Dove c’è mango, c’è casa

Lezione di ieri: Se non visiti il Nord, non andare in Pakistan.
Martedì 06/06/2022 7:50 Karachi (Pakistan)
Ho considerato più volte la possibilità di rimettermi a sedere e scrivere. Una volta l’ho considerata molto intensamente per circa dieci secondi, ma mi ha richiesto molta concentrazione e subito dopo ho dovuto riposarmi per lo sforzo.
Ora il vecchio tabellone appeso al muro ha appena annunciato l’apertura dell’imbarco dei bagagli da stiva. È uno di quei tabelloni che ho visto solo nei film, con le destinazioni e i numeri scritti sulle tessere girevoli. A me che sono giovane appare come un reperto storico. È ora di insalamare di nuovo lo zaino per fargli fare un altro giro di giostra verso Dubai.
Non ho avuto modo di mangiare i manghi perché avevo poca fame e tirare fuori un coltellino in aeroporto non è mai un bel gesto. In ogni caso i manghi danno sicurezza, sono come le scorte di tonno in scatola di Forack, un grande estimatore del tonno, fagioli e cipolla. È un piatto delicato, ideale per chiudere i pasti, tanto che tra di noi lo abbiamo denominato “il Dolce”. Tuttavia, a differenza del tonno, i manghi maturi tendono a essere inadatti alla conservazione in aereo perché nel buio dei vani sopra i sedili vengono maltrattati dagli altri bagagli a mano.
Passo il marsupio nello scanner e mi fanno segni di aprirlo perché qualcosa non va. Questa volta l’accendino non si può portare in stiva, e anche il mio gomitolo di cordino è da requisire perché può essere pericoloso. “In che modo un pezzetto di corda può essere pericoloso, mi scusi?” Pazienza per l’accendino, ma la corda no eh, ha scelto la persona sbagliata. Insiste a dire che non è permessa, ma non penso proprio che ci sia un divieto di corde sugli aerei. Me la restituisce un po’ stizzito, missione compiuta!
Resta solo da imbarcarsi, il ché presenta ulteriori difficoltà perché io ho una decina di mascherine, ma sono rimaste tutte nello zaino. Io non ci pensavo neanche, sul volo della Pakistan Airways non c’era il covid. Siamo impreparati in parecchi, perciò corriamo in un negozio a comprare una mascherina. Costano 50 rupie ciascuna e io non ho contanti, a parte una banconota da 50 rupie nuova nuova che mi ha regalato Ahmad ieri mattina, come souvenir. C’è stata della lungimiranza nel suo gesto e non l’ho spesa per il cellophane, ma credo sia che giunta al capolinea. Torno al punto di imbarco armato di tutto punto, scoprendo che forse stanno distribuendo le mascherine gratis. In effetti per 200 euro di biglietto una mascherina forse ce la possono dare.
Ci libriamo sopra i cieli di Karachi, una distesa infinita di case bianche in riva all’oceano Indiano. Il mio vicino di posto non apprezza il panorama è chiude l’oblò, quindi va a finire che dormo ancora. Posso guardare fuori di nuovo solamente quando attraversiamo il deserto dell’Emirato di Dubai, che piano piano si popola di strade dritte in mezzo al nulla e poi anche di case, finché atterriamo su una penisola arabica dalla temperatura decisamente mite rispetto a quando ero in Oman. Qui ci sono solo 35°C al suolo.
13:00
Sono un po’ perso perché non mi è chiaro se devo recuperare il bagaglio o no, inoltre con il cambio d’ora, non capisco se sono in ritardo o in anticipo sull’imbarco successivo. In tutto ciò mi sono dimenticato di compilare il modulo online per il covid, il motivo per cui ho rifatto la vaccinazione. Me lo fanno notare all’ultimo controllo di imbarco, ma mi lasciano passare vedendo di sfuggita che ho sul cellulare un modulo aperto. Era quello vecchio compilato in Oman, meglio inviare quello nuovo mentre aspetto, non si sa mai che lo chiedano di nuovo in India.
Sono in perfetto orario e finisco in una sala d’attesa dove gli altoparlanti ripetono in continuazione dove si devono dirigere i passeggeri del nostro volo. È un modo efficacissimo per trapanarci i timpani con un messaggio assolutamente inutile ripetuto di continuo. Non vedo l’ora di ripartire verso Est perché questa deviazione imbecille ha creato uno scarabocchio orribile nell’itinerario razionale seguito finora. È uno smacco imperdonabile, maledetti indiani.
14:30
Si ripaaarte! Decolliamo verso Ovest, perciò ci aspettano un paio di virate decise per metterci in rotta verso il Baluchistan. Tutto questo volare, subito dopo il film dell’altro giorno, amplifica ogni minima accelerazione e ogni virata come se stessimo facendo acrobazie assurde. Chi è stato sulle montagne russe può tornare in giostra anche da seduto in poltrona. Certe sensazioni difficilmente di dimenticano.
Scansiamo lo spazio aereo dell’Afghanistan e ci dirigiamo a Nordest. Poco prima di Delhi facciamo uno strano zig-zag, forse siamo in anticipo e dobbiamo prendere tempo facendo altre acrobazie spericolate. Invece di sfrecciare accanto alla torre di controllo, atterriamo normalmente sulla pista, segno evidente che non c’è Tom Cruise alla cloche.
19:00
Sono di nuovo in India, finalmente a Delhi. Dichiaro un’altra prenotazione alberghiera fasulla perché è obbligatorio fornire un indirizzo in India, ma questa volta è tutto più semplice. Niente impronte digitali, niente domande. Sono già stato qui una volta, perciò siamo già a posto, bentornato in India.
A passo di marcia, corro a riabbracciare il mio compagno inseparabile, che fortunatamente ha trovato la strada giusta nell’intricato scalo di Dubai.
Poco dopo esco e accorrono i soliti tassisti a farsi gli affari miei. Mi chiedono dove devo andare, ma la risposta “Non lo so” è assolutamente incomprensibile e inaccettabile. Supero i tassisti in tilt, studiando il da farsi, perché nel soggiorno a Lahore ho perso la sim indiana e lontano dall’aeroporto non ho segnale. Aspetto una risposta dal secondo ospite che ho contattato su Couchsurfing, nel frattempo mi siedo davanti all’aeroporto a mangiare manghi. Un tizio accanto a me chiede incuriosito “Manghi nepalesi?”
“No, manghi pakistani!” Non ne sono sicuro, ma con la coda dell’occhio mi è parso che abbia avuto un sussulto. I manghi pakistani forse qui sono haram, sono proibiti, come diceva ridendo Ahmad quando gli proponevo il riso del Kerala o l’acqua del Punjab indiano. Diceva sempre”Questo è haram haram haram”.
Ormai si è fatto buio e decido di partire verso il centro di Delhi, verso un ostello distante quattordici chilometri. Non è troppo lontano, ma potrei prendere un taxi perché probabilmente mi aspettano tre ore di cammino. Magari qualcuno mi offre un passaggio lungo la via, che è illuminata a giorno, tanto vale fare due passi.
Si ferma solo un taxi che mi offre una corsa fino in centro per trecento rupie, ma io sono incorruttibile e tiro dritto per la mia strada. Dopo un’ora e mezza di cammino l’arrivo continua a sembrare piuttosto distante, ma si ferma un tuktuk di passaggio. L’autista sa dodici parole in inglese, tra cui i numeri da uno a nove e “Vieni! Amici, amici!” Sembra un tipo a posto ed è proprio il passaggio che aspettavo, salgo a bordo e sfodero le quattro frasi che conosco in hindi per fare un po’ di conversazione. Ne sfodererei cinque se quelli di là dal confine mi avessero insegnato qualcosa.
Ben presto inizia a parlare di soldi, come sospettavo. Non sono più in Pakistan, qui in India si batte cassa giorno e notte per sbarcare il lunario. Gli chiedo di accostare, ma lui tira dritto, dice che mi porta fino alla fermata dell’autobus. Ormai siamo quasi ad una distanza camminabile, ma forse è intelligente fare un’eccezione.
Finalmente decide di accostare per trattare il prezzo e spara un cinquecento rupie. In taxi erano trecento e ho camminato fino a un terzo della strada, mi sembra un po’ eccessivo. Dopo una lunga trattativa concordiamo trecentocinquanta rupie, tre litri e mezzo di benzina. Si riparte verso il bazar principale, che è pieno di affittacamere, ma all’arrivo lui non ha il resto e quindi niente, torniamo indietro in un bar a cambiare le mie cinquecento rupie. Stranamente non hanno mai il resto.
Consulto la mappa e mi lancio con decisione lungo le strade pedonali che portano al bazar, illuminate molto poco. Mi guardo intorno con circospezione, ma vedo solo studenti e lavoratori che rientrano a casa, nessuna faccia pericolosa nonostante sia quasi mezzanotte.
Nella piccola piazza prima dei vicoli ferve ancora l’attività perché i venditori di strada stanno finendo di radunare gli ortaggi e la frutta sui banchi e sui carretti. Imbocco un vicolo illuminato da qualche lampadina e arrivo nel punto esatto dove si trova l’ostello che ho scelto. È chiuso da tempo, ma nello stesso momento l’uomo della porta accanto mi invita nel proprio ostello, che si chiama “Yes Please”. Ha delle camere singole, me ne mostra un paio e per trecentocinquanta rupie direi che vanno benissimo, quattro euro e mezzo è un prezzo molto buono. C’è il letto, venti centimetri di spazio extra, il ventilatore, la presa di corrente e un bagno con la turca, il lavandino e il secchio per fare la doccia. Direi che c’è tutto quello di cui un indiano ha bisogno, che è tutto quello di cui io ho bisogno. Il posto è così pulito che il letto sfoggia un lenzuolo che in passato era bianco bianco. Adesso è abbastanza bianco, il pavimento è pulito e anche il bagno non è male. È un ostello modesto ma ben tenuto, benvenuto a Delhi.
Fa leggermente caldo, metto il fermo alla porta e alla finestra, accendo il ventilatore e tra un attimo metto via anche il portafoglio e finisco di scriv…

2 commenti su “Dove c’è mango, c’è casa”

  1. Pietro Lasalvia

    In quanto fermo sostenitore della linearità dei viaggi questo avanti e indietro in aereo turba anche a me, la “deviazione imbecille” è esteticamente orribile. Procedo ad inoltrare reclami ai consolati indiano e pakistano.

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