Dove andiamo noi non ci servono… STRADE

Lezione di ieri: gli abitanti locali conoscono il clima, imitali.
Sabato 07/01/2023 Sorong (Indonesia)
Ho dormito pochissimo, ma appena campeggio recupero il sonno perduto. La pomata antimuffa ci voleva proprio, la mia tigna sicuramente non gradirà l’antibiotico che ho comprato ieri, io sto già meglio.
Intanto, per cominciare, facciamo colazione. Durante le vacanze di Natale qui non si lavora, dato che Melda e Lulu sono insegnanti. Presto arriva anche Madeline, che secondo me si annoia a morte perché tutte quante sono occupate con il cellulare. Considerato che qui in Indonesia i cani sono quasi tutti randagi, si può affermare che il migliore amico dell’uomo sia il cellulare, di gran lunga. Poiché quasi nessuno ha la televisione, con il cellulare si fa tutto. Finita la colazione con panini dolci e ciambelle fritte, è ora che mi prepari per partire. Passa il tempo e quando sono pronto a partire ormai è ora di pranzo. Quindi pranziamo e intanto valuto la strada da prendere per raggiungere Manokwari.
Passa un ambulante che vende bubur, famoso bubur, il risotto degli stolti. In pratica si tratta di riso o legumi o un misto, cotti nell’acqua come se fosse una zuppa molto densa. Non avevo mai pensato di fare colazione con i fagioli dolci. Si aggiunge molto zucchero e latte di cocco, così da farlo assomigliare alle castagne cotte nel latte che si preparano un Italia. Il sapore è molto simile e aggiungo il bubur alla lista delle ricette economiche che si possono preparare anche a casa.
Finito il pranzo, le mie scarpe sono quasi asciutte. Stanotte è piovuto e le scarpe erano rimaste vicino al bordo della tettoia. Saluto Sarce, Enjel e Madeline mentre la nostra motospedizione parte alla ventura. Melda, Lulu, Janet (Gianèt) e io, diretti verso la periferia di Sorong. Arrivati all’inizio della strada per Fef, tiriamo dritto per un buon tratto, molto più lontano di quanto mi aspettassi. “Avete pensato di venire con me?” chiedo io.
Purtroppo no, così ci fermiamo e aspettano che io trovi un passaggio. Non hanno ancora compreso che non voglio un taxi, ma è normale, è da quasi un anno che nessuno capisce. Ben presto si ferma un camion giallo, salgo a bordo e incontro Bili, originario di Timor Est. Abita qui da trent’anni e ha lasciato la sua isola d’origine prima che diventasse indipendente. Sta trasportando ghiaia, ma non riesco a capire dove sia diretto. Intanto, capisco perché Janet diceva che ogni camion trasporta immondizia. Accanto a noi, proprio a bordo strada, compare un enorme cumulo fumante di rifiuti. Cento metri dietro al mucchio, si scorge la conca di una discarica in costruzione. Il fondo coperto con un telo di plastica e non credo proprio che verrà rivestito con mille strati di materiali impermeabili come si fa da noi, ma è comunque già meglio di niente. Almeno ci stanno provando. Nel frattempo i rifiuti vengono scaricati direttamente qui vicino all’asfalto, così ogni sacchetto può essere ispezionato, in cerca di materiali riciclabili. Nel fosso accanto alla strada ci sono due uomini in ciabatte che sventrano i sacchi con un falcetto, prevalentemente pieno di verdura molliccia e plastica. La maggior parte della montagna di spazzatura alle loro spalle brucia a fuoco morto, generando deliziosi miasmi. In riva al mare di rifiuti vivono alcune famiglie, felici che il vento stia soffiando nella direzione giusta.
Facciata una breve fermata per comprare da bere in un chiosco lungo la strada. All’interno ci sono i soliti generi alimentari indonesiani, ma il bancone è protetto da una rete metallica. Mai viste precauzioni così drastiche nel resto dell’Indonesia, ma è facile capirne il senso, considerando che finora tutti mi hanno messo in guardia. In Papua, terra di cristiani, ci sono parecchi ubriachi.
La destinazione di Bili è una piccola cava accanto alla strada, utilizzata per fornire gli inerti necessari allo sviluppo di questa zona. Un escavatore raccoglie la la ghiaia calibrata proveniente dall’impianto di Sorong e la mescola con il materiale grattato via dalla parete.  È un modo per ottenere una ghiaia più economica. Dev’essere molto interessante starsene qui tutto il giorno ad aspettare la ghiaia, ma qualcuno ha trovato un bel modo di ammazzare il tempo. Il rullo della macchina per spianare gli inerti è uniformemente arrugginito, perfetto per disegnarci sopra con una pietra. È stato decorato con la testa di un amichevole demonio zannuto, che merita una foto. Faccio per proseguire a piedi, ma Bili mi ferma per offrirmi un altro passaggio. Dopo aver pranzato al volo, ripartiamo verso il vero cantiere, giù nella foresta primaria che ricopre la valle, non lontano dal mare. Proprio così, c’è una foresta di pianura ancora in piedi, una vera foresta di pianura ancora veramente in piedi. Non pensavo che esistessero ancora. Dalla cima della discesa il panorama è tutto verde, da qui fino alle creste delle montagne dall’altra parte della valle. Sono in visibilio.
La nostra corsa finisce lungo la strada in costruzione, ancora di terra battuta. I ponti sui torrenti principali sono già completi, ma su ogni minimo ruscelletto i lavori sono ancora in corso. Il ponte di tronchi è stato spostato a destra, per essere ricostruito in cemento. Fa caldo, ma di certo meno che a Reggio in estate, così proseguo a piedi, ancora sconvolto da questo luogo surreale. Poco più tardi, una moto mi supera, si ferma ad aspettarmi e così mi presento ad Agus, che mi offre un passaggio fino al prossimo paesino. È composto di una decina di case, niente di più. Prima ancora che mi possa allontanare, alcuni uomini mi invitano a riposarmi sotto al portico.
“Riposarsi” in Indonesia significa anche bere e mangiare, così mi accolgono con entusiasmo, porgendomi un piatto. Mi servo e torno in veranda a sedermi insieme agli altri. Forse qualcuno sta già immaginando una tavolata, ma la verità è che davanti a casa ci sono solo la veranda e gli altri, seduti sulle piastrelle.
Davanti a casa c’è una grossa pila di matasse di cavi rossi e neri, pali e altro materiale decisamente nuovo. Agus mi spiega che gli uomini del paese sono operai della Telkomcel, stanno installando la rete telefonica in questa zona della Papua. Mi chiedo quanto durerà questo impiego temporaneo, ma probabilmente è una domanda inutile. C’è lavoro, adesso, e non c’è motivo di lamentarsi. La seconda domanda invece riguarda un fatto ben più strano: se è vero che questi uomini vivono qui, che fine hanno fatto le donne e i bambini? Forse non so fanno vedere  perché ci sono io? La realtà è molto più semplice, non ci sono perché sono andati in città stamattina, a messa. “Tutti?”
“Sì, tutti quanti, torneranno stasera.”
Con il pranzo da digerire e la calura pomeridiana, non ci resta che una bella pennichella in compagnia. Imito il mio vicino di pavimento e mi accomodo sulla ceramica. Con questo clima, neanche un fachiro avrebbe difficoltà a prendere sonno.
Al mio risveglio sono ancora le quattro e ricevo una telefonata inattesa da Sumgayıt, in Azerbaijan. È Mohammed in figlio di Rəşad (Ræsciàd)! (Non ho ancora scritto mezza riga sull’Azerbaijan, ma basti sapere che la famiglia di Rəşad mi ha adottato per tre settimane) Porta grandi notizie sul progetto del drone, che parteciperà ad un concorso nazionale. Inoltre domani avrà un altro esame di lingua inglese e tra due anni ha intenzione di provare a iscriversi al MIT. Nientemeno che al Massachussets Institute of Technology. Sono un po’ sconvolto da tutte queste novità e non ci sentiamo da così tanto che restiamo al telefono per ore.
Tuttavia il sole cala e io non ho intenzione di dormire sotto un tetto, non con tutta questa foresta intorno.
Saluto, ringrazio e mi allontano, con la scusa che sono al telefono non posso dare troppe spiegazioni su dove vado e dove dormirò. Ai lati della strada, nascosto dell’erba alta, c’è il pantano, ma forse riesco a scavalcarlo senza danni.
Controllo che non mi veda nessuno e seguo una scia di erba calpestata. In due salti sono alla base della cresta della montagna, sono all’asciutto. Ora il gioco è seguire la cresta, fino al primo punto campeggiabile. Magari incontro anche qualche animale lungo la strada, sarebbe ottimo. Su quest’isola non ci sono tigri, guaguari, orsi, lupi o altri grandi carnivori. Certo, ci sono i ragni e i serpenti, ma non vanno a caccia di bestie grosse come me. Se li pesto è colpa mia.
Fa ancora caldo, per me, e questa umidità forestale mi fa sudare copiosamente. Può essere sufficiente fermarsi qui a metà salita, così mi siedo a rifiatare e a riflettere. Come al solito, una volta individuato un posto adatto, è bene fare un giretto esplorativo nei dintorni per controllare se ci sono altri posti più adatti. Memore di quella notte a Hormuz, in Iran, rilevo la posizione GPS dello zaino, prima di riprendere la salita senza di lui. Ben presto trovo un tratto di sentiero in pari, così torno giù a riprendere la mia casa. Scendo, scendo, scendo, fino ad accorgermi di aver davvero sbagliato strada. Questa volta sono preparato, apro la mappa e taglio il pendio, risalendo fino alla cresta adiacente. Risalendo, non è difficile individuare il bivio dove ho sbagliato strada. Ma perché dobbiamo avere due creste?
Alla fine, mi piazzo a dormire in un piccolo avvallamento parallelo al sentiero, dove potenzialmente potrebbe passare qualche piccolo mammifero notturno. Non è una bella idea stare proprio sul sentiero, qualcuno più mattiniero di me potrebbe trovarmi mentre dormo. Qui sarò invisibile, almeno fino all’alba. Entro in amaca con le orecchie tese, ma nessun quadrupede si fa vivo, prima che mi addormenti.

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