Come visitare Sarajevo rimanendo ufficialmente in Turchia

È estremamente complesso cercare di contenere gli avvenimenti mentre si viaggia, e per ora ogni tentativo di tornare in pari con i post è fallito. Però in media riesco a mettere per iscritto un giorno al giorno e la connessione a internet bene o male funziona. (A parte un disguido nei giorni scorsi)
Invece di pubblicare due articoli in un giorno e poi niente per una settimana, proverò a caricare un nuovo articolo ogni mattina, vediamo se così funziona.

Lezione di ieri: Fare attenzione alle scritte sui secchielli.

Mercoledì 10/11/2021 6:45 – Pritoka (Bosnia e Erzegovina)

Mi sveglio di nuovo per la quarta cena, che forse ormai si potrebbe chiamare colazione. I vestiti sono quasi tutti asciutti, ma bisogna spalancare un po’ perché l’aria qui deve essere satura di vapore ormai, a giudicare dalla condensa che c’è sui vetri della finestra. Solo ora che c’è luce fuori mi accorgo che la camera ha anche una piccola terrazza, al di là della porta finestra. Non c’è nessuna balaustra, è solo uno strato orizzontale di cemento di un metro per tre. Un altro tratto caratteristico è il doppio filo elettrico blu che esce da una presa a muro accanto alla finestra, esce dalla fessura dei cardini della finestra, gira intorno all’asta dell’antenna della televisione e scende in giardino fino ad un piccolo capanno. È un filo multifunzionale, infatti serve a far luce nel capanno, tiene in piedi l’antenna e lo si può usare anche per stendere il bucato grazie alle mollette che ci sono laggiù. Deve essere per questo che è stato accuratamente riparato in diversi punti con del nastro isolante giallo, che aggiunge un tocco artistico.

10:45

Faccio tutto con grande calma e finalmente scendo per consegnare la chiave. Rukir sicuramente non c’è perché oggi ha l’esame di guida per prendere la patente, ma a quanto pare qui non c’è proprio nessuno.
Torno su, lascio la chiave sul letto e mi appoggio al tavolino esterno per scrivere Bosanski Petrovac sul mio grande cartone.
Sarajevo dista 300km da qui, ma secondo me è quasi raggiungibile in giornata.

11:10

Dopo dieci minuti si ferma Admir, che ha una cinquantina d’anni, ma ne dimostra decisamente meno e mentre salgo sul sedile posteriore sposta di lato una grossa bombola grigia. Sono seduto tra le portiera e un lungo palo rosso telescopico, con in fondo un sorta di cestino di gomma trasparente. Parliamo un po’ della Bosnia e del suo governo che non capisco come faccia a stare in piedi, data la sua organizzazione contorta. La federazione è divisa a metà tra Bosnia ed Erzegovina, suddivisa a sua volta in 10 cantoni indipendenti, e Republika Srpska.
(1, 2, 3… sei riuscito a pronunciarlo? Benissimo, andiamo avanti.)
Non finisce qui, perché in realtà c’è anche un piccolo distretto autonomo che appartiene a entrambe le parti, ma non è governato da nessuna delle due e può scegliere se partecipare alle elezioni di una parte o dell’altra.
Adesso viene il bello, perché il presidente del consiglio è uno solo, ma i presidenti della federazione sono tre, uno che rappresenta i serbi, uno i croati e uno i musulmani. I presidenti hanno un mandato di quattro anni e governano a rotazione alternandosi ogni otto mesi. Come si può immaginare questo sistema conferisce una solidità incredibile al paese, che infatti è tenuto insieme dalla corruzione, che funziona meglio della Vinavil.
Mentre Admir mi porta a Bosanski, gli chiedo se suo padre ha combattuto nella guerra in Bosnia. Ci rimango piuttosto male quando mi dice quanti anni ha e che è stato lui a combattere nell’ultima guerra. Era specializzato nella difesa anticarro e ha fatto parte di un corpo speciale di cui non conosco il nome, qualcosa di equivalente ai marines. È stato colpito tre volte, in una di queste è sopravvissuto ad una granata da 220mm che ha fatto 77 morti e 140 feriti. È stata sparata da 20 chilometri e lì con lui c’erano parecchi giovani, non ho capito se soldati o civili.
Lui adesso effettua controlli sugli impianti di sicurezza antincendio e il palo rosso qui di fianco serve per produrre fumo direttamente sul sensore a soffitto e collaudare così gli impianti.
Parliamo anche di migranti, mi racconta che vorrebbe dare un passaggio anche a loro ma sarebbe estremamente pericoloso per lui a livello legale. Ha capito che non sono un migrante grazie al mio grosso segnale di cartone. In teoria non dovrebbe trasportare neanche me perché questa è la macchina aziendale, perciò non può neanche deviare dal percorso più breve. Non è male questa macchina aziendale, Admir mentre parla ogni tanto stacca le mani dal volante in mezzo a una curva e il volante, che conosce la strada, continua a girare.
Arriviamo a Bosanski Petrovac e ringrazio molto il buon Admir. Davanti a me c’è un prato, dietro di me c’è un altro prato. A destra, lontano, c’è una segheria e a sinistra, lontano, un’altra segheria. Fine.
Sono nel bel mezzo del niente da una ventina di minuti, quando una macchina che era passata poco fa torna indietro, fa inversione e accosta. La macchina è molto appariscente perché pubblicizza una marca di acqua in bottiglia.
Alla guida c’è una donna, sola. È la prima volta che ricevo un passaggio da una donna, quindi Irma ha appena infranto quello che finora sembrava un tabù. (Spero di essermi ricordato il tuo nome, correggimi se è sbagliato)
Dopo avermi superato ha suonato il clacson, ma io sono sordo e non l’ho sentito. È appassionata di escursionismo e quando ha visto il mio zaino si è messa subito nei miei panni e ha deciso di fermarsi e tornare indietro. Mi racconta del suo ultimo viaggio, è appena tornata da Gostivar in Macedonia, dove è arrivata fino in cima al monte Korab, 2751m, che è la terza vetta più alta dei Balcani. Mi dice che fa spesso escursioni anche qui in Bosnia, i sentieri sono ben segnalati e basta seguirli per non correre rischi. A me continua a sembrare allucinante l’idea di passeggiare nei campi minati ma capisco che prima o poi ci si abitua a tutto.
Non so come finiamo anche per nominare il cibo e Irma mi dice che i bosniaci sanno fare bene due cose, la prima è mangiare e la seconda è giocare d’azzardo. Questo spiega le innumerevoli insegne di sale scommesse e “lutrjia” che ho visto finora.
Parliamo anche dei rifugiati e mi racconta che suo figlio ha lavorato per un certo periodo nel campo profughi di Lipa. Recentemente hanno ricevuto notizie da un centinaio di migranti che sono riusciti ad arrivare in UE. Dalle notizie che arrivano a Lipa, spesso con un pagamento adeguato la polizia di frontiera può chiudere un occhio o anche due.
Arriviamo a Ključ e ci fermiamo alla fine del paese, a soli due chilometri dal confine con la Republika Srpska, che come avrete capito non è un confine nazionale, ma piuttosto una frattura scomposta di questo paese così fragile.
Prima di salutarci mi propone di entrare in un bar per fare ancora due chiacchiere. Mi mostra un po’ di foto della sua escursione a Gostivar e delle foto che ha scattato sul sentiero di Medjugorje. Io le racconto un po’ dei miei progetti di viaggio e lei mi dà 60 dìnari che le sono rimasti dall’ultimo viaggio, corrispondenti a un euro. Ovviamente con un euro si possono fare molte cose in Macedonia, la vita costa meno laggiù.
Ci salutiamo con i migliori auguri e vado a fare una visita ad un piccolo cimitero musulmano a lato della strada, su una collina. Inizialmente credevo che ci fossero sepolti i morti durante la guerra, invece scopro che questo è semplicemente lo stile di questi cimiteri, di cui la Bosnia è piena. Mentre torno sulla strada con il bastone da passeggio e il cartone sotto il braccio, anche oggi la polizia mi ferma per controllarmi i documenti. In effetti visto da fuori devo sembrare davvero un migrante. Tutto a posto, mi dicono che posso anche fare l’autostop nella piazzola degli autobus lì di fronte, però siamo sotto una curva e quindi mi sposto più avanti.

13:52

La prossima destinazione è Jajce, a 50km da qui e a 150km da Sarajevo. Preparo con cura il mio cartello e alzo il pollice mentre sul rettilineo arrivano due macchine. Quella dietro è già in accelerazione, sorpassa, mi vede, accosta e frena. Dieci secondi netti e dopo questa estenuante attesa sono già a bordo.
Alla guida trovo un uomo sui 35 o 40 anni che indossa un cappello modello Trilbyarrone scuro e visto dal sedile posteriore ricorda vagamente William Brandt, quello di Mission Impossible. Non riesco a capire come si chiama, Me-qualcosa, tipo Mehsudir. Da adesso in poi si chiamerà così. Alla sua destra c’è la sorella Lejla con i capelli neri legati a coda di cavallo. Nessuno dei due parla inglese, ma riusciamo a capirci abbastanza. Lui sta accompagnando la sorella all’ospedale di Sarajevo, perciò lascio perdere la visita a Jajce e accetto di buon grado il passaggio fino alla capitale. Abitano a Cazin (si pronuncia zazin), vicino a Bihać, perciò non sono neanche a metà del loro viaggetto di 320km.
Faccio le domande a entrambi, ma risponde sempre e solo Mehsudir. Lui lavora come escavatorista, cioè guida le ruspe, mentre la sorella è infermiera. Ha un figlio di dodici anni e due figlie. Inizialmente capisco solo che ha un figlio e gli chiedo “Maschio o femmina?”, “Muško ili žensko?”
Lui scoppia a ridere e dopo poco capisco anch’io, probabilmente gli ho appena chiesto se ha un figlio uomo o donna. Naturalmente google traduttore riesce puntualmente a equivocare le parole che non hanno un contesto.
Per questo motivo, paradossalmente le risposte più articolate sono quelle più comprensibili e riesco anche a dare una risposta esaustiva su che cosa penso della Bosnia. Mi serve solo un po’ di tempo per riuscire a pronunciare lo scioglilingua di tutte queste parole di cui non conosco il significato, ma il risultato è accettabile.
Nel frattempo la Bosnia, che in realtà dovrei chiamare Republika Srpska, si è fatta montuosa e la strada sale e scende superando molti paesi, moschee e venditori ambulanti di miele e di cavoli. Come in Croazia, a quanto pare anche qui in Bosnia-Erzegovina ci sono molti ambulanti che vendono mandarini. Come mi ha spiegato Branko, le sanzioni imposte dall’UE alla Russia hanno bloccato l’esportazione di mandarini, perciò i produttori cercano di venderli all’interno del paese.

15:45

Dopo un paio d’ore arriviamo all’autostrada per Sarajevo, che è ancora piuttosto lontana. A un certo punto mi accorgo che William Brandt sta facendo a tratti i 190, come se fossimo su un’autostrada tedesca. Lui ha la stessa espressione di quando faceva i 50 in mezzo alle montagne e Lejla non fa una piega. Forse arriveremo a Sarajevo prima del tramonto, che non è male.
Usciamo dall’autostrada, imbocchiamo la strada principale verso il centro e siamo fermi, imbottigliati nel traffico. Mehsudir, impotente davanti al caos della capitale, si gira verso di me e dice solo “Sarajevo!”.
Adagio, pian piano, riusciamo a raggiungere il semaforo e riguadagnare la libertà, trovandoci nella giungla d’asfalto della città dove le auto cambiano corsia senza preavviso e la guida diventa creativa.
Finalmente raggiungiamo l’ospedale. Lejla scende e Mehsudir si gira e mi stringe la mano. Io non ho capito che sta per tornare a Cazin (zazin) e per inerzia rimango seduto dove sono, finché mi chiarisce il concetto e scendo.
Sono a 5 chilometri dal centro di Sarajevo, quindi un’ora di cammino dovrebbe bastare. Vedo i primi megaschermi di questo viaggio sulle facciate dei grattacieli, mentre percorro la strada principale verso Est. Ho bisogno di un bagno, meglio affrettare il passo.
A un certo punto passo davanti ad un edificio rettangolare, a due piani, separato dalla strada da un prato, un’alta cancellata scura, una siepe esterna e dei piloni neri alti mezzo metro. Con la coda dell’occhio vedo un uomo in piedi nell’ombra, proprio a ridosso della siepe. Che cos’ha al collo? Un fucile?
C’è una bandiera nel giardino interno, indovina un po’ quale?
Esatto, è la bandiera degli Stati Uniti e questa deve essere l’ambasciata.
Poco più avanti trovo la prima chiesa. Faccio qualche foto e poi vedo delle persone che entrano, perciò entro anch’io a vedere l’interno. Sta per iniziare la messa e decido di restare, non importa se fino a un attimo fa avevo fretta di arrivare. Nascondo bastone e cartone in un angolo e mi siedo nei banchi centrali. A quanto pare è una chiesa cattolica e qui il Signore è chiamato Gospodine, per il resto non capisco quasi niente. Dopo poco più di mezz’ora la funzione finisce ed esco dopo il canto finale perché, come Matteo e Pietro sanno bene, è così che si fa.
Nell’ambiente cittadino questo cartone mi fa sembrare proprio un migrante, il che non mi dispiace perché tiene la gente un po’ alla larga in questa città che per i miei gusti è già troppo grande. Al primo semaforo ci sono un paio di giovani dai tratti mediorientali, con alcuni anni in meno di me, che mi dicono qualcosa di incomprensibile facendo due mosse di danza, poi se ne vanno. Intanto c’è uno che sembra uno studente universitario bosniaco, vestito bene, che aspetta il verde un po’ in disparte con lo sguardo fisso di fronte a sé, si vede che abita da queste parti ed è abituato a queste cose. Ci incamminiamo contemporaneamente lungo un viale male illuminato e quasi deserto, che non mi dà molta sicurezza. Allungo il passo e cammino al pari di questo studente, dall’altro lato di un largo marciapiede. Ovviamente lui non la prende bene e accelera, provo a spiegargli che lo faccio solo per non percorrere il viale da solo, mi scuso per il disturbo e il viale è già finito. Vestito così posso solo essere frainteso, in realtà non c’era niente che potessi dire. Grazie dell’aiuto, sei libero.
Da qui in poi inizia il lungofiume e ci sono molti più turisti. Raggiungo l’ostello e trovo altri sette viaggiatori, tutti uomini. Il gestore mi spiega come funziona, pago, et voilà: sono arrivato.

19:15

La torre di Babele è piuttosto fornita. Abbiamo un settantenne turco che parla anche spagnolo e tedesco, quattro amici iraniani di 37 anni che masticano anche un po’ di inglese, un indiano di Bombay che parla hindi e inglese e un marocchino che oltre al berbero parla spagnolo arabo e francese. L’assortimento non manca.
I quattro iraniani sono diretti in Germania e dicono di essere partiti a piedi dall’Iran quattro anni fa. Non sono per niente simili tra loro, infatti alcuni vengono dal Sud-ovest vicino al mare, altri dal Nord-ovest, nel Kurdistan iraniano.
Se non si sono sbagliati, questa storia dei quattro anni di cammino è veramente impressionante.
Dopo i convenevoli iniziali, mi metto a letto e scrivo un po’, mentre alcuni escono e altri cenano. Dopo cena vado a parlare con gli iraniani per approfondire questa faccenda del viaggio a piedi.
Innanzitutto sono in viaggio da quattro mesi, che è comunque tanto. Secondo, sono arrivati a Istanbul in aereo, perciò hanno impiegato quattro mesi per raggiungere Sarajevo partendo dal confine turco. Terzo, sono migranti, cioè ufficialmente qui non esistono, si trovano ancora in Turchia.
Parlano abbastanza inglese da riuscire a capirci, quindi, sempre più sconvolto, mi faccio raccontare tutto il viaggio.
Hanno attraversato il fiume Meriç Nehri a remi, su un canotto comprato in Turchia. Arrivati dall’altra parte sono passati attraverso la vegetazione lungo la sponda, per poi attraversare la strada pattugliata dalla polizia e sparire di nuovo nel bosco dall’altra parte. Come dicono loro, qui è iniziato il gioco, “the game”. Per 22 giorni “corri corri corri” hanno attraversato “la giungla”, più di 500 chilometri attraverso i boschi delle montagne della Grecia, fino a Thessalonike (Salonicco). Lì sono riemersi, fine del gioco, e hanno preso un treno fino alla costa ionica della Grecia, per poi raggiungere il confine con l’Albania, vicino al mare. Lì “il gioco” è ricominciato e “corri corri corri” a piedi per altri 25 chilometri. A Saranda hanno preso un taxi fino al confine con il Montenegro, in un paese sperduto nei monti. Attraversano con circospezione e bam! Beccati.
“Quindi? Vi hanno riportati indietro?” “No, abbiamo pagato cento euro e siamo passati.” “Cento a testa?” “Sì.”
Fine del gioco, prendono autobus fino alla Bosnia e via, di nuovo nel gioco. “Run run run” e riemergono a Sarajevo, comprano dei vestiti nuovi per rimpiazzare quelli logorati dal viaggio e cercano un posto che li ospiti senza pretendere di registrare i dati del loro passaporto iraniano senza visto per la Bosnia-Erzegovina.
Si rimettono in forze per qualche giorno e a breve ripartiranno per la Croazia, la Slovenia, l’Italia, la Francia e la Germania. Si dividono, due attraverseranno la Bosnia con i mezzi pubblici fino al confine, gli altri andranno attraverso i boschi, che sono minati. Sono atletici, ma per rimettersi in viaggio devono acquistare un bel po’ di attrezzatura per sopportare il freddo invernale e la pioggia, non sarà per niente facile.
Perché tutto ciò? l’Iran non è neanche in guerra.
La ragione è che molti beni essenziali hanno praticamente lo stesso prezzo in buona parte del mondo. Un paio di scarpe o un vestito in Bosnia costano come in Croazia, in Slovenia o in Italia. Lo stesso vale per l’Iran. I salari in Bosnia sono praticamente dimezzati rispetto a quelli italiani e in Iran o in Azerbaijan un salario medio ammonta a circa 450€ al mese. Come a Bologna, un affitto a Baku o a Tehran costa sui 300€ al mese. All’università, i miei compagni di corso azeri mi hanno raccontato le stesse cose che sto sentendo ora riguardo all’Iran.
Non sono scappati dalla guerra o dalla carestia, dal rischio di morire. Certamente non sono neanche poveri, hanno finanze sufficienti per acquistare vari cambi di vestiti, cibo, trasporti, polizia di frontiera e attrezzatura da campeggio. In questo momento sono vestiti decisamente meglio di me. Tutto sommato, a casa non sembra neanche che stessero così male.
Eppure, alzi la mano chi pensa che sarebbe disposto a ripetere un decimo di ciò che stanno passando loro senza un motivo valido. Con davanti l’inverno e il filo spinato al confine con la Slovenia.
Il loro viaggio termina in Germania, ma è là che inizia la parte più rischiosa e difficile. L’unico piano disponibile per riottenere il diritto a stare dove si trovano è consegnarsi alla polizia e raccontare che se ne sono andati dall’Iran perché la loro vita era in pericolo, o qualcosa del genere. È l’unico modo per sperare che venga concesso loro un permesso di soggiorno, perché non possono abbandonare legalmente l’Iran. Quindi sperano, che altro possono fare?
Tra un racconto e l’altro ascolto i Pink Floyd insieme a uno di loro. Ascoltiamo It’s a Miracle, Young Lust, Wish you were here e alcune altre. Dalla sua musica preferita trae la forza per proseguire.
Tra un racconto e l’altro sprofondo in un mare di pensieri, turbato da ciò che hanno passato e da ciò che li aspetta. Vedendomi così, il mio amico prende di nuovo il telefono e scrive un pensiero su Google traduttore. Non sono per niente convinto dell’accuratezza della traduzione, quindi riporto tre versioni, nel caso qualcuno capisca l’inglese o il farsi.

La vita, nonostante le sue brutture
Ha anche della bellezza
Una vita monotona non è divertente. Una sfida va bene per qualche periodo.

Life with all its ugliness
It also has beauty.
A monotonous life is not fun. The challenge is good for some times

زندگی با تمام زشتی هایش
قشنگی هم دارد.
زندگی یکنواخت جالب نیست .چالش برای بعضی اوقات خوب است

Ci lasciamo così, con una nota felice. Ormai si è fatto tardi e si va a letto.

4 commenti su “Come visitare Sarajevo rimanendo ufficialmente in Turchia”

  1. Per quale motivo, quindi, sono partiti per l’Iran? Non te lo hanno detto? O il motivo era avere una condizione di vita migliore?

    1. La seconda che hai detto.
      Avevano lavoro là, ma con un salario di 450/500 euro al mese. È vero che la vita costa un po’ meno, ma non in proporzione ai salari. Il cibo probabilmente costa meno, ma il resto dei beni ha lo stesso prezzo sia in Italia sia qui sia in Iran. Questo vale per i cellulari, i vestiti, le automobili, gli affitti e così via.
      Già qui nei Balcani si vede la differenza, la maggior parte delle macchine ha più di 150000 km perché le comprano usate, altrimenti non se le possono permettere.
      Mi hanno raccontato le stesse cose anche i miei compagni di corso dell’Azerbaijan.

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