Lezione di ieri: Si sta squagliando tutto.
Venerdì 15/07/2022 Dzonglha (Solukhumbu, Nepal)
Inizia già a far chiaro quando sguscio fuori dalla tenda, avventurandomi nella foschia ventosa di ieri sera. L’aria è immobile, rimango pietrificato e non riesco a recuperare la mia mandibola caduta per terra dalla sorpresa, abbacinata dal panorama. Anche l’aria è immobile. Dove ieri c’erano solo nuvole sono sorti due bastioni di roccia, smisuratamente alti. La parete verticale a Ovest, illuminata dalla luce radente del mattino, è interamente illuminata, non ha ombre. Sullo sfondo azzurro pastello sembra perfettamente bidimensionale, con contorni nitidi e precisi come se si potesse allungare la mano e toccare il quadro. Mi riprendo dall’ipnosi, prorompendo in una trafila di “No ma è incredibile!”, “Assurdo!”, “It’s devastante!” e altre espressioni similari.
Una volta appurato che non si tratta di un di un dipinto, ma è tutto vero, mi ritrovo da solo ad ammirare la vallata. Tutto quello che posso fare è scattare una foto e meditare su come la si possa descrivere degnamente a parole. Mi stampo in testa queste righe e nel cuore queste emozioni, per portarle con me nei prossimi tre mesi o magari per sempre. In quanto appassionato lettore trovo che una foto non giustifichi la grandiosità di quello che sto vedendo. Possono rendere l’idea, ma è molto meglio immaginare una montagna smisurata e dipingerla secondo il proprio gusto, in modo che sia impressionante.
Raccolgo le mie cose, trasferendomi nel prato davanti alla malga di Dzonglha. È il caso di lavare i vestiti alla fonte, perché le calze fanno assolutamente schifo. Già che ci sono sciacquo via dalle solette delle scarpe tutta la polvere dell’Asia. A forza di risciacqui, questi miei quattro stracci iniziano a sembrare più decenti. L’acqua è gelida e il sole cocente, un equilibrio perfetto per fare il bucato. Lascio i vestiti sul rocciastenditoio della malga, fermati con delle pratiche rocciamollette in modo che il vento non li porti via.
Visto che al sole mi scotto e all’ombra c’è freddo, l’albergatore mi lascia entrare senza problemi nel salone. Aspetto Chung Yang piè veloce, che tarda ad arrivare perché Kala Patthar è un osso duro da rodere. Scrivo, finché arriva un gruppo di escursionisti danesi con tanto di portatore al seguito, che viene subito congedato e ricompensato con una bella mancia. Mentre i portatori di legname e cibo vengono pagati una miseria, quelli che riescono a farsi ingaggiare dagli escursionisti riescono a raggranellare un centinaio di euro per ogni incarico. La cucina si attiva a pieno regime per preparare il pranzo ai nuovi arrivati, mentre io sgranocchio lentamente il rancio del portatore. Ho ancora del muesli, ma servirà dopodomani come bomba di carboidrati per salire Gokyo Ri e Renjo La in un giorno solo. Dalla cucina proviene un buonissimo odore di olio surriscaldato che irrita la gola. Stavo scrivendo, ma ora bisogna fare due chiacchiere con i danesi, scherziamo? Toh, è arrivata anche la pecorella smarrita: “Ciao Chung Yang!”
I danesi sono arrivati proprio da Renjo La e ci possono dare parecchi consigli su come affrontare la strada. Sono marito e moglie, insieme ai tre figli e alla fidanzata norvegese di uno dei figli. Hanno approssimativamente la mia età e la figlia sta dipingendo ad acquerello una nuova pagina del loro diario di viaggio, fatto di disegni, collage e brevi annotazioni. Grazie a lei che dà il buon esempio, mi rimetto a scrivere.
Fuori c’è ancora il mio bucato e il letame di yak a seccare al sole, così decido che è giunta l’ora di aggirare le regole del parco, sebbene non ci sia alcun controllo, in realtà. Bisogna usare i fornelli a gas perché è vietato cucinare sul fuoco di legna, ma non è stato specificato nulla riguardo al letame, perciò è giunta l’ora di imparare ad accenderlo. La mia curiosità nasce dalla lettura di un libro ambientato in nelle steppe della Cina settentrionale, dove la carenza di alberi impone di risparmiare la legna. Provo ad accendere il fuoco usando un pezzetto di cartone come esca, ma il letame mi risponde “Marameo!” Può sembrare una banalità, ma ogni combustibile è diverso. Ritento con qualche scheggia di legno raccolta nel giardino, ma non c’è niente da fare, è tutto troppo umido e c’è troppo vento. È chiaro che non si può accendere affatto, ma almeno posso farmi svelare il segreto dal proprietario dell’albergo, che ha appena acceso la stufa a letame. Ho il sospetto che i rametti di ginepro e il ciocco di pino che usava Zomba siano la chiave del segreto del fuoco. È proprio così infatti, dice il padrone di casa, il letame tende a bruciare a fuoco morto e serve una modesta quantità di legna per tenerlo acceso. Per giunta in questa stagione è difficile essiccarlo del tutto, mentre accendere il fuoco in inverno è di gran lunga più semplice. Imparerò un’altra volta dunque, ma i miei progetti culinari non sono ancora sfumati. Chiedo in cucina se possiamo arrostire sul fuoco a gas le mie arachidi crude. Gli offro anche parte delle arachidi come compenso, ma i nepalesi non contano il denaro e si accontentano di un assaggio e di un grazie.
Vado in sala ad offrirli ai danesi, così loro di ritorno mi versano una tazza di tè e latte. Aggiungo zucchero a palate, perché qualche caloria in più può solo far bene. Secondo me sto impazzendo, fare un trekking con il cibo razionato e offrire cibo agli altri è roba da matti, nella mia esperienza solo gli asiatici farebbero una cosa del genere. È quello che mi ha insegnato Ahmad quando eravamo all’università insieme ed è quello che fanno tutti quelli che incontro. Solo un maleducato mangerebbe da solo senza aver offerto agli altri di dividere il cibo. Che siano cioccolatini o un piatto di riso, la regola vale sempre. In generale la cultura europea è più individualista e pochi si comportano così. Niente di sbagliato, ma questa usanza asiatica mi piace di gran lunga di più.
A forza di chiacchiere, qualcuno domanda a Chung Yang da quanto tempo è in viaggio. Io pensavo che fosse un escursionista qualsiasi, invece quest’uomo è in viaggio da sei mesi. Non solo, negli ultimi cinque anni è stato in Sudcorea molto poco, lavorando come guida turistica in giro per i continenti. Ogni tanto si prende una pausa e va a camminare per un mese o due. In Corea del Sud sono particolarmente famosi il circuito dell’Annapurna, fatto, il trekking del campo base dell’Everest, fatto, e il Cammino di Santiago, fatto quattro volte. Ha percorso il cammino inglese, il cammino francese, il cammino portoghese e il cammino primitivo. Sciorina l’elenco con grande modestia, ma sorridendo davanti alle nostre facce esterrefatte. Stamattina ho deciso di passare un giorno intero in questo posto meraviglioso, così da scavalcare Cho La in buona compagnia. A proposito di compagnia, sono curioso di fare un sondaggio: che cosa ne pensano loro del fatto che in Asia la carta igienica sia virtualmente assente, sostituita semplicemente dall’acqua? Magari introduco l’argomento facendo un riassunto del mio trattato sulla progressiva semplificazione dei bagni tra Europa e Asia. Io ormai non uso la carta igienica neanche quando c’è, talmente sono abituato. Naturalmente per i miei interlocutori il viaggio in Nepal è stato più breve, ma qui nel bagno della malga ci sono solo un barile d’acqua e uno scodellino, quindi bisogna adattarsi, è inevitabile. “Che cosa ne pensate?”
“Penso di sentirmi più a mio agio con la carta igienica”, tutti concordano.
“Sì, ma qui la carta igienica non c’è, come si fa?”
“Ti porti la tua, suppongo.”
“Intendete dire che state trasportando su e giù per le montagne un rotolo di carta igienica?” A quanto pare sì, hanno nello zaino un rotolo di carta igienica, un oggetto che quassù mi sembra ancora più inutile della mia maschera da sub. Mi ero autoconvinto che visitare l’Asia portasse a considerare superflui moltissimi beni che per noi sono indispensabili, ma la realtà è ben diversa. In India sono diventato il più indiano possibile, ho anche pescato con il cloro. In Georgia sono diventato georgiano fino in fondo alla gola, tra consonanti eiettive e vino a garganella. Così in ogni paese, in ogni casa, come se fossi seduto ai banchi di scuola. Brucio le abitudini su una grossa pira e vedrò che cosa rinascerà dalle ceneri. A diventare abitudinari si fa sempre in tempo, da vecchi è facilissimo.
Ridendo della mia ingenuità e della loro carta igienica, esco a trasferire la tenda nel giardino della malga, su consiglio del proprietario. È appena rientrata una mandria di yak e nel giardino la mia tenda è più al sicuro. Questi yak sono di proprietà del governo, che paga alcuni pastori per badare al bestiame. “Vendete formaggio di yak qui?” È tutto il pomeriggio che rimando l’acquisto, ma è giunta l’ora di mangiarne un altro pezzetto. Tuttavia, il proprietario mi spiega che il formaggio di yak quassù non c’è. Tutto il latte viene spedito a Kathmandu e quello che si vende qui è tutto formaggio vaccino. Qui io che cosa ho mangiato la settimana scorsa? Non lo so, non importa, duecento rupie per un etto di formaggio le posso spendere. Sono fortunato, in cucina ne è rimasto solo un pezzetto un po’ vecchio: essendo tutto crosta, vinco due etti e mezzo di formaggio! Non faccio i salti di gioia solo perché la porta della cucina è bassa e non vorrei dare una testata.
Resto nel salone molto a lungo, scrivendo e scrivendo fino a tarda sera. Mentre raggiungo la tenda, mi incanto ad ammirare il cielo stellato, offuscato dell’umidità ma con le costellazioni ben evidenti sul cielo nero. È incantevole, ma è bene andare in tenda a riposare. Domani bisogna svegliarsi presto per raggiungere il ghiacciaio di Cho La di prima mattina, quando è ancora fragrante. Stanotte nella tenda c’è una temperatura ottimale, la definirei quasi tiepida. Dovendo pensare al giornale di viaggio, ho sfogliato per ore l’enorme archivio dei ricordi e il cervello è ancora attivo, ha accumulato un’inerzia inarrestabile e continua a lavorare. Non temo l’insonnia, la sfrutto piuttosto. Mi assale un bisogno forsennato di mettere per iscritto tutti quanti gli arretrati, vorrei sbarazzarmi di questo fardello prima che sorga di nuovo il sole, ma dovrei trovarmi al Polo Sud per riuscire nell’impresa. Da qui all’equinozio di autunno dovrei avere abbastanza tempo per finire.
Una volta accertato che stanotte non si dorme, mi siedo e riprendo a scrivere.
Che meraviglia questo articolo, così ricco delle tue emozioni!
Sono d’accordo con Te che le fotografie non possono rendere a sufficienza quello che vediamo con gli occhi. La nostra visione è tridimensionale e l’ampiezza del panorama non è paragonabile a quella di una fotografia, nemmeno se 3D. I colori, le sfumature e il contrasto che i nostri occhi percepiscono sono difficilmente riproducibili da noi poveri fotografi non professionisti.
Ma c’è dell’altro… ciò che vedono i nostri occhi è arricchito da ciò che percepiamo con tutti gli altri sensi… i profumi, i suoni e ciò che sentiamo attraverso la pelle. Tutto questo insieme crea un’emozione unica ed irripetibile. Quindi sì, una descrizione scritta può provare a farci vivere questa emozione, una fotografia no.
Un anno è trascorso proprio ieri 23 ottobre, quanta strada hai fatto, quante esperienze hai vissuto e quante emozioni hai regalato a tutti noi, tuoi assidui lettori!
Grazie!!!!
Ti abbraccio forte