Giorno 15 – Non sono da solo

Lezione di ieri: il letame va bruciato insieme alla legna.
Sabato 16/07/2022 Dzonglha (Solukhumbu, Nepal)
Sono scomodo a scrivere, come al solito se sto su un fianco mi si addormenta il braccio. Nel sacco a pelo a mummia si può usare il cellulare solo così, altrimenti è troppo vicino ala faccia. Lascio perdere e decido che è meglio mettere per iscritto i pensieri che mi affollano la mente questa sera, che poi in verità è una notte. Ripercorrendo i ricordi ho messo in fila i samaritani che mi hanno raccolto per strada, offrendomi un pasto caldo e un letto. Metto per iscritto qualche pensiero riassuntivo, trasversale alla semplice cronaca giornaliera. Facendo un parallelo con i Diari della Motocicletta, il giornale qui presente è il diario di Alberto Granado e il taccuino cartaceo è il diario di Che Guevara. Uno narra, mentre l’altro ragiona. È la seconda volta che scrivo qualcosa a mano e alla fine del momento epifanico decido che lo pubblicherò, creando una copia di sicurezza. Si sa che l’inchiostro è vulnerabile alla pioggia.
(Rileggendo, qualche frase suona decisamente presuntuosa, ma mi è uscita così del tutto senza volere. Non sono convinto che si capisca perché tendo ad essere decisamente ermetico, ho anche dei dubbi se pubblicarlo proprio così com’è. È un flusso di pensieri disarticolati abbiate pazienza. Semplicemente, tenete quello che vi sembra buono e gettate via il resto.)

“15/07/2022 21:43 DZONGLHA (NP)
4830m slm – 11°C – 0 kts, Poche stelle

Speravo di poter scrivere di più l’ultima volta, ma è arrivato il camion del sale. Questo nuovo impeto di scrittura mi è stato dato da una ragazza daneseche tiene un piccolo diario di viaggio dipinto ad acquerello. Ora sono in tenda con una temperatura di gran lusso e ho la testa piena di pensieri. Sto pensando a quello che ho imparato viaggiando, mi è risultato evidente ancora una volta parlando di viaggi con la famiglia danese e con Chung Yang. Solitamente si vede un volto diverso dei paesi visitati: si prenota, si paga, si ottiene e si ringrazia. A volte si paga una parte e si riceve il resto gratis.
Ora viene il bello, l’impressione di chi viaggia alla ventura, di chi a un certo punto capisce come ragionano gli uomini e cerca quel contatto, anche non inconsciamente. Lo cerca perché è qualcosa di nuovo, di magicamente bello. Sto parlando dell’altruismo di chi ferma la macchina perché ti vede per strada, poi magarisi ferma e ti offre da mangiare. Mi riferisco a chi ti vede per strada e ti chiede se hai bisogni di aiuto, oppure ti invita a casa propria senza pensarci un attimo. Ma in special modo ho l’impressione di essere stato ospitato varie volte da persone che per strada o sulla soglia di casa non hanno visto un viandante squattrinato e straniero.
Loro hanno visto Dio.
Non è questione di essere religiosi, perché ho il forte sospetto che qui si stia parlando della natura umana. Natura umana e cutura. C’è voluta una guerra in Europa per farci ricordare dell’ospitalità, a noi che siamo italiani sorridenti e con la pizza.
Viaggiare non è solo mangiare cibo diverso o vedere paesaggi diversi, facce diverse. Può esserlo, ed è meraviglioso, ma viaggiare, il mio viaggiare, è imparare a vivere.
È imparare dei valori e dei comportamenti che se fossero noti a noi occidentali che esportiamo valori abitualmente, farebbero del mondo un giardino dell’Eden. La corruzione? Certo che c’è la corruzione, ma io sto parlando delle relazioni tra esseri umani, minate dalla diffidenza e dall’egoismo. Forse un certo grado di diffidenza e di egoismo possono andare bene, lasciano in minimo di spazio vuoto intorno a sé, un cantuccio per realizzare i propri sogni. Io sono qui anche per egoismo. Forse la parola che cerco è indifferenza, l’indifferenza ci ha reso dei bruti. Investiamo cinque euro al mese in carta igienica quando il resto dell’umanità non la considera nemmeno. Certa gente se avesse in mano quei cinque euro farebbe un salto alto così. Alcuni andrebbero a comprare un’altra bottiglia d’alcol, ma è per questo che non mi piace dare denaro. Scherzi a parte, davvero non possiamo dare di più, anche solo come gesti sporadici, non deve essere una donazione a vita.
Per ora sono solo uno scroccone poliglotta, magari anche simpatico, ma uno scroccone. Riuscirò mai a restituire tutto questo? Non lo so, almeno resterà traccia di questi pensieri, di questi incontri, così che qualcuno possa farne tesoro anche solo leggendoli.
Shuba ratri. Khushi gumne!”

Molto bene, ora posso tornare a scrivere il giornale per poi dormire un paio d’ore prima che faccia giorno. Fuori piovvigina.

Suona la sveglia sotto la tenda ed esco intirizzito a guardare la montagna, ancora grigia e sfocata per via dell’oscurità. Bisogna che inizi subito a rifare lo zaino perché quel diavolo di un Chung Yang è capace di essere pronto con uno schiocco delle dita, non voglio che parta senza di me. L’unico problema è che il telo blu è fradicio e parzialmente congelato. Vorrà dire che porterò a spasso per l’Himalaya un altro po’ di peso extra, buono per tenermi in esercizio.
Chung Yang per fortuna è in ritardo, ma esce giusto in tempo per assistere alla meraviglia della stessa alba cristallina di ieri. Alle sette siamo pronti a partire, entrambi in perfetto ritardo. Salutiamo i vitelli di yak e la mandria, allontanandoci di buon passo. Finito il prato attraversiamo un ampio ruscello per poi attaccare la salita vera, che supera uno scalone di roccia per arrivare al piano di sopra della montagna, nella valle sopraelevata dove si trovano i resti del ghiacciaio di Cho La. Io ormai sto grondando sudore e devo anche fermarmi a riprendere fiato. A questa ennesima sosta il mio compare decide di proseguire e aggredire la salita da solo.
Ora che sono rimasto indietro ce la metto tutta per riprenderlo, ma quel diavolo di un Chung Yang non demorde ed è già distante cento metri, di quota. Una volta rimontata la scalinata che porta alla valle sopraelevata, mi trovo a camminare nell’impronta del ghiacciaio, che ha grattugiato le pareti di roccia lasciando un segno profondo a indicare quante decine di metri di ghiaccio ci fossero prima. L’acqua e il sole non mancano, ma lo scioglimento è stato così repentino che le piante hanno appena iniziato a colonizzare questo ambiente inospitale. Ma dov’è il ghiacciaio? Quando inizio a perdere le speranze finalmente lo vedo, rintanato sul bordo della conca, all’ombra di una cresta di roccia. Chung Yang deve aver rallentato e sta montando sul ghiaccio proprio adesso. Io vorrei raggiungerlo subito, ma non posso esimermi dal fare una visita alla grotta che si sta formando sotto al ghiacciaio in scioglimento. Quel corridoio biancoazzurro e ondulato sembra la porta verso un altro mondo, anche perché le gallerie nel ghiaccio sono effettivamente aliene e magnetiche. Percorro pochi metri su una cornice di ghiaccio e osservo l’interno della spaccatura, prima di metterci piede. Dal soffitto sgocciolante pendono delle lunghe stalattiti, mentre il pavimento ha un aspetto strano e ha a sinistra una profonda fenditura. Picchio il bastone sul ghiaccio, generando un rumore sordo che svela il trabocchetto. Guardando meglio oltre il ghiaccio e le bollicine d’aria, questo pavimento è in verità una mensola spessa tre dita e larga mezzo metro, così sprezzante della gravità da essere cresciuta in orizzontale. A destra è spesso, a sinistra è sottile e con il caldo che fa è tutto bagnato, posso solo allungare il collo e fare finta di esserci entrato.
Riprendo lo zaino, salgo sul ghiacciaio e parto con decisione verso Chung Yang, che si è fermato a fare qualche video. La superficie del ghiaccio è ancora dura e scabra, quindi fanno presa persino le mie suole in vibram completamente lise. I tacchetti centrali dell’avampiede e del tallone sono già scomparsi, gli altri ad un esame attento si vedono ancora. Recentemente nel cuoio della tomaia si è aperto uno strappo laterale, proprio là dove flette di più. Queste scarpe però vengono con me fino in Nuova Zelanda, mi aspettavo che durassero due anni quindi mezzo giro del mondo è il requisito minimo.
È la prima volta che cammino su un ghiacciaio vero e proprio e me lo aspettavo decisamente più liscio. Invece, a causa delle bolle d’aria e dei detriti scuri, la superficie si scioglie in modo disomogeneo e resta ruvida perché l’acqua defluisce velocemente attraverso canaletti di scolo dritti, che spesso si intersecano tra loro e col tempo tagliano il ghiaccio come una lama. Lungo la via c’è una manciata di cartacce sparse, per dare al luogo la giusta atmosfera nepalese.
Arrancando, raggiungo Chung Yang, così ci facciamo qualche foto e video commemorativi, in piedi su questo granello bianco in cima alla valle. Anche Cho la sembrava un passaggio terribilmente difficile, invece io non sto capendo quale sarebbe il problema. Sicuramente quassù vengono anche molti montanari improvvisati, che facendosi male hanno reso malfamato questo trekking. Ci fermiamo tra le bandierine della cima, per riposare e fare uno spuntino. No, giusto, le cose sono tre: riposare, spuntinare e raccattare lo schifo lasciato dai sedicenti amanti della montagna, che a me sembrano più amanti del circo per via delle loro scarpe lunghe e della pallina sul naso. Mentre osservo intorno a me il danno prodotto da quei maiali, avviene un miracolo. Davanti ai miei occhi commossi, Chung Yang sta raccogliendo l’immondizia, come se gli importasse qualcosa della montagna e degli altri escursionisti. “Chung Yang, che cosa hai studiato all’università?”
“Econimia e management.”
“E ti importa qualcosa di tenere pulita la montagna? Davvero?” Ebbene sì, non sono da solo. Scendiamo dalla scalinata Ovest, raccogliendo confezioni, bastoncini di alluminio, ramponcini, e altri oggetti estremamente pesanti che avrebbero certamente ammazzato di fatica i villani che li hanno abbandonati quassù. Il pezzo migliore è senza dubbio una confezione di occhiali da sole, evidentemente aquistati da uno yeti ambulante. Sono occhiali da sole di un’azienda che ricicla la plastica dispersa in mare, perciò chi li ha comprati ha gettato via la confezione, per compensare. Rido, che altro posso fare qui al circo? Prima di accartocciarla la faccio leggere a Chung Yang, così si fa due risate anche lui.
Sono ancor più grato al mio socio perché un uomo solo non avrebbe potuto pulire il sentiero. Se fossi stato da solo avrei lasciato perdere perché di cartacce ce n’è a dozzine. In Asia ce ne sono troppe e ormai ci ho rinunciato, ascoltando il consiglio di Virgilio. “Fama di lor il mondo esser non lassa, misericordia e giustizia li sdegna, non ragioniam di lor, ma guarda e passa.”

Inizio della rubrica dell’ecologo

Esatto, è andata a finire così, l’Asia mi ha piegato sotto il peso del proprio pattume. Mi appare più chiaro solo ora che lo scrivo a distanza di mesi, rendendomi conto che devo riflettere a lungo e prendere contromisure per non cedere. Nel mio campo è facile mollare, a forsa di incassare colpi da un’umanità incurante e irrispettosa dei beni comuni. È quello che è accaduto alla Laura Airoldi, la prof del corso sugli ecosistemi antropizzati. In un giorno di particolare scoramento ci ha rivolto un appello a realizzare ciò che per lei è stato impossibile. All’inizio della propria carriera andò a fare ricerca sulla barriera corallina di una piccola isola del Sudest asiatico, se ben ricordo, meravigliosa e brulicante di vita marina. Dopo tanti anni di attività di studio, rallentata dalla burocrazia e dalla carenza di fondi, è ritornata laggiù una seconda volta. Non ha trovato più nulla, solo acqua cristallina, sabbia bianca e alberghi a cinque stelle. Ancora oggi porta i segni di quel trauma che le ha spezzato il cuore, sbattendole in faccia la dura realtà. Durante trent’anni di sforzi per preservare il mare, il luogo più bello che abbia mai visto è stato brutalizzato fino a diventare un deserto. Forse ciò che le ha fatto peggio è sapere che i turisti in fondo preferiscono la sabbia morbida e l’acqua turchese, piuttosto che i coralli appuntiti e le isole selvagge. L’ideale di paradiso tropicale sono le spiagge delle cartoline, con l’acqua turchese e sterile, la sabbia pulita e senza alghe spiaggiate. Laura Airoldi si augura ancora che almeno i suoi studenti riescano a invertire questa tendenza distruttiva, ma sa fin troppo bene quanto sia facile restare intrappolati dall’indifferenza dei governi, nella giungla dell’indifferenza generale. Quell’ora di lezione mi ha molto colpito e spaventato anche. Se di colpo ti accorgi di essere invecchiato, spendendo trent’anni di sforzi senza successo, che cosa ti resta? Solo la speranza, ma che te ne fai della speranza, a parte usarla come cerotto?
Prima ancora di lanciarsi nel tentativo di cambiare lo status quo, bisogna capire come incassare colpo su colpo senza cedere mai. Da allora cerco di capire e di trovare una soluzione in anticipo, perché la rassegnazione sarebbe una sconfitta troppo grossa da sopportare. Sperimentarla in anticipo probabilmente aiuta a superarla prima della crisi di mezza età, che è micidiale. Nel frattempo bisogna trovare la chiave della resilienza, per affrontare la vita a muso duro.

Fine della rubrica dell’ecologo.

Superiamo un paio di colline erbose, scendendo verso il paesino di Dragnag. Cento metri prima di arrivare passiamo accanto a tre grossi uccelli della famiglia dei fagiani, tondi e scarsamente mimetici per via della stazza e di una stria arancione brillante dietro gli occhi. Sono tetraogalli del Tibet, talmente protetti da essere diventati tonti. I primi due si tengono a distanza, spostandosi a razzolare più in là. Il terzo ci vede arrivare quando siamo già a due metri, perciò si immobilizza e poi si allontana a passi lentissimi, convinto di essere invisibile. È alto il doppio delle pianticelle verdi della brughiera ed è completamente di un altro colore, in più si sta anche muovendo. Se non fosse una specie protetta lo avremmo già perduto da un bel pezzo.
Risaliamo una ripida collina morenica, raggiungendo infine il ghiacciaio Ngozumba, da attraversare in diagonale. Sarebbe cosa facile, se non fosse ridotto peggio del ghiacciaio Khumbu, butterato come la superficie della Luna. Siamo costretti a zigzagare sulle creste di pietre che circondano le conche ripide e circolari che espongono il ghiaccio bruno alla luce del sole. Plunf! Una pietra rotola giù dal bordo fino al laghetto centrale, torbido e grigio per via dei sedimenti finissimi in sospensione. Si sale e si scende, seguendo la pista tortuosa dei muli, fermandoci a contemplare le pietre che ruzzolano giù, ipnotiche come il fuoco di un camino. Improvvisamente faccio un balzo indietro: “E questo che diavolo è!?” Non è un serpente a sonagli, ma un insetto multicolore di notevole bellezza, se gli si perdona di appartenere all’ordine degli Emitteri. Gli Emitteri sono meglio noti come cicale e cimici; ecco, l’ho detto. È una stupenda cimice rossa a pois gialli e decorazioni nere, posata su una pietra che si trova al centro di un ghiacciaio largo due chilometri e sostanzialmente privo di vita. Spero almeno che sappia che cosa è venuta a fare qui, perché io giuro che non ne ho idea. Giulio è appassionato di Emitteri e per lui scatto un intero album di foto. Può darsi che sia un Cantao ocellatus, o perlomeno ci assomiglia molto. Ripartiamo di buon passo, di cresta in cresta, fino a costeggiare un laghetto di rara bellezza, profondo pochi metri ma cristallino e colorato di blu come se fosse un mare. Pur essendomi lavato a pezzi, non faccio un lavaggio completo da quindici giorni e mi sembra il caso di porvi rimedio. Sono tutte scuse naturalmente, i piccoli gesti memorabili rendono speciali le avventure, restando in sicurezza. Sono sufficientemente caldo e a stomaco vuoto da poter fare un bagno senza grossi rischi. Io e l’acqua di ghiacciaio ci siamo già conosciuti l’estate scorsa sulle Alpi valdostane e abbiamo fatto amicizia. Il problema è che, mentre sto estraendo dallo zaino il costume da bagno, faccio scivolare la gopro e lo sportellino della batteria si stacca e sparisce tra i macigni tondi. Mentre accetto la possibilità che sia rimbalzato due metri più giù infilandosi tra le fenditure, inizio a gettare via le pietre che riesco a spostare. Sono fortunato, lo so bene, infatti anche stavolta ho la soddisfazione di dileggiare Murphy con la mia solita espressione volgare e trionfante. Ancora una volta la sua legge è stata smentita, fiiiuf!
Chung Yang non è convinto di questa idea di fare il bagno e prosegue verso Gokyo, per non cuocere al sole. Visto che se ne va posso anche fare senza costume, tanto sulla montagna ci siamo solo noi due. Mi basta meno di un minuto per sguazzare nel blu e sciacquarmi vigorosamente, meglio non buttare via troppe calorie prima di affrontare il quinto dei sette passi del mio trekking. I bagno gelato mi ha rimesso a nuovo le gambe, così riparto di gran carriera all’inseguimento dello zaino arancione. Il sole a picco mi sprona a sbrigarmi prima di ustionarmi le braccia. Chung Yang ha risolto il problema con una giacca, un cappellino da baseball e uno scaldacollo tirato su a mo’ di cappuccio. Mi ricorda tanto la testa di E.T.
Risalgo la ripida morena laterale del ghiacciaio e mi volto a guardare il bombardamento alle mie spalle, immaginando com’era il paesaggio quando lo spazio tra le creste delle morene era pieno di ghiaccio. Lo stato in cui si è ridotto è impressionante, molti chilometri più a Nord si scorge a malapena ciò che resta del ghiacciaio bianco. Da qui in poi è tutta discesa fino a Gokyo, così raggiungo il mio socio appena prima che arrivi in paese.
Gokyo è decisamente piccolo, con i tetti rossi in netto contrasto con la collina verde su cui è stato costruito. Di fronte agli alberghi, un grande lago turchese che sembra smaltato, protetto dalla convenzione di Ramsar. Si tratta di un programma internazionale per la salvaguardia della biodiversità smisurata delle zone umide, che da millenni vengono bonificate perché considerate inutili e nocive alla salute. Basta un’occhiata per accorgersi di quanti uccelli diversi popolano questa zona, mai visti in due settimane di cammino.
Facciamo quattro chiacchiere mentre ci riposiamo, poi Chung Yang va ad accomodarsi in camera e io vago per il paese, cercando un punto soleggiato e riparato dal vento freddo. Devo scrivere ancora, così mi fermo davanti ad un albergo in riva al lago a sgranocchiare arachidi tostate e scrivere. Accanto a me c’è il proprietario, che dorme sdraiato sul selciato. Davanti ho un prato fiorito, il lago e un semicerchio di montagne che chiudono la valle. Quando il proprietario si sveglia mi siedo ad un tavolino insieme a lui, all’ombra del mio cappello a tesa larga. Continuo la scrittura, mentre un enorme cumulonembo si avvicina da Sudovest. Arriva quasi a coprire il sole, ma si infrange sulla muraglia verticale di Renjo La, cambiando direzione verso il Nord. Ecco perché piove così poco qui.
Quando cala la sera mi accampo, con permesso, proprio davanti all’albergo. È da due giorni che non do notizie a casa, così chiedo la password del wifi all’aiutante del proprietario, che non mi è stato d’aiuto. Si chiama Chun Dang (pronunciato Shundan) e inizialmente mi risponde che non può. Poco più tardi cambia idea, ma si raccomanda di non farne parola con il capo, altrimenti lui va nei guai. Quanto gentili sono i nepalesi, quanto? Entrato nella tenda dispongo le pietre negli angoli e mi do alle telefonate, parlando a bassa voce per non essere sentito. Sto al telefono per ore, prendendo sonno molto più tardi, quando già piovvigina.

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