Chili di cera andati in fumo

Lezione di ieri: si può sempre lasciar perdere una meta per dedicare tempo a qualcuno.
Venerdì 19/02/2022 8:40 Korbouli (Georgia)
Oggi è presto, ho tempo di scrivere un po’ prima di presentarmi in sala, tanto sicuramente mezza famiglia sarà ancora a letto.
Mentre faccio colazione arriva Nikolozi, che dice di sbrigarmi perché devo seguirlo a Chiatura. Passiamo a prendere un altro padre e lasciamo Korbouli. Parcheggiamo davanti alla chiesa di Chiatura e mi rendo conto che forse avrei potuto vestirmi un po’ meglio, a saperlo prima. Troppo tardi, entro e cerco un posticino da cui posso seguire tutta la cerimonia da vicino.
A quanto pare qui si è riunito tutto il clero del circondario, ci sono una decina di preti che recitano le preghiere e di tanto in tanto attraversano l’iconistasi per avvicinarsi alla salma. Ai lati della bara della morta ci sono quattro panche, riservate ad amici stretti e parenti, mentre il resto della chiesa è vuoto come al solito e si sta in piedi. Mi sa che devo andare in bagno, ma non so dove sia. Aspetterò la fine della funzione.
Le preghiere vengono pronunciate solo dai celebranti, che cantano ad alta voce presso l’altare, o comunque laggiù nell’abside, qualunque cosa ci sia. Ogni tanto si aprono le porte di accesso ed esce il celebrante con in mano l’incensiera, per aspergere di fumo le immagini sante o la bara, a seconda delle volte. In queste rare occasioni si può intravedere l’altare retrostante.
I presenti assistono, partecipando in maniera diversa da quanto accade nelle Chiesa cattolica, in cui generalmente anche i fedeli cantano e recitano alcune preghiere durante la funzione. Questo tipo di messa è più contemplativo e spesso i fedeli tengono in mano una piccola candela gialla. Un altro tratto distintivo è il segno della croce, che viene ripetuto molte molte volte. In realtà è variabile, perché alcuni lo ripetono molto spesso e altri quasi mai, probabilmente non c’è alcun segnale particolare che indica di fare il segno della croce. Non ci avevo fatto caso quando ero a Ureki, ma tutti i georgiani fanno il segno della croce allo stesso modo, che è diverso da come lo faccio io. Invece di usare la mano aperta e toccarsi le spalle da sinistra a destra, una volta, qui usano solo le punte delle prime tre dita, giunte, da destra a sinistra, per tre volte. Non posso fare a meno di chiedermi chi possa essere stato tanto malvagio da amplificare la frattura tra cattolici e ortodossi rendendoci diversi anche in un gesto elementare come il segno della croce. Ogni tanto qualcuno mi guarda in modo un po’ strano, ma magari è solo per come sono conciato, con i vestiti da viaggio.
Nel frattempo i partecipanti vanno e vengono, accendendo candele su candele, grandi e piccole. Sicuramente non ho tempo di aspettare che i ceri si consumino, ma almeno posso togliermi la curiosità di sapere in quanto tempo bruciano le candele piccole. Dodici minuti, a quanto pare, poi arriva una signora con una candela più grande, che via via brucia fino a consumarsi lasciando un grumo di paraffina e sabbia. Trentacinque minuti. Mentalmente prendo nota di quando viene acceso un cero. Dopo un’ora e otto minuti noi siamo ancora lì e dal cero si leva un filo di fumo. Nel frattempo ho fatto un giro fuori, ma non ho capito dove sia il bagno. In chiesa sono usciti tutti i preti, riuniti intorno alla bara per quello che sembra essere il gran finale. Il più anziano deve essere padre Dwalin, perché ha la stessa faccia di uno dei nani del film “Lo hobbit”, solo con la barba tonda. Dopo mama Dwalin si alternano alcuni altri preti e dopo solo tre ore e mezza di canti la messa è finita, possiamo andare.
Rimontiamo in macchina e io mi guardo intorno mentre gli altri due chiacchierano in georgiano.
13:20
Arrivati a casa sento un rumore d’ascia. Qualcuno spacca la legna! Corro a vedere e non c’è nessuno, ma l’ascia si è spostata, non stavo sognando. Torno dentro per stare in compagnia, ma resto con le orecchie tese, in allerta.
Teodore e Avto sono fuori da qualche parte, qui ci sono Ana e Barbare, le uniche de che parlano inglese, insieme ai più piccoli Gabrieli, Tekla ed Elene. Barbare è la figlia più grande di Nikolozi e Sopo, ha dodici anni e un carattere temprato dai tre fratelli più grandi. Sopo ieri le ha consigliato di smetterla con quel gesto di sfida che fa sempre, battendo il pugno sul palmo della mano sinistra e guardando male chi si prende gioco di lei. “Non si conviene a una ragazza!” È divertentissimo vedere Barbare che cerca di dissimulare questo gesto istintivo quando ha già preparato il pugno.
15:40
Dopo pranzo faccio un altro giro con Nikolozi, a Sachkhere, per andare a fare un po’ di spesa e per cercare un foglio di lamiera nei mercati dell’usato. Questi mercati altro non sono che cortili in cui sono ammucchiati rottami vari, suddivisi per materiale e per tipo. Tra amici lo chiameremmo “negozio di bigliettini” perché da anni alleghiamo ai regali un bigliettino di auguri rigorosamente non di carta. In questo mio gruppo di amici siamo più di venti e c’è ampio spazio per sbizzarrirsi con la fantasia. Negli anni abbiamo usato di tutto, mattonelle, carta vetrata, assi di legno, lastre di alluminio, pietre dipinte, ruote di motorino, schermi di televisore, ferri di cavallo e così via.
Purtroppo non troviamo una lastra adeguata, perciò ce ne andiamo a mani vuote. Intanto uno di questi rivenditori sta spelando un grosso cavo elettrico, aprendo la guaina a colpi di accetta.
Dal giardino di casa sento una motosega, sono Luka, Teodore e Avto che hanno iniziato a fare a pezzi la quercia caduta nel cimitero. Lo sapevo che avrebbero cominciato senza di me e li raggiungo in un baleno, armato di sega.
Al momento sono in pausa e decidono di sfidarsi a braccio di ferro. Mi aggrego anch’io, solo per appurare che sei mesi di zaino in spalla hanno portato a due ottime gambe e due braccia che servono solo per trasportare le mani. Meglio tagliare un pezzo di ramo, entrando nel recinto sfasciato di una delle tombe, che si è trovato proprio sotto il dolce peso della quercia, che lo ha spiaccicato come se fosse fatto di carta.
Passiamo una buona mezz’ora a chiacchierare e tagliare, per poi trasportare la legna verso casa. Gli stumari come me in teoria non sarebbero autorizzati a rischiare di affaticarsi, ma tanto ho detto e tanto ho fatto che hanno capito che mi sto divertendo. I tre fratelli hanno una forza ammirevole, a giudicare dai tronchi imponenti che portano in giro.
Finito di ammucchiare tutto in una catasta, rientriamo a casa per la cena e poi usciamo nello stesso posto di ieri. Viene anche Gio, che oggi porta fuori una bici. Quando me la fanno provare non ci posso credere, non pedalo da quando ero a Madzharovo. È bellissimo, ma mi fermo perché altrimenti mi ritrovano a Tbilisi.
Torniamo sotto la fermata dell’autobus e questa sera hanno portato le carte francesi. Si gioca con 36 carte dal 6 all’asso, con un meccanismo simile a quello della briscola, ma il dieci, la carta prima del fante, vale dieci punti. La variante che complica la strategia è che si possono anche giocare due o tre carte contemporaneamente, se sono dello stesso seme. Io ancora non so niente e ho bisogno di capire le regole, perciò bisogna decidere se spiegarmele con il traduttore o mostrarmi come si gioca. Nessuna delle due, mi fanno sedere di fronte a Gio e Teodore mi suggerisce cosa giocare. Alla fine della partita ho quasi capito.
Giochiamo a ripetizione, io contro ciascuno degli altri, più e più volte, per ore. Niente da fare, stasera ho una fortuna devastante e ho perso solo tre partite. La regola aggiuntiva è questa: chi vince conta i punti, ma nella lingua dell’altro. Per mia fortuna contare in georgiano è facile, basta sapere come si dice venti, cento e i numeri da uno a undici. Per il resto la numerazione è sorprendentemente regolare e compatta, con una sola regola: si conta in base venti. Questo significa che il 30 è vent’-e-dieci e il 52 è du’-vent’-e-dodici. Niente eccezioni, solo scomposizione in addendi dovuta al fatto che i numeri arabi sono in base dieci e complicano la conversione. I popoli Inuit usano anch’essi un sistema numerale in base venti, ma hanno recentemente inventato dei simboli per scrivere i numeri in maniera appropriata, con un sistema più simile ai numeri romani che a quelli arabi.
A un certo punto alzo la bandiera bianca perché sto diventando troppo bravo e non vorrei infliggere una batosta troppo grossa.
Restiamo lì ancora a lungo in chiacchiere, finché non arriva una cagna che vive nel paese e si chiama Jeka. Andiamo a correre sulla crosta di neve gelata nel prato di fronte, con Jeka che si diverte a superarti e tagliarti la strada, così per non calciarla bisogna buttarsi di lato.
Mentre torniamo verso casa è ora per me di porre una domanda. “Scusate, ma la nostra pesca notturna che fine ha fatto?” “Ah la pesca, hai ragione! Beh, tu non partire, ci andiamo domani!”
Fu così che rimasi un giorno in più, aspettando la pesca. A casa nel frattempo Nikolozi sta per uscire a mungere la vacca e io come ogni sera lo seguo per osservare la procedura. Questa volta, vedendo il mio interesse mi offre di provare a mungere. Non ci penso due volte, certo, a venticinque anni sarebbe anche ora di imparare a procurarsi il latte senza supermercato. Mi siedo sul panchetto, alla luce della piccola torcia di in cellulare, e via che si prova. Sembrava facile e mi sembra di avere capito la teoria, ma la pratica del gesto è tutt’altra cosa. Provo e riprovo, ma mi sa che la volta buona sarà la prossima, da qualche altra parte nel mondo. Dichiaro la resa e Nikolozi si mette alacremente all’opera, spremendo i capezzoli dall’alto in basso, serrando progressivamente le dita dall’indice verso il mignolo. Forse mi verrebbe bene nel verso opposto, dal mignolo all’indice, ma così proprio no, non ancora.
Tornati in cucina, il mungitore chiama Ana a tradurre, per sapere se ho mai munto in vita mia. Assolutamente no, anzi sono abbastanza sicuro che i miei genitori non l’abbiano mai fatto e ho dei dubbi anche sui nonni. La nonna Eleonora dice sempre che a lei mungere faceva impressione. Praticamente nella mia famiglia non si munge da due generazioni.
Beviamo un altro bicchierino della vodka blu dell’altro giorno e restiamo ancora un po’ in compagnia, per chiudere la giornata.

2 commenti su “Chili di cera andati in fumo”

  1. Ciao Palla! È veramente appassionante leggere il tuo diario fatto di luoghi sconosciuti e persone straordinarie, sono rimasta piacevolmente stupita da quanti si siano offerti di darti un aiuto pur non conoscendoti. Dalle tue parole si percepisce tutto l’entusiasmo che ti ha spinto ad intraprendere questa esperienza. Continua così e soprattutto abbi cura di te! Un abbraccio Mamma di Manfro

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