Giorno 5 – Un cibo speciale

Lezione di ieri: È bene avere con sé un po’ di zuccheri semplici, per risolvere al volo i cali energetici.
Mercoledì 06/07/2022 Jorsalle (Solukhumbu, Nepal)
Oggi mi alzo davvero con la sveglia, alle 4:40. Sono troppo vicino all’ingresso del parco per continuare a dormire in tranquillità. Stanotte ho avuto quella simpatica sensazione in fondo al palato di quando mi sta per venire il raffreddore. Mi sembra ottimale per iniziare un trekking, ma poi come ho fatto a prenderlo che sono stato praticamente da solo? Fa lo stesso ormai è arrivato e passerà.
Mi dispiace un po’ svegliare il buon cane che mi ha fatto compagnia fino ad ora, mentre continua a sonnecchiare nonostante il rumore che faccio.
Rimossa la corda posso fare le cose con calma, non ci sono prove che abbia dormito qui. Un istante dopo passa un portatore, che non mi nota perché cammina a testa china a causa del peso. Qui per portare grossi carichi non usano gli zaini, ma una gerla di vimini sostenuta da una fascia che passa sulla fronte. Per non strapparsi via la testa dal collo, camminano a testa china con il peso distribuito sulla schiena, non sul bacino. Il secondo escursionista che passa mi fa dei gesti per chiedermi dove vado e non dice niente. Gli rispondo a gesti e lui se ne sta lì, forse vuole aspettarmi. Non lo so, ma mi manca ancora mezz’ora per essere pronto e lui non sembra essere molto loquace.
Quando siamo pronti partiamo, io e il cane, piano piano su per il sentiero che porta a Namche. Tutti quelli che incontriamo mi chiedono se è il mi cane e la risposta li sorprende non poco. Nel punto di sosta dal quale si vede l’Everest ci fermiamo a lungo per lavare la maglietta di questi giorni, che come si può immaginare è uno schifo. L’Everest proobabilmente si vede davvero tra gli alberi, ma non sono affatto sicuro di quale delle tre cime sia. È ancora molto lontano comunque. Mentre mangio arachidi, il cane trova chissà come un grosso omero da sgranocchiare, che pone fine alla sua evidente noia.
Il nostro viaggio insieme dura ancora mezz’ora, quando incontriamo una coppia di escursionisti con una cagnolina. Mi fanno i complimenti per il mio cane, il quale decide di cambiare partito e mi lascia al mio destino, comprensibilmente.
Gradini, pausa, gradini, pausa, gradini, Namche! La città assolata è semideserta, anche se i negozi sono tutti aperti. Gli edifici hanno le facciate in pietra e sono distribuiti su un dislivello di oltre cento metri. Ristoranti, alberghi, negozi di attrezzatura da montagna a non finire, per chi si è dimenticato qualcosa a casa. Scorgo due forme di formaggio di yak, una è tagliata e rinsecchita, l’altra immagino che sia altrettanto antica. Meglio aspettare e comprare il formaggio dove lo producono.
Passo passo risalgo Namche Bazar fino a una grande ruota buddista che proietta un minimo di ombra. Il programma del trekking ufficiale prevederebbe un giorno di sosta e acclimatamento a 3500 metri, ma io sono appena partito. Per mantenere il mio vantaggio posso barare, salire e ridiscendere fino a Samana (Samaná, qui si accenta sempre l’ultima vocale), che è alla stessa quota ed è quasi a Tengboche, la prossima tappa.
La giornata è perfetta, continuo a scottarmi il naso sotto il sole, su un sentiero che finalmente ha assunto una pendenza accettabile e una vista ottima. Va tutto bene, finché supero una gobba e “Porca…ehm, miseria!” Là in fondo, molto molto alte, molti bianche e molto vicine, ci sono tre montagne smisurate, che si stagliano sul verde scuro delle montagne, con solo un piccolo accenno di pietraia alla base. Mi fermo ad una fonte insieme ad un signore che è a spasso con il nipote. Mi chiede incuriosito che cosa c’è nel pentolino e afferma: “Dai un po’ di arachidi al bambino.” Eseguo l’ordine, mentre guardo le guance ustionate del bambino, spelacchiate e con qualche crosta. Non sono l’unico a scottarsi da queste parti, a quanto pare.
Raggiungo Samana molto presto, così preparo un altro po’ di muesli. Mi sembra il momento giusto per chiedere se c’è il wifi e anche se c’è il formaggio. Il formaggio è quasi finito, ma dal quarto ammuffito che c’è in frigo buona parte si può mangiare. Ne compro quattro assaggi, cento grammi per duecento rupie. Mi sembra una follia in rupie indiane, ma in rupie nepalesi ha perfettamente senso. Mentre taglia me ne dà un assaggio, e qui bisogna fornire un po’ di contesto per spiegare di che cosa sa. L’ultima volta che ho mangiato un formaggio stagionato ero a Kars, in Turchia, era il 25 gennaio ma quel gruviera non mi è rimasto particolarmente impresso, no no. Il khaCHaPuri era buono eh, ma fatto con un formaggio fresco. Anche il formaggio di Ganja tanto caro a Kamal era speciale, ma molto diverso da quello che intendo io quaando penso al formaggio. Inoltre sono cinque giorni che mangio poco cibo, dolciastro e insipido. Improvvisamente arriva in bocca un sapore a cui non pensavo più, non sa certo di Turchia ma sa di casa, sa di quando c’erano i supermercati con un intero banco pieno di formaggi. Sa di casa, è buono come sono alte queste montagne! È mai possibile che in Asia sappiano stagionare il formaggio solo sopra a 4000 metri?
Ho iniziato a scribacchiare qualcosa, ma forse è meglio chiedere di ricaricare il telefono e fare due chiacchiere con i proprietari dei tre ostelli qui intorno. Al momento sono tutti impegnati in chiacchiere, ma mi offrono una tazza di tè. In tutta onestà, devo dire che ci avevo sperato. Mentre loro sorseggiano e chiacchierano, io sorseggio e rammendo. Devo riparare le calze che iniziano ad acere altri buchi, e già che ci sono raccomodo anche la giacca, che ha da anni uno strappo interno. Un uomo che chiamerò Dushek (la h è quasi muta in Nepal) mi chiede come ho imparato a cucire. “Per imparare ho fatto pratica da solo perché mi piace costruire oggetti, ma all’inizio mi ha insegnato la nonna.” È stato quando ho costruito l’amaca da portare in Sardegna per il Viaggio dell’Immaturità, con i compagni di classe. Da qui prendo spunto per farmi raccontare dei suoi figli, che vivono a Kathmandu e ormai si sono stabiliti là. Poi accenniamo agli escursionisti scomparsi e vengo a sapere che uno di questi è stato ritrovato. Era appeso ad una corda nel bosco vicino a Tengboche. Ufficialmente si è suicidato, ma qui pensano che qualcuno lo abbia suicidato. È come nei film, all’inizio è un suicidio poi arriva il tenente Colombo a cavare il ragno dal buco. Non solo, qui hanno avuto diversi furti ed è per questo che la valle è tappezzata di lucchetti. Sono chiusi a chiave anche i bagni, che sono letteralmente cinque pareti di lamiera, una turca di ceramica e un secchiello con l’acqua. Era rimasto un mistero, fino ad ora. A quanto pare qui hanno subito alcuni furti con scasso, perciò non dormono da soli e stanno sempre all’erta. Nonostante questo amano questo luogo e sono felici di viverci. Nel frattempo mi rabboccano la tazza di tè mezza vuota, come si usa fare da queste parti. Mi piace perché qui riempiono i bicchieri come li riempio io, poco sotto l’orlo. Così si fa, bravi.
“Ma scusa, quelle duemila rupie che ho pagato come “permesso locale” vengono davvero destinate alla popolazione locale o no?” Fino a quattro o cinque anni fa non ricevevano niente, ma negli ultimi anni il governo ha smesso di intascarsi tutto e sono stati stanziati dei fondi, ad esempio per la manutenzione dei sentieri. Il cemento e i corrimano che ho visto venendo qui parevano nuovissimi, e non a caso.
Sembra che stia per piovere, così ci salutiamo e chiedo dove posso campeggiare. Dushek è sorpreso e mi avverte che ci sono i leopardi, oltre che i serial killer che impiccano la gente. Io lo vedrei volentieri un leopardo delle nevi, ma so già che è un incontro talmente raro che sarà impossibile.
Vado dove mi consiglia Dushek, cento metri più avanti ci sono dei massi tra i quali posso campeggiare. Trovo un punto molto ben nascosto per montare la mia casa e sdraiarmi a riposare nella piacevole temperatura dei 3700 metri di quota, dove ci sono quindici gradi, perfetti per il mio sacco a pelo. Difficile non addormentarsi presto, ma almeno un po’ riesco a scrivere. Mangio anche gli ultimi due pezzetti di formaggio? Solo uno, l’altro è meglio lasciarlo per domani.

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