Lezione di ieri: certi posti meritano di fermarsi a dormire, è inutile sottrarsi al dovere.
Mercoledì 13/07/2022 Kongma La (Solukhumbu, Nepal)
Piove ed è ancora notte fonda. Finora non ho dormito granché, ma mi sto avvicinando a determinare qual è la posizione migliore, lo sento. Poi comunque anche chiudere gli occhi e rilassarsi è una forma di riposo, quando il termometro del riparo scende a tre gradi bisogna accontentarsi. Svuoto le sacche d’acqua che si sono formate sul tetto del telo, spostando lo zaino al riparo dagli sgocciolii. Richiudo gli occhi, mentre le sacche si riempiono di nuovo al ritmo del ticchettio della pioggia. C’è umido, sono scomodo, ma sto passando la notte su un passo himalayano senza stare neanche troppo al freddo. Alla faccia della necessità di partire presto e raggiungere il rifigio a Lobuche prima del tramonto. Secondo me è da sconsiderati girare per l’Himalaya senza una tenda, o perlomeno senza vestiti sufficienti a passare una notte all’adjaccio. Se ti capita qualcosa di imprevisto prendi in mano il telefono e speri. Adesso posso restituire la compassione che aveva Lee per il mio zaino pesante. Provo una certa compassione per chi cammina in montagna sotto la spada di Damocle del meteo capriccioso. Come si fa a privarsi del piacere di dare ascolto alle proprie idee balorde e passare la notte a 5400 metri, in un comodo rifugio di pietra? Deve essere terribile. Appoggio la testa da un’altra parte e ormai so che ci siamo, posso passare le ultime ore della notte dormendo come si deve.
Quando ormai c’è luce lascio il mio riparo per avventurarmi fuori. Il versante alle mie spalle è ricoperto di un velo bianco che ieri non c’era. Non solo, anche sul telo blu c’è una sorta di granita che non può essere altro che neve. Evidentemente sono alla quota dello zero termico, cioè stanotte al di sotto della mia quota i ghiacciai hanno continuato a sciogliersi. Il panorama che si ammira dalla finestra del maniero mi aiuta a non pensarci, questo laghetto blu è meraviglioso, con la montagna di granito sullo sfondo. Ho mal di testa? No. Nausea? No. Perfetto, 1400 metri di dislivello in 30 ore senza effetti collaterali.
Arrotolo tutto cercando di congelarmi le mani i meno possibile e parto verso il passo, raccattando pattume lungo la via. Per qualche motivo gli esseri umani quando vedono una conca pensano che sia una discarica, perciò le buche della valle glaciale sono congestionate di pietre e vecchi rifiuti, troppo sbrindellati per raccoglierli, non ho abbastanza borsine. Porterò a valle una borsa con i resti di un bivacco, lattine e cartucce di butano per i fornelli a gas. Nessuno può svuotare tre cartucce in un colpo solo, o hanno campeggiato in cinquanta oppure qualcuno si è preso il disturbo di portare il proprio schifo fin quassù, prima di abbandonarlo. La tipologia di pattume più comune qui sono gli occhiali da sole, che devono soffrire di una mortalità elevatissima. Naturalmente sono troppo pesanti per tenerli con sé, meglio buttarli e non correre rischi. Meno male che le montagne in Italia non sono così.
Raggiungo il Kongma La in un baleno e come premio mi fermo a preparare la colazione. Anche stamattina si mangia il rancio del portatore, che è comodo da mangiare due cucchiaiate alla volta durante la lunga discesa. Si può ben immaginare il mio disappunto quando trovo una bustina verde con scritto “Aspirina C”, di indubbia provenienza italiana. Io speravo che fosse tutta colpa degli indiani, invece mi devo rimangiare tutto. A quanto sembra sono parecchi ad avere bisogno di medicine proprio in corrispondenza del passo, è impressionante.
Cerco il primo ometto e così imbocco il sentiero che scende fino al ghiacciaio attraverso un pendio di roccia nuda. Sono ben poche le piante che sopravvivono a questa altezza. Scendo velocemente, anche perché la via è semplice e ben visibile, di questo passo dovrei raggiungere la morena entro… “Un pika!” Niente, non so più quando la raggiungo, adesso mi tocca appostarmi e aspettare che esca dalla tana. Il pika è una sorta di cincillà himalayano, oppure si potrebbe dire che assomiglia ad un grosso criceto. In realtà è parente dei conigli prima ancora che dei roditori. Quassù è estate, quindi il mantello al momento è grigio-bruno, ma diventa bianco durante l’inverno. Mi siedo ad aspettare, ma quel brigante non si fa più vedere. Ne compare un altro più giù, così riprendo il cammino e stavolta arrivo davvero in fondo alla discesa, mentre la pietraia pian piano si unverdisce fino a diventare un pratino da picnic. Obbedisco e mi riposo, approfittando del sole per asciugare il telo fradicio, alcuni vestiti e il letame di yak. Davanti a me il prato sale, formando un’onda verde alta almeno trenta metri che si estende a perdita d’occhio. È il versante esterno della morena che fiancheggia il ghiacciaio Khumbu, proveniente dalle pendici dell’Everest.
Supero l’ultima salita e mi trovo davanti un’altra conca verde, con l’ultimissima salita. Gli ometti dicono di curvare tutto a sinistra, ma non mi sembra che sia il mio sentiero. Tiro dritto e davanti a me si apre la vista sul ghiacciaio: montagnole scoscese di pietre grigie e un torrente altrettanto grigio che si porta via ciò che resta del ghiaccio. In questo punto il torrente si allarga in un laghetto, quasi sbarrato da alcuni enormi macigni più a valle. Tra i macigni è stata infissa una bandiera, segno inequivocabile che il sentiero è là. Seguo gli ometti, che mi portano proprio al guado. Nessuno si è preso la briga di costruire qualcosa di simile ad un ponte, perciò si saltella di roccia in roccia, si monta in cima al macigno con la bandiera e poi c’è un salto. Proprio così, due massi con le pareti verticali e in mezzo il torrente non lasciano molta scelta, bisogna saltare.
Superato questo punto il sentiero prosegue zigzagando su e giù tra le conche di pietre e ghiaccio. Il ghiacciaio Khumbu è il classico ghiacciaio himalayano, così ricco di detriti da sciogliersi in spessore senza quasi arretrare con il fronte. La maggior parte dei nostri ghiacciai alpini invece si sfalda principalmente a blocchi, dal fronte verso la cima, perciò ormai il ghiaccio si trova solo ad alta quota. Il ghiacciaio Miage in val Veny invece è così pieno di detriti che lo strato di rocce in superficie isola il ghiaccio sottostante, che si scioglie più lentamente. Sembra solo una pietraia, invece qua e là affiora il ghiaccio azzurro. Il ghiacciaio Khumbu è proprio così, una distesa di ceste e conche che parrebbe un paesaggio lunare, se non fosse per qualche sporadico ciuffo d’erba. Una volta centrata la deviazione a sinistra, proseguire è semplice e raggiungere Lobuche è solo questione di tempo. Oltre la morena dal lato opposto si apre un’altra stretta valle piena di fiori gialli che crescono lungo un ruscello. A Lobuche mi fermo a scaricare i rifiuti in un quadrato di assi di legno. Da qui verranno portati in una conca appartata e bruciati, non si può certo contare sul camion della nettezza urbana. C’è un tizio che sta usando un drone volante per inseguire un piccione a terra, si ferma e ci scambiamo alcuni convenevoli metà in inglese e metà in nepali. Dice di aver incontrato quattro italiani diretti a Gorak Shep, non più di venti minuti fa (Naturalmente lui dice Gorak Sep, perché il nome è nepalese). Non credo alle mie orecchie, non vedo un italiano da quando ho lasciato Sofia, sette mesi fa. Riparto e metto il turbo per cercare di raggiungerli il prima possibile sulla strada dritta che costeggia la morena. Lungo la via incontro un raccoglitore di letame di yak, con una grossa gerla da cinquanta chili e la musica nelle cuffie. Vado appena più veloce di lui, ma con la metà del peso addosso, niente male.
L’ultimo tratto di strada per raggiungere Gorak Shep scavalca la morena e attraversa il ghiacciaio, seguendo un percorso tortuoso e mutevole, che varia di anno in anno secondo il capriccio delle frane. Bisogna prestare attenzione agli ometti, perché la traccia di sentiero trae in inganno. Va a finire che perdo di vista gli ometti e anche la traccia del sentiero, in piedi nel mezzo di un pendio franoso. Salgo in cima al cono di ghiaia per capirci qualcosa. La cresta circolare del cono è parecchio instabile perché non è mai stata calpestata, ma pian piano ci giro intorno e ritorno sul sentiero di prima. Adesso che ho eseguito un “Ivan il matto”, almeno so di non essere seguito. In effetti il sentiero è molto tortuoso in questo punto, ma con la tecnica giusta è facile seguirlo. Due minuti dopo incontro un gruppo misto di francesi e spagnoli, di ritorno dal campo base. Sono in dieci e si sono conosciuti qualche anno fa in Argentina, è incredibile come siano riusciti a incontrarsi di nuovo in così tanti.
Nel frattempo il ghiacciaio è stato avvolto dalla foschia, così non mi resta molto altro da fare che raggiungere Gorack Shep, mentre inizia a piovviginare.
Il sentiero tortuoso tra i cumuli di pietre mi porta in paese proprio mentre inizia a piovere sul serio. Agguanto una sedia di plastica e mi rifigio tra due edifici di un ostello, sotto una tettoia. Appendo i vestiti umidi usando il bastone e i chiodi sulle travi, senza alcuna speranza che si asciughino davvero. Mi vesto con tutti i vestiti che ho e aspetto sulla sedia sgangherata. Gorak Shep è costruita su una spianata di sabbia gialla che sembra una spiaggia, con tanto di campo da beach volley.
Poco dopo dall’interno si accorgono di me, ma non mi invitano a passare la notte dentro, mannaggia. Ormai che sono abituato bene è difficile non incentivare certi comportamenti. Entro a chiedere degli italiani, ma nessuno li ha visti, secondo me erano quei quattro danesi di cui ho sentito parlare di recente. Il tizio con il drone si sarà confuso.
Mi faccio indicare la fonte dell’acqua, rabbocco una borraccia e guardo in su, verso Kala Patthar. La spianata sabbiosa è invitante per campeggiare, ma oggi ho fatto solo mezza tappa e potrei andare un po’ più su. Non sarebbe male avere cento metri di dislivello in meno domattina, così posso anche essere in cima più presto. Via, su per la china, in cerca di una zona pianeggiante.
La vegetazione di quassù si innalza fino a dieci centimetri, anche se in genere preferisce stare ad un dito dal suolo, dove c’è meno vento. Adotto la stessa strategia piantando il bastone più basso possibile. Non è facile perché quassù il suolo è duro come la vita. È così compatto che neanche l’erba riesce a ricoprirlo tutto, sarà comodo dormirci sopra. Recupero qualche roccia da piazzare agli angoli della mia cosiddetta tenda. Mi ostino a chiamarla così, ma posso dormire solo su una diagonale, girando intorno allo zaino, che è incastrato a sostegno del bastone. Gli angoli della tenda mi sfiorano i piedi e il cappuccio del sacco a pelo, perciò ora che piovvigina mi devo inventare qualcosa per sollevarli. Queste rocce risolveranno il problema, mi evitano di scivolare fuori e tengono teso il tessuto.
Una raffica di vento mi suggerisce garbatamente che le rocce non bastano, così finalmente scopro perché mi sto portando in spalla da mesi un ripugnante bastoncino da selfie. Non mi ricordo più perché l’ho preso, in realtà, ma da quando ho perso la vite della gopro, è diventato inutile. Fino ad ora. Con un secondo puntello cambia tutto, da fuori sembra quasi una tenda seria, di quelle supercompatte che si montano con i bastoncini telescopici. Questa però non ha neanche la porta. Sguscio dentro, praticamente strisciando, e mi barrico dentro il sacco a pelo. Fuori il vento leggero continua a soffiare, ma le raffiche a 15 nodi non sono niente a questa quota. Tento di scrivere, ma mi addormento molto presto, immerso nelle nuvole.