Fine della corsa

Lezione di ieri: Se un confine ha laria di essere problematico, bisogna arrivare molto, molto, molto in anticipo.
Venerdì 27/05/2022 9:20 Lahore (Pakistan)
Mentre Ahmad ronfa ancora, ne approfitto per scrivere, perché negli ultimi venti giorni ho profuso tutto il tempo e le energie nel visitare al meglio la sterminata India. Alcuni giorni ho scritto due righe prima di addormentarmi, tutto qui. Ho anche fatto varie telefonate, per sentire qualche voce amica. Chi si sente escluso mi chiami così colmiamo le mie mancanze, altrimenti finisce che telefono sempre solo agli stessi amici.
C’è un’altra desiderio che sogno di soddisfare da quando ho lasciato Todhupura. Lungo tutta la traversata dell’India ho avuto nella testa “Il gioco”, dei Negrita, e ho pregustato ogni giorno la sensazione che avrei provato raggiungendo l’approdo sicuro di Lahore. Mi sarei guardato alle spalle e avrei ripensato a venti giorni prima, quando ero lontanissimo e sembrava impossibile arrivare così lontano in un tempo tanto breve. Ahmad mi aspettava qui per oggi a Lahore ed ero lontanissimo venti giorni fa. Ha temuto che per visitare l’India non facessi in tempo ad arrivare qua. Mi commuovo versando lacrimoni mentre ascolto “Samarcanda” e ripenso alle ore bollenti passate sui camion del Maharashtra, alla sete, ai pugni, alla fame, alle zanzare. Penso alle migliaia di case e campi che ho visto scorrere fuori dal finestrino, mentre Amritsar restava sempre laggiù lontanissimo. Non ho più caldo, non ho più sete né fame, mi restano solo i ricordi di venti giorni straordinari. Come una puntina che legge un disco di vinile, posso ripercorrere gli eventi che hanno segnato tutta la pista percorsa attraverso l’India. Le difficili condizioni di viaggio hanno amplificato la gratitudine verso le persone buone che ho incontrato e la meraviglia per ciò che ho visto.
Da ultimo, ripenso alle decine di volte che mi sono sentito dire che nessuno si sarebbe fermato a darmi un passaggio, e ripenso anche alle mie occhiate beffarde prima di entrare in macchina. Forse non ho visitato molto, ma diavolo se mi sono divertito!
11:20
Andiamo a fare colazione in un locale che serve halva puri, equivalente pakistano del gnocco fritto reggiano. Invece di essere piccolo e quadrato, servito con tanto maiale, qui si preparano dei dischi di pasta larghi una spanna, da strappare e bagnare in vari intingoli speziati o nello yogurt. È molto buono e mi fa sentire un po’ a casa, ma senza tè Ahmad continua ad essere accigliato. Rientriamo a casa e la domestica che viene a pulire la stanza viene incaricata anche di prepararci il tè.
È giunto il momento tanto atteso di consegnare il primo carico di souvenir e di svuotare la patta dello zaino dal gruzzolo di ricordini e cimeli accumulati in questi sette mesi. È arrivato quasi tutto, a parte dell’anello che mi ha regalato LuKa a Korbouli, fatto con il manico di un cucchiaino da tè. Deve essere disperso sulla sponda del torrente.
Prepariamo due borsine che Ahmad metterà in valigia quando tornerà in Italia tra due settimane. Sono quasi in salvo.
15:00
Usciamo di nuovo per andare al parco a camminare. Rimontiamo sulla Honda Civic nuova di zecca e raggiungiamo una grande zona verde poco distante. Si paga un obolo per parcheggiare e anche per entrare, qui funziona così. Il parco è pieno di cornacchie, ma ci sono anche degli altri uccellini leggiadri con il becco adunco e un’apertura alare di quasi un metro e mezzo. Qui a Lahore al posto dei piccioni ci sono le aquile. Ieri abbiamo fatto solo un giro rapido del circuito di cinque chilometri, ma oggi l’obiettivo è fare cinque giri. Dopo moltissime chiacchiere in italiano e in inglese, ci fermiamo al terzo giro. È interessante perché la cura del parco è così meticolosa che o giardinieri innaffiano anche la strada sterrata, per non fare alzare la polvere. È un trattamento indispensabile per formare un po’ di fanghiglia scivolosa e un’umidità gradevolissima nei quaranta gradi di Lahore. Giustamente i passeggiatori vanno a lamentarsi con l’operatore che guida il trattore irrigatore. All’uscita dal parco noto una persona che beve dal bicchiere pubblico accanto ai distributori di acqua. In India ben pochi porterebbero il bicchiere alla bocca, ma qui nella Terra dei puri i bicchieri sono inutilizzabili perché sicuramente parecchi ci hanno bevuto dentro.
Torniamo a casa a fare una doccia e per manomettere una delle due macchine di Ahmad. Lui apre il cofano e strappa un filo, io stacco un connettore e la macchina non si accende più. Nel settimo film di Star Wars strappare cavi è il modo per aggiustare le avarie, ma in questo caso la macchina non si riaccende più. Dobbiamo fare in fretta, lui propone di bucare una gomma, ma alla fine la sgonfiamo e basta. Questa macchina è stata data al fratello di Ahmad dal governo, in quanto questo fratello è a sua volta commissario. Ahmad ha un pessimo rapporto con suo zio, il quale sta venendo a prendere la macchina perché ha deciso di averne bisogno. Fatto il misfatto, saliamo a darci una lavata.
Passiamo a prendere Umair e si va tutti a salutare alcuni amici che stanno giocando a cricket in un campo da cricket. Sembra ovvio a voi che avete il posto per i campi sportivi, ma in India non è affatto scontato. L’unico campo da cricket che ho visto in India era quella spianata fangosa a Sardapura Ladana. Finito di ascoltare inutilmente le chiacchiere in urdu, ci spostiamo nei pressi di un bar, dove una decina di amici di Umair si è riunita per sprseggiare gazzosa gelata dopo aver giocato a cricket. Anche qui, l’inglese non esiste.
Che cosa devo fare adesso che ho chiesto di parlare inglese e sono stato ignorato come quando uno straniero è al tavolo con gli italiani? Li interrompo per insinuare che nessuno di loro parla fluentemente l’inglese e per aggiungere che è un peccato che io non riesca a capire i loro discorsi, che mi paiono interessanti. Naturalmente non è vero, chiunque abbia ricevuto un’istruzionein Pakistan ha studiato in urdu e in inglese contemporaneamente.
Parlano in urdu perché sanno che questi argomenti di politica non mi interesserebbero. Bella giustificazione, grazie per avermelo chiesto.
Almeno però questo li sprona a parlare in una lingua comprensibile per quindici minuti, per suggerirmi di andare a visitare il Nord del Pakistan. La regione del Gilgit-Baltistan è montuosa e ha un aspetto abbastanza simile ai paesaggi alpini, con boschi, pascoli e ghiacciai. È lì che si va in vacanza in agosto, per stare un po’ al fresco. Non riescono a capire perché non ci voglio andare, insistono e insistono. Mi appello alla considerazione che i pakistani hanno per i genitori, per far comprendere che se andassi lassù a casa perderebbero il sonno fino al mio ritorno a Lahore. Cercano di convincermi che è una zona sicura, non hanno proprio capito il concetto.
Successivamente, approfittando di una pausa, chiedo se qualcuno di loro è mai stato in India. A parte le battute di Ahmad, che considera impuro tutto il cibo e l’acqua che ho portato dall’India, non mi è ancora chiaro fino a che punto si spinga il disprezzo e l’inimicizia tra punjabi dell’Ovest e dell’Est. Anche se nessuno è mai stato di là dal confine, le loro risposte mi tranquillizzano parecchio. Come mi spiega Abu Bakir, seduto accanto a me, il problema è il rischio che si corre a visitare l’India con un passaporto pakistano. Non è solo laborioso ottenere il visto, ma non avere la certezza di essere accolti bene dappertutto è un forte disincentivo a viaggiare. Di fatto non attraversano il confine per motivi di insicurezza sulla propria incolumità. Lo stesso Abu Bakir ha parecchi amici indiani che lo hanno invitato di là dalla riga, ma non se la sente di andare. Io sono abbastanza convinto che in Kèrala e in Tamìl Nadu non importi proprioa nessuno dei pakistani, ma questa è l’impressione che mi sono fatto in cinque giorni, non vale un fico secco.
20:30
Andiamo, saluto in special modo Abu Bakir, che si è impegnato a conversare con me, ma per gli altri ho solo un “piacere di avervi visto”, perché non mi pare di averli conosciuti molto. Sì, questa esclusione sistematica da qualsiasi conversazione mi inizia a disturbare, specialmente perché non me la aspettavo da degli anglofoni.
Ripartiamo per partecipare ad una cena con Tasleem, un amico che ci ha invitato nel ristorante del proprio albergo.
Ci incontriamo all’aperto e le mie nuove conoscenze mi guardano stupite mentre cerco di acchiappare un geco nel giardino, ma è il mio lavoro, che cosa dovrei fare? Per aumentare il loro stupore, Ahmad precisa che anche a casa allevo un geco. L’erpetofilia è quasi sconosciuta a questo tavolo ed è rarissima in Pakistan, a quanto dicono.
Mentre cerco di carpire inutilmente qualche parola in urdu arriva la cena, nelle proporzioni che ricordavo quando andavo a Rio Saliceto a casa di Ahmad. Durante il pasto si apre qualche parentesi in inglese, per chiedermi che cosa penso del piattp di tagliatelle con pollo olive e formaggio fuso. Sono una versione pakistaneggiante della pasta, ma considerando che gli ingredienti italiani non sono disponibili mi sembra ben fatta. Oltre alla pasta c’è una cospicua montagna di riso a chicchi lunghissimi e del pollo in salsa cinese. Anche questa pietanza cinese ha un tocco pakistano dovuto alle spezie, non pretendono di cucinare pasta italiana e cibo cinese, piuttosto rielaborano. Il cibo è troppo per loro, quindi io continuo a riempire il piatto fino ad esaurimento scorte. Negli scorsi venti giorni di traversata dell’India contavo di trovare una marea di cibo in Pakistan, perciò ora posso soddisfare la mia fame atavica. (Fame: nome comune di cosa femminile singolare; atavica: aggettivo qualificativo di grado semplice. Ringrazio il professor Andrea Chesi per questa espressione intramontabile che popolava i suoi dettati per l’analisi grammaticale.)
Mentre faccio onore al riso e al pollo, Tasleem mi spiega che sta dedicando tutte le energie alla cura di questo albergo, per fare soldi e convertirsi al settore del commercio immobiliare, che causa decisamente meno grattacapi rispetto alla gestione di un albergo. Il suo passatempo è studiare per questo prossimo lavoro, ne è stato assorbito. Dopo questo si torna all’urdu.
Ormai è mezzanotte, perciò è il momento giusto per non andare a letto e tornare al bar di ieri, dove stasera sarà presente un giudice che oltre ad avere un notevole benessere ha anche una pronuncia inglese notevolmente buffa. Facendosi grasse risate, mi chiedono di provare a farlo parlare in inglese. Non è facile, anzi è quasi impossibile, ma ad animare la serata c’è un uomo che lavora alla pizzeria qui accanto, sui quarantacinque anni. Parla con disinvoltura un inglese un po’ sgangherato, ma si impegna così tanto che quasi non vi faccio caso. Come molti, ha solo bisogno di rispolverare il vocabolario.
Mentre sorseggiamo il tè di rito, arriva un camion addobbato come un albero di Natale, che si ingarbuglia nella giungla di fili del telefono che incombe sulla strada. Dopo mezz’ora qualcuno porta una lunga canna di bambù per sollevare i cavi e fare retromarcia senza fare un disastro. Il pizzaiolo accanto a me dirige le manovre urlando avvertimenti all’autista in manovra.
Verso le 2:30 qualcuno decide che è ora di andare e diciamo di nuovo arrivederci alla piazza, a domani.

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