erba e i cespugli? E se si fosse ammaccato molto? Ma soprattutto, si è portato via l’ultimo pezzo di formaggio!
Ho appena trovato una ragione per restare qui oggi, cercare il pentolino. Cammino in su perché con il fiato corto non se ne parla di correre in salita. Riprendo le ricerche dall’alto, cercando di immaginare la traiettoria balistica di un pentolino rotolante. A monte del sentiero non c’è, perciò è dall’altra parte, potenzialmente ovunque. Mi guardo attorno, cercando di rilassarmi per superare l’eventuale perdita e poso lo sguardo su un oggetto nero e tondo, ai piedi di un masso. È decisamente più a sinistra di dove credevo, ma è proprio lui, con accanto il mio pezzettino di formaggio. È salvo! Non solo non ha neanche un’ammaccatura, ma è ancora tondo come il coperchio. Grazie Tatonka, che fai delle gavette di qualità!
Parto con il morale alto come queste montagne, scrutando la salita che mi aspetta tra poco, gradini ripidi da fondovalle fino a Tengboche (tengbogé), per cinquecento metri di dislivello.
Giù giù giù, ponte sospeso e poi si sale, poco alla volta si fa, nessun problema. Ogni poco mi fermo a riposare, così ben presto incontro un portatore stracarico di cibo. Ci fermiamo per riprendere fiato e in mezzo inglese e mezzo nepalese iniziamo a fare conoscenza.
Lui si chiama Rashdam (Rasdam, niente acca) ed è partito ieri da Namche Bazar, diretto proprio a Tengboche. Nella cesta che ha sulla schiena trasporta il dolce peso di 20 chili di riso con impilati sopra 25 chili di legumi e ai lati due scatoline da 15 chili ciascuna, d’olio di soia. Cammina con delle scarpe da tennis, a differenza di molti suoi colleghi che girano in ciabatte. Rashdam ha 49 anni e lavora come portatore da diciotto, con tre figli da mantenere, i quali hanno sei, otto e dieci anni. Viene da lontano perché il suo paese si trova a tre giorni di cammino a valle di Namche, per questo ci torna molto raramente e non passa da casa da cinque mesi, così può guadagnare abbastanza. Mentre chiacchieriamo sfila dalla cesta un sacchetto e un cucchiaino di metallo, per fare uno spuntino. Nel sacchetto ci sono noodles sbriciolati, riso tostatp come quello che ho io e un misto di peperoncino, paprika e altre spezie. Se ne rovescia in mano una cucchiaiata e mi offre il cucchiaino dicendo “Cibo del portatore”. Ora so che cosa fare con tutto il riso che ho comprato, aggiungendo un po’ d’olio come rinforzino, mi mancano solo un po’ di spezie per condire.
Ah giusto, non ho menzionato la paga di questi portatori, che riforniscono a piedi tutta la valle. Sono ben più economici degli elicotteri, che pure sono molto indaffarati in questi giorni, salgono e scendono molte volte al giorno. Rashdam viene pagato 30 rupie al chilo per portare questo carico ieri e oggi, il ritorno invece è gratis. 30 rupie sono circa 22 centesimi di euro, quello che guadagnavo io in due minuti di lavoro da operaio. Per fortuna quando torna a Namche ha un altro carico che lo aspetta, e spero che prima o poi a casa ci torni. È ora di rimettersi in cammino, lui indica me e poi se stesso dicendo “Insieme?”
“Insieme.”
Saliamo passo passo, riposando di muretto in muretto, tallonati da un portatore di legna che tiene in equilibrio sulla schiena undici travi 240x10x10cm, dieci parallele e una in obliquo per tenerle ferme. Cammina piegato in due, sorreggendosi con un piolo di legno cortissimo e due polpacci erculei. Ecco, quelli sono cento chili. Incredibilmente, quell’uomo ai piedi ha un paio di Croc, per la gioia di Forack, che ne è un gran cultore e ora potrà dire di avere delle calzature Sherpa.
Al cospetto di questi due piccoli uomini così tenaci, il mio zaino è un nonnulla, ho solo la scusa della quota per giustificare la mia lentezza. Verso la fine del pomeriggio arriviamo in cima al pendio boscoso e ci salutiamo perché Rashdam prosegue un po’ oltre. Io nel frattempo vengo richiamato dal proprietario di un ostello in corso di ampliamento, colui che ha commissionato il carico di assi. Mentre mi concede la password del wifi, mi invitano caldamente ad andare a campeggiare altrove, sottolineando che anche quel turista inglese trovato impiccato qui vicino aveva con sé una corda come la mia.
Credevo di essere arrivato, invece mi tocca proseguire fino a Deboche, chiedendo ai due ostelli aperti dove posso campeggiare. Questi si rimbalzano le responsabilità e quindi decido di fare a modo mio, andando a imboscarmi qui nelle vicinanze.
Poco dopo incontro Rebecca, australiana, madre di un bambino di otto anni. Suo marito al momento non è qui, ma sta per raggiungerli, nel frattempo madre e figlio sono in viaggio verso il campo base dell’Everest, accompagnati da una guida americana. Rebecca e il marito stanno per trasferirsi qui in Nepal, dove diversi beni e servizi costano meno che in Australia.
Le racconto della brutta aria che tira a Tengboche, perciò Rebecca mi raccomanda di passare dal proprio albergo domattina, per confermare che sono ancora vivo.
Ci salutiamo e mi avventuro con circospezione nel boschetto dietro agli ostelli, che mi pare il punto meno ovvio in cui campeggiare. C’è una piattaforma a strapiombo sul torrente che sembra perfetta per gettare giù i turisti e derubarli così mi allontano nella pineta. Giroovagando, trovo infine la buca in cui vengono gettati i rifiuti non compostabili di Deboche. Di tutto il posto che c’è, nessuno campeggerebbe qui, perciò installo l’amaca qui dietro un macigno. Spengo la torcia e mi defilo nelle tenebre del sacco a pelo, sotto un cielo nuvoloso e senza luna. In sottofondo c’è lo zampillo di una fonte che gorgoglia in una vasca d’acqua, a pochi metri da me. Quella vasca sarebbe perfetta per annegare i turisti e derubarli.
Buonanotte.
Ho sentito un rumore! No, è lo stesso gorgoglio di prima, non c’è nessuno qui.