Giorno 1: una cambusa densa e problematica

Lezione di ieri: gli autobus hanno potenzialità ampiamente sottovalutate.
Sabato 02/07/2022 5:30 Okhaldhunga (Nepal)
È l’alba, ora ha smesso di piovere, la valle è sgombra dalla nebbia e le nuvole sono colorate del rosa pallido dei primi raggi di sole. A quanto pare è troppo presto e non si parte subito, torniamo a letto un paio d’ore. Non c’è corrente e io non sono riuscito a ricaricare il telefono, ma va bene così.
Prima di andare paghiamo il conto dell’ostello, cena e camera 800 rupie, che sarebbero sei euro. Io però sono ancora fermo alle rupie indiane e mi sembra un’enormità, avrei dormito sull’autobus allora. Sì, certo, solo che l’autobus per Salleri non c’è, ha disertato. Non solo, ma quegli infami hanno tagliato la corda portandosi via il mio bastone di Dungri, maledetti.
I 60 chilometri di strada da qui a Salleri li dobbiamo fare in jeep, 700 rupie a cranio. O meglio, questo è il prezzo se la jeep è piena, siamo solo in tre perciò ora dobbiamo aspettare altri viaggiatori. Il paese si sta ancora svegliando, quindi ci vorrà un po’. Nel frattempo facciamo colazione di fronte, con una terrina di spaghettoni in brodo, piccantini e molto gustosi. Aspettiamo ancora, nel frattempo ricarico tutta l’elettronica e inizio a sudiare il nepalese, con l’aiuto di google traduttore e di Dipak. Non è affatto semplice perché non ci capiamo, io mi indico la scarpa dicendo “jutta” e Dipak mi ripete di nuovo la stessa parola di prima che significava “avanti”. Indico a destra e a sinistra e lui mi dice ancora “avanti” e “indietro”, pensando forse alla strada fuori dal locale. Né l’hindi né l’inglese basterebbero per imparare il nepalese in questo modo, così imparo le parole e le recito mimandole, così mi faccio correggere la pronuncia.
In capo a due ore non siamo ancora partiti, ma il mio nepalese va fortissimo. Inizio a scrivere qualsiasi parola mi venga in mente, poi copio inglese e traduzione su una nota del telefono, così da formare un bignami di inglese-nepalese da poter consultare senza connessione a internet. Alle dieci si parte, ma io ormai sono lanciato nella mia attività e continuo a scrivere di getto.
Arriviamo a Salleri e il prezzo è aumentato a mille rupie, perché abbiamo cambiato jeep e la tariffa è diversa. Non cambia quasi niente, è vero, ma questa reticenza mi disturba e io comunque ho i soldi contati. Entriamo direttamente in un piccolo locale con un’unica tavolata dove si mangia riso, lenticchie, patate e bietole cotte. Il piatto è bello grande e come di consueto passano a distribuire il bis. Quattrocento rupie e la fame è rimandata a un altro giorno. Da ultimo mi telefona Gibbo, per avere aggiornamenti freschi di giornata. Gli illustro i miei magnifici piani di scrittura intensiva e cammino, poi devo andare a fare la spesa perché è già l’una e ho i giorni contati per lasciare il Nepal. “Tó’la só dôlsa! Mi raccomando Palla!” (Vuol dire “Prendila con calma”, ma lo sa che detta in dialetto mi rimarrà inculcata più a lungo) Ho tutti i giorni che mi servono e nessua intenzione di saltare le tappe, ci tengo a non dover tornare indietro per rintuzzare il mal di montagna.
Vado a comprare da mangiare nel negozio di alimentari grosso che mi hanno indicato minuziosamente dicendo che “È là.”, da qualche parte oltre la parete del ristorante. Non trovo un accidente, così uno dei commensali mi accompagna a fare una visita giudata dei negozietti, fino al cosiddetto “big market”, che è un buco più grosso degli altri. Io ispeziono le merci nepalesi, chiedo prezzi e cerco una soluzione all’apparente mancanza di farina.  Avrei fatto la spesa a Kathmandu altrimenti, ma non è male portare un po’ di soldini quassù. Congedo la mia guida e faccio i conti di quanto cibo mi servirà. Li faccio sempre prima dei trekking, poi va a finire che torno a casa con esattamente metà del cibo che ho portato. Per una settimana si può fare, ma per tre settimane è impossibile, dovrò impegnarmi e mangiare tanto.
Il giro dura 19 giorni e in teoria parte da Lukla, cinquanta chilometri più avanti di Salleri. Arjun mi ha detto che posso iniziare direttamente dalla seconda tappa, che è Phakding. Secondo Arjun per arrivare a Phakding a piedi ci vogliono cinque giorni, mentre Dipak ha abbassato la stima a quattro. Facciamo che ne bastano tre.
Sono ventidue giorni, con sei ore di cammino al giorno esclusi i quattro giorni di pausa e acclimatamento. 1700 chilocalorie al giorno per esistere, più 330 stimati al ribasso per ogni ora di cammino. Stavolta lo zaino è ben più pesante quindi facciamo dieci ore di cammino al giorno per venti giorni, così i conti si fanno anche a mente. Quanti chili di cibo sono? Centomila kcal tradotte in litri d’olio sono circa dodici litri, più lo zaino farebbero 30 chili. Troppo, rifacciamo i conti. Ottantamila mi pare migliore, togli due chili di grasso corporeo e sono solo 65 mila kcal. Proviamo a fare una lista della spesa così. Mentre sono sedutoa fare i conti, arriva un bambino che mi si pianta davanti dice in inglese “Io so che sei molto ricco.” Anche senza stereotipi sui turisti, sto scribacchiando delle cifre esorbitanti sul mio foglietto, potrebbero benissimo essere le rupie che prevedo di spendere durante il trekking. Anche un tizio di passaggio si ferma a fissare il mio foglio, perché farsi gli affaracci propri non va di moda qui. Quando ha fissato abbastanza se ne va, il bambino abbassa le sue pretese a venti rupie e se ne va anche lui con il bottino. Torno ad occuparmi di gastronomia.
L’anno scorso sono andato a fare un trekking spettacolare in Valle d’Aosta e per contenere il peso ho portato una buona quantità di bsisa, quel mix di farine arrostite che avevo in Slovenia quando sono partito. Ho portato quella e una latta d’olio d’oliva buonissimo, per fare una colazione da campioni. Cercavo la farina proprio per arrostirla stasera e replicare la strategia, ma il piano è fallito. Proverò a sostituire la farina con il poha, chicchi di riso spiaccicati e tostati che si vendono qui per un euro al chilo. Non c’è l’olio d’oliva, ma almeno le spezie non mi mancheranno. Dunque, mezzo chilo di arachidi, un litro d’olio di soia, tre chili di poha e un chilo di formaggio   sono… 27000kcal. Sono cinque chili e mezzo e non è neanche la metà del necessario. Quanti giorni mi bastano per tornare a Namche Bazar, dove il cibo dovrebbe avere dei prezzi sensati? Solo quindici giorni, con un numero sensato di ore di cammino fanno 54000kcal, meno due chili del mio peso 40000. Nel frattempo ho appurato che il formaggio non lo vendono, ma il burro di arachidi contiene molte proteine, è risaputo. Faccio la lista, trovo faticosamente un bancomat, compro tutto e parto a spron battuto con ancora le borsine in mano.
Sono le 15:30, la giornata è meravigliosa e soleggiata e lo zaino dovrebbe essere meno di 24 chili perché ho le borracce vuote. In verità ho un chilo extra, quel litro d’olio comprato apposta per questo giro, ma di fatto inutilizzabile. Lo nascondo tra i cespugli dopo un paio di chilometri, tornerò a prenderlo al ritorno. Un chilo di meno, evvai! Inizio già a sgranocchiare le arachidi, così distribuisco meglio il peso vicino al baricentro del corpo. Bisogna fare attenzione agli abitanti però, perché i turisti normali sono dei distributori di merendine ambulanti, quindi i bambini mi salutano dicendo “One chocolate”. Non ho cioccolato, mi spiace, e no, neanche biscotti. Una ragazza che ci vede lungo decide di accontentarsi delle arachidi. Touché, serviti pure.
Ho bisogno anche di vitamine, quindi sgranocchio qualche piccola prugna trovata lungo la via e con il morale altissimo divoro l’asfalto verso Taksindu La, il primo passo di questo mio trekking non ufficiale, a 3000 metri. I passi da scavalcare durante il trekking si chiamano Kongma La, Cho La e Renjo La: non parlo sherpa, ma forse ho capito che cosa vuol dire la parola La. Sarebbe ottimo raggiungere il passo stasera, per dormirci e iniziare ad acclimatarmi con buon anticipo, di questo passo ci arrivo perché macino quattro chilometri all’ora. Supero Phaplu, dove si trova uno degli aeroporti di questa zona. La pista è asfaltata perfettamente, perché riempie completamente una breve spianata parallela alla strada. Oltre le estremità la collina va giù e poco oltre la valle risale e si chiude. Arjun mi aveva anticipato che gli atterragggi quassù sono avventurosi, capisco perché.
Cala la sera e poi il buio, l’asfalto finisce e la strada si fa più ripida, mancano ancora trecento metri di quota per raggiungere il passo. Mi sono lasciato dietro quindici chilometri in mezza giornata, direi che può bastare. In bassa stagione il paesino di Ringmu è tutto chiuso, poco lontano trovo una tettoia di legno che sarà perfetta per appendere l’amaca, così mi accomodo là sotto. È una tettoia per proteggere la legna secca dalla pioggia, che inizia già a cadere ticchettando piano. Mentre raccolgo qualche ramoscello per accendere il mio fuochino, mi nota un passeggiatore serale. Sembra che non ci siano problemi se sto qui, ma per sicurezza va a chiamare il proprietario, che acconsente senza problemi. Molto bene, una notte all’asciutto.
Monto l’amaca al volo e dispongo la cambusa su un’asse per fare una foto. È fatta decisamente male rispetto al solito, ma ho avuto poco tempo. C’è un litro d’olio di soia, un litro d’olio di girasole, un chilo di arachidi, un chilo e mezzo di poha, otto etti di muesli, mezzo chilo di uva passa, un etto di semi di cumino e quattro etti di latte in polvere come surrogato del formaggio. In più ho mezzo chilo del mio porridge scozzese, quattro etti di riso e un pugno di legumi rimasti da Ramnagar, mezza testa d’aglio e spezie per i legumi. Inoltre c’è la scatoletta di maiale in salsa di soia che mi diede Moon a Mostar. Questa serve per un’occasione molto speciale, che potrebbe essere ad esempio questo trekking in cui le proteine scarseggiano e il paesaggio sarà grandioso. In tutto sono poco più di otto chili, 45000kcal abbondanti per sedici euro e trenta centesimi. Il formaggio lo assaggerò in quota, direttamente dai produttori.
Se mi impegno e mangio mezzo chilo di cibo secco al giorno, tra otto giorni avrò le ali ai piedi. Dentro il parco nazionale è vietato accedere fuochi di legna, perciò devo cuocere il riso e le lenticchie in queste sere. Inizio dal riso e legumi, finché sono a una quota intermedia e l’acqua bolle ad una temperatura decente. Con questo fornellino basta pochissima legna per cucinare, finiti i rametti lo alimento con le schegge di legno sparse sotto i miei piedi. Come al solito le spezie non producono il sugo sperato, ma un giorno capirò qual è il trucco. In un’ora è pronto da mangiare, così inizio a mescolare e condire con l’olio di girasole. Un pochino, un altro po’, ma sì che ce ne sta ancora, forse adesso è troppo ma se mescolo bene la quantità è giusta.La quantità d’olio è giusta, ma la quantità di cibo è sbagliata, non sto morendo di fame come nella giungla a Ramnagar, non posso mangiarlo tutto in un colpo. Inoltre mescolando ho scoperto che il riso all’esterno è cotto male, cioè è proprio crudo. Non ci sono quaranta gradi qui, solo quindici, bastava usare un pochino di più il cervello. Pazienza, ormai è fatta, lo masticherò molto bene e poco alla volta.
Dopo il primo terzo di pentola ne ho abbastanza e crollo dal sonno. Mi sdraio in amaca una mezz’ora, accettando il fatto che quasi sicuramente mi risveglierò domattina.

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