Che cos’hanno in comune un sikh e un pirata?

Lezione di ieri: troppa umidità può disidratare.
Lunedì 27/06/2022 Patnagar (India)
Buongiorno, do una grattatina alla schiena e sono pronto. Non mi pare che sia passato nessuno, solo due tizi con la torcia ieri sera, proprio alla base dell’albero, lungo il sentiero. Fa già caldo e il telefono ha già perso un terzo di schermo, peggiora a vista d’occhio. Mentre preparo lo zaino mi fermo a riposare e a studiare i nidi delle formiche, costruiti con una tecnologia che si direbbe sconosciuta alle formiche.

Inizio della rubrica dell’ecologo:
Le liane qui attorno hanno delle foglie composte, come quelle del noce o dell’ailanto. (Se non sapete che foglie hanno il noce e l’ailanto, fate due passi fuori.) Per mezzo di un potente incantesimo, le formiche tessitrici riescono a ripiegare le lamine fogliari in modo da giustapporle e poi le saldano tra loro grazie ad una membrana bianca che sembra carta di riso. Per torcere le foglie a quel modo devono utilizzare un sistema di origine aliena analogo a quello utilizzato dagli egizi per costruire le piramidi. Tuttavia non hanno organi per secernere quella membrana, non sono api. Non sono api ma fanno le larve, le quali hanno la capacità di produrre un filo di seta. Che cos’è dunque una larva, se non una sac à poche che spara seta? Non si può forse stampare una membrana con una stampante 3D? A un certo punto della storia del mondo, un gruppo di formiche deve avere imparato a formare catene di operaie per tirare le foglie e avvicinarle abbastanza da poter impugnare le larve e spremerle per stampare membrane, una capacità banalissima. Frena, non funziona così di solito, non è che il figlio di quello che ha imparato ad accendere il fuoco con uno stecchino si chiamava James Watt e ha costruito la macchina a vapore. Non è che le formiche hanno imparato a tessere da un anno all’altro. È probabile che abbiano sviluppato queste capacità una alla volta, di solito succede così. Sicuramente però hanno continuato a studiare l’arte molto a lungo, fino a raggiungere risultati sconcertanti. La membrana sembra un unico foglio liscio senza buchi, non si intuisce che sia fatto di seta. Provo a sfiorare la membrana bianca, ma l’intera superficie del nido è sorvegliata, dieci paia di tenaglie si levano verso il mio dito, ricacciandolo indietro. Ieri ho afferrato la liana su cui lassa l’autostrada di queste due colonie, perciò in un istante mi sono salite sulla mano in cinquanta. I nidi sono bellissimi, è incredibile come le foglie siano state deformate senza romperle, così che rimangano vive ed elastiche. Queste formiche appartengono al genere Oecophylla, che significa letteralmente “casa di foglie”.
C’è una curiosità in più, esiste un ragno Salticide che ha sviluppato un aspetto molto bizzarro, precisamente quello che serve per introdursi tra le formiche senza essere riconosciuto. Ha otto zampe, ma le formiche non si perdono a contare le gambe di tutti quelli che incontrano. Quello che importa è essere del colore giusto, avere un addome proprio come quello delle formiche, detto fatto, e una testa come quella delle formiche, che non si può avere. Voglio dire, far sparire due paia di occhi non è un buon affare se sei un predatore. Tuttavia il primo che riesce ad avere anche la faccia da formica, fa una strage, quindi tanto vale provare. È così che per caso sono nati alcuni ragni con i cheliceri allungati, con un paio di macchie nere in punta, simili agli occhi delle formiche (i cheliceri dei Salticidi di solito sembrani due baffoni). Non a caso questi predoni hanno avuto fortuna e per questo motivo i ragni con il travestimento più efficace hanno diffuso la caratteristica a tutta la specie. I Myrmaplata plataleoides hanno un aspetto assurdo, chimerico, sembra che tengano in bocca una mezza formica. Oppure sembrano una formica con una testa di ragno sulla schiena. Quei cheliceri sembrano davvero una testa di formica, ma questa testa si può aprire in due, all’improvviso, per ghermire la preda. Il mio entomologo di fiducia, Giulio (che già conosceva questi ragni), aggiunge un dettaglio fondamentale. I ragni non sono simili sono nell’aspetto, ma anche nell’odore, perché le formiche hanno un olfatto ottimo. Ora chi lo riconosce più?
Fine della rubrica dell’ecologo.

Calo giù lo zaino e scendo a sistemarlo in compagnia delle zanzare tigre. Tornando alla strada per Rudrapur mi vengono incontro una ventina di bufali, ma sono bufali fifoni che scappano appena mi avvicino, abbattendo arbusti e facendo un gran baccano.
Nitin e Aman si fermano a salvarmi dalla calura, portandomi in centro a Rudrapur. Non faccio parola della notte sull’albero, sono già abbastanza stupiti del fatto che sia sbucato dalla foresta. Mi portano all’incrocio principale, da dove proseguo a piedi. Entro in un negozio per chiedere dove posso trovare un cambiavalute, e il titolare è cosi gentile da telefonare per assicurarsi che l’ufficio sia aperto e con cinquanta dollari a disposizione. Mi dà qualche indicazione sommaria e mi incammino. O meglio, proseguirei a piedi se non si fermasse un uomo in motorino a chiedermi dove vado e insiste per darmi un passaggio. Più che altro mi serve una mano a trovare il cambiavalute, così salto in sella e seguiamo google maps, che ci porta nel luogo sbagliato. Dobbiamo tornare indietro, è praticamente nel punto da cui siamo partiti. Vikki è sposato e stava andando a prendere una figlia a scuola. Deve avere meno di trentacinque anni, è felicemente sposato e in qualche modo riesce a svolgere il lavoro e a prendersi cura di entrambe le figlie, delle quali una ha la sindrome di Down. Da come parla della propria famiglia, nonostante le difficoltà quotidiane, si capisce di quanto amore sia capace quest’uomo. Non mi stupisce affatto che mi stia aiutando, con il buon cuore che deve avere. Sono commosso e grato di averti incontrato, anche se per pochi minuti.
Il cambiavalute mi stava aspettando, ma come immaginavo ha solo dollari della serie vecchia. Insistere è inutile, convincerò i nepalesi ad accettarli, in fondo cinquanta dollari sono pur sempre cinquanta dollari.
Con la mia banconota in saccoccia, ora resta da risolvere il problema del telefono. Davanti al primo negozio che vende telefoni c’è un banchetto che effettua riparazioni. Qualcuno mi aveva detto che in India questo Samsung A02 omanese non è in vendita, ma evidentemente si sbagliava. Non solo hanno lo schermo di ricambio originale, ma costa molto meno di quanto mi aspettassi, solo 2500 rupie. Sono trenta euro per rimetterlo a nuovo, se funziona davvero faccio un salto alto così. Prima è meglio spegnerlo per estrarre la scheda SD in sicurezza. No, non si può, non appena arrivo lo schermo si spegne definitivamente, con tanti auguri. Mi siedo a fare due chiacchiere in hindi con i quattro riparatori, tra i sedici e i ventun anni. Dentro il negozio però sono curiosi di sapere chi sono, così mi trasferisco volentieri in frigo, nell’ambiente condizionato oltre la vetrina. L’uomo che mi ha chiamato non riesce a capire perché mai uno dovrebbe riparare un telefono invece di comprarne uno nuovo. Gli spiego che trovo semplicemente sbagliato buttare via tutto il telefono se a non funzionare è solo una parte, è come ammaccare un cerchione e buttare via tutta la macchina. Non è solo una questione di risparmio, è che c’è gente che muore per produrre i telefoni, le terre rare di cui sono fatti causano guerre civili e vengono estratte in condizioni di lavoro disumane. Alla seconda volta che me lo chiede però lascio perdere, è simpatico ma proprio non ci arriva. Mi chiede che telefono è, poi commenta “Beh, perché non hai un iphone?” Già, non ci avevo pensato, perché non ho un iphone dato che sono europeo e quindi sono ricco?
È così, lui ha un Samsung Hal 9000 con lo schermo che si piega e perciò io non dovrei essere da meno. Tuttavia sono da meno e pensavo che quegli schermi fossero ancora fantascienza, così ne approfitto per dare un’occhiata da vicino.
Nel frattempo il mio telefono è pronto e insalamato con gli elastici per tenere lo schermo in posa per almeno due ore, mentre si rapprende la colla. Meglio tornare nel negozio per raffreddarlo, fuori si bolle. Lo schermo funziona perfettamente, mi faccio aggiungere anche un salvaschermo ed è come nuovo, meraviglioso.
Parti verso la prossima meta, che è Kiccha. Ancora una volta un motociclista previene la mia fatica offrendosi di trasportarmi. Non mi ricordo il suo nome, lo chiamerò Pavan. Mentre parliamo delle mie prossime destinazioni, Pavan mi racconta di essere tornato in patria lo scorso agosto, dopo essere stato per due anni a lavorare in Myanmar. Mi sorge spontaneo chiedere come sia la situazione laggiù, ma la risposta non è quella che mi aspetterei. Pavan dice chiaro e tondo che quello che si racconta sul Myanmar non rispecchia la realtà quotidiana del paese. È vero che il governo è una dittatura militare, certo, ma lui ha vissuto e lavorato normalmente perché la situazione per strada è normale, semmai può succedere qualcosa a Yangon, ma il resto del paese è del tutto diverso dallo scenario mostrato nei telegiornali. È interessante, ma penso che sfrutterò comunque la reputazione del Myanmar come scusa per prendere un aereo e accelerare un po’ il viaggio, altrimenti in Italia ci arrivo da vecchio.
Ci salutiamo alla fine della circonvallazione di Rudrapur, dove in un attimo fermo una macchina guidata da un sikh. Ormai sono uno specialista. A guidarla è Palvindar Singh, che parla solo hindi e sta andando soltanto a cento metri da qui per controllare lo stato delle riparazioni del proprio camion. Non potendo darmi un passaggio, mi chiede se ho pranzato e mi offre di andare a pranzo da lui. Accetto molto volentieri, così mi porta a casa propria, al primo piano, e ci sediamo in camera da letto. L’appartamento è molto semplice, c’è la cucina, una camera da letto matrimoniale e un’altra stanza intermedia, che ora è vuota perché i due figli di Palvindar sono in Canada a studiare. La moglie Baajitko è già pronta a cuocere il riso, scaldare la zuppa di legumi e preparare il roti. Prima di subito portano una caraffa di lassi ben pepato, perché il cibo senza spezie è severamente vietato in India. D’altronde è così che i cibi indiani acquisiscono quei sapori speciali e stanno bene insieme.
“Vuoi altro riso.” “No sono a posto”
“Allora prendi un po’ di legumi e di salsa e di pezzetti di mango.” “Mmh, credo che servirà altro riso per finire tutto.”
Appena finito di mangiare siamo già pronti per ripartire. Riempio la borraccia di acquaa fresca e il buon Palvindar mi riporta dove mi ha trovato. Non manco di fare una foto alla dotazione sikh della sua macchina, che le dà un’aria piratesca. In virtù delle proprie prerogative di sikh, da sotto al sedile spunta il manico di un’autentica sciabola.
Lungo la strada dritta per Kiccha fermare qualcuno non è semplice fermare qualcuno, ma i motociclisti sono sempre dispinibili, tanto qui il casco è usato soprattutto come gomitiera. Ankit in realtà porta il casco e io non mi sento molto tranquillo a salire sulle moto in continuazione, perché in fondo bisogna riconoscere che gli indiani non sono capaci di guidare. Tuttavia Ankit insiste e non capisce, o forse capisce e insiste lo stesso, fatto sta che è così indiano zuccone che mi convince. Le macchine in realtà sono poche su questa strada, in un attimo arriviamo a Kiccha e ci fermiamo al primo distributore di benzina.
Torno sulla strada e si ferma Bikram Singh, che pero svolta poco più avanti per andare a casa propria. È un insegnante di inglese di Kichha e pertanto riusciamo a parlare senza fatica. Mi chiede se ho sete e se posso fermarmi da lui per un tè rapidissimo, così accetto questo nuovo invito, Khutar non è così lontana ormai. Le perle di questo viaggio sono proprio le piccole occasioni di entrare nelle case e stare a contatto con questi benefattori così gentili. Ogni volta aggiungo un piccolo tassello a un’opera d’arte bellissima di cui non riesco ancora a intuire il disegno. Lungo la strada percorsa fin qui si inizia a capire qualcosa, ma l’immagine è ancora lontana dall’essere completa, se mai lo sarà. In verità questi tasselli non sono in numero finito, ma un viaggio completo fornisce un’immagine coerente, anche se senza cornice.
Non c’è solo il tè, ma anche i biscotti e una specie di noodles fritti, da mangiare a manciate come patatine. C’è anche la madre di Bikram in casa, mentre i suoi figli sono ancora a scuola. Non siamo lontani dalla circonvallazione di Kichha, ma mi riporta indietro in macchina. Lo ringrazio quanto posso e riprendo la via, salendo in macchina con Abijis e Rudra, che stanno andando alla propria tenuta, una sorta di fattoria nella periferia di Kichha. Mi invitano a seguirli, ma la mia destinazione ora mi aspetta e io sono in ritardo, ho deciso che è ora di lasciare l’India. Scendo proprio sulla curva per Sitarganj, dove le macchine vanno piuttosto spedite. Non è facile neanche fermare i camion secondo me.
Mi sbagliavo, un camionista si ferma per capire se ho bisogno di una mano. Io in realtà volevo un’auto, così mentre sto ancora spiegando al camionista dove vado, riesco a fermare anche una macchina. Ringrazio molto il camionista e mi precipito verso l’auto, giudata da due miei coetanei che sono chiaramente in vacanza. Non solo, uno dei due ha gli scarponi ai piedi, staranno andando a fare un trekking? Per adesso cerchiamo di fare spazio sui sedili, perché la macchina è già piuttosto piena.
I due si chiamano Phorev (ricordo che ph in India si legge p-h, non f) e Roben, provenienti dall’Himachal Pradesh. È la prima volta che lasciano l’India e sono anni che progettano questo viaggio. In teoria avrebbero voluto prendersi due settimane di ferie, ma in pratica hanno solo sei giorni. Sono partiti da Shimla questa mattina e Roben ha guidato a sassata recuperando un’ora sulle dodici previste dal navigatore. In India va considerata un’impresa eroica.
Si sono fermati intuendo che anche io sono un viaggiatore diretto in Nepal. Tuttavia loro entreranno dal confine di Banbasa e non sono i primi in questi due giorni a hiederki perché mai ho scelto proprio l’altro confine lontano e scomodo. Ero diffidente, mi sembrava che il confine di Banbasa fosse piccolo e magari chiuso. Ormai però è il caso di ritrattare e compilare un nuovo modulo, cambiando punto di ingresso. In questo modo posso seguire Phorev e Roben, che vanno a Kathmandu.
Mentre chiacchieriamo, Phorev sorseggia una bibita e mi racconta della loro passione per la montagna, aggiungendo che la prossima volta che tornerò in India devo assolutamente visitare anche l’Himachal Pradesh. “Ma come guida questo?!” Non sono abituati alla guida indiana normale, dicono che da loro la gente è capace di andare per strada. Che l’Himachal non sia India? Ne ho conferma quando Phorev finisce la bibita, ci rimango stecchito. Mi aspetto che abbassi il finestrino, invece inizia a cercare una borsina per usarlada sacchetto del pattume. “Ma cosa fai, sei impazzito? Ti interessi all’ambiente? Non hai detto di essere indiano?” “Nell’Himachal di solito non gettiamo fuori la spazzatura.” D’accordo, ho capito, la prossima volta andrò sicuramente lassù a Nordovest per vederlo con i miei occhi, stento a crederci.
Mentre procediamo, cambio destinazione e in men che non si dica siamo a Banbasa a comprare frutta al mercato. A me serve anche un altro ingrediente, l’olio di senape decantato da Shuvam, ho grandi progetti per lui. Devo solo riuscire a trovare gli ingredienti giusti per preparare la bsisa e posso usare quell’olio per sostentarmi durante il trekking. La marca migliore è disponibile solo in bottiglie da un litro, ma non è un problema, lo finirò. Paga Phorev per tutto quanto perché chiede di fare un conto unico ma non vuole niente per i manghi e per l’olio. Tutto offerto perché siamo in India.
Poco dopo arriviamo sulla strada sterrata che porta al confine. Calma però, io sono speciale e devo farmi registrare all’uscita dall’India. Come mi aveva anticipato Leron a Delhi, l’ufficiale apre un grosso registro cartaceo e trascrive i miei dati e quelli del visto, in modo che restino negli annali. Chi mai aprirà quei registri per consultarli? No no, sono sicuramente imprescindibili.
Il ponte è chiuso, perciò aspettiamo per un’ora, sudando a stare fermi perché la giornata non è esattamente fresca.
Ci lasciano passare e partiamo per il Nepal! No, non così in fretta, io sono speciale e bisogna trascrivere i miei dati su un registro, scherziamo? La copiatura avviene una lettera alla volta, interrotta da un tizioa caso che arriva con un foglio e decide che non può aspettare due minuti, io invece ne posso aspettare quattro.
Appena finito, appena convinto il terzo punto di controllo che ho già dichiarato i miei dati al sacro registro, mi lancio di buon passo verso i miei amici, che mi stanno aspettando più avanti sulla strada sterrata. Mi supera un uomo che sta correndo con il cane, così anch’io parto di corsa, ridendomela perché mai mi sarei aspettato di trovarmi a fare jogging con lo zaino in un passaggio di frontiera.
Ho fatto bene a correre perché a quanto pare i confine chiuderà alle sette e considerando il quarto d’ora di fuso orario mancano solamente dieci minuti. Superiamo un cancello, la strada fa una U, poi un’altra, all’interno di una zona recintata e piena di case e negozi. È situata nella terra di nessuno, ci sarann in giro almeno cento cittadini di nessuno che vivono qui, apparentemente senza motivo. Non c’è niente qui, che sia già suolo nepalese?
Procediamo fino all’ufficio dove registrare l’ingresso dell’auto, ma io devo correre indietro a cercare l’ufficio immigrazione, che evidentemente abbiamo passato senza accorgercene. È efficientissima la polizia di frontiera nepalese.
All’ufficio pare non ci sia nessuno, ma chiamando sbuca fuori l’addetto all’ufficio, in bermuda e canottiera. Sembra di essere alle Hawaii Bisogna inviare per email i documenti richiesti, così mi collego al lentissimo wifi e invio. Aspettiamo, aspettiamo, ma questa email non arriva, ci mette venti minuti per apparire sullo schermo qui accanto, nonostante i cintinui aggiornamenti della pagina. Della seconda email che ho mandato invece non c’è traccia, ma l’ho inviata dieci minuti dopo perciò è normale che serva più tempo. Dopo dieci minuti arriva anche lei insieme al superiore dell’uomo in canottiera. Essendo un suo superiore, è vestito con una maglietta. Come immaginavo, storcono il naso vedendo i miei cinquanta dollari del 2017, ma io ho solo questi e sono veri dollari, cosa vogliamo fare? Diciamo che vanno bene. Prendono i miei dati e una volta che il computer è soddisfatto posso scappare via, perché sono passati quaranta minuti, è buio e i miei compari stanno per partire.
Credono di stare per partire, in realtà ci siamo persi un altro ufficio in cui ottenere un permesso di circolazione. Torniamo i dietro, in una strada non illuminata, trovando dietro un cancello socchiuso un edificio che per esclusione deve essere l’ufficio che cerchiamo. Solo che è chiuso, che facciamo? Due minuti dopo ritornano da una passeggiata tre tizi vestiti in divisa da calcetto informale, che sono proprio quelli che cercavamo. Dieci minuti dopo siamo pronti per partire alla volta del Nepal. Roben e Phorev non sono affatto contenti di questo permesso che costa un euro e mezzo al giorno, perché lo hanno pagato due euro. Semplicemente quei tre hanno detto che se non sono disposti a pagare di più possono tornare domattina. Non male come primo approccio con l’onestà del governo.
Frustrati, tornano in macchina e partiamo verso Est, lungo la strada principale del Nepal, che attraversa città e parchi nazionali, fino alla capitale. L’asfalto è buono, ma ben presto troviamo il posto di blocco al confine di un parco. Il poliziotto ci lascia passare, a patto che andiamo alla stessa velocità dell’autobus di linea qui davanti. La stessa velocità sono i quaranta all’ora, più piano che in motorino. La giungla è magnifica anche di notte, per me che non ho fretta di arrivare è un peccato non potersi fermare qui, ma il mio scopo è vedere l’Himalaya, non posso visitare tutto il Nepal in un mese solo.
Facciamo una sosta al supermercato, perché qui i supermercati esistono. Entro nella porta accanto per cercare di fare bancomat, ma queste due banche applicano una commissione di cinque euro su tutti i prelievi degli stranieri. Mi consolo perché la cabina del bancomat è piena di gechi, che cerco invano di acchiappare. Attraversiamo la strada e ci fermiamo a mangiare riso e lenticchie, che pagherei in rupie indiane se i miei due autisti mi lasciassero, ma non c’è verso, dicono “Domani”.
Due ore dopo si è fatta l’una di notte, io stavo già sonnecchiando, ma siamo fermi da diversi minuti all’ennesimo posto di blocco, dove un giovane ufficiale sta controllando un’altra volta i documenti dell’auto. Sostiene che il permesso non sia valido per proseguire oltre, perché manca una spunta nella casella “tutto il Nepal” anche se il permesso che Roben e Phorev hanno richiesto era espressamente quello giusto. Li hanno fregati due volte in un colpo solo. L’ufficiale è inamovibile, perciò passeremo la notte a Nepalganj, per andare domani nella città vicina al confine e ottenere il permesso giusto.
“Tu dove dormirai stanotte?” mi chiedono. Apro la mappa satellitare per controllare la disponibilità. Un chilometro più avanti c’è una zona forestata, proprio in un quadrante della rotonda centrale di Nepalganj. Direi che andrò lì, mi sembra un posticino tranquillo e con una vasta disponibilità di camere. I miei amici si guardano e ci fanno un pensierino, poi pensano all’aria condizionata e pensano ai materassi e la scelta è già fatta.
Mi danno un passaggio fino alla strada accanto al bosco, che fortunatamente è buia e nasconde le mie mosse. Ci salutiamo e se mi serve un passaggio per Kathmandu ci rivedremo domani.
Se ne vanno e io sparisco nel fogliame, che in questo luogo è particolarmente fitto e intricato, non sarebbe male avere un machete per aprirsi la via. Non solo, dopo pochi metri mi trovo la strada sbarrata da una grossa conca profonda uno o due metri e dalle pareti ripide. Tento di aggirarla e ne trovo un’altra poco oltre, poi un’altra ancora. L’erosione si deve essere divertita qui, senza dubbio. Trovo una buca attraversabile e risalgo dall’altra parte, solo per trovare un’ulteriore voragine che mi sbarra la strada. Ho già perso di vista le luci delle case, questa zona può andare bene. Basta solo trovare due alberi con un po’ di spazio libero in mezzo, senza un metro d’erba e arbusti a ostruire il passaggio. Non è per niente facile muoversi qui in mezzo e bisogna badare a dove si mettono i piedi, vorrei evitare di pestare un serpente o qualcosa del genere. Già, i serpenti, Temuri a Magnetiti era tanto in pensiero perché l’India è piena di serpenti, ma io in un mese e mezzo di India non ne ho visto neanche mezzo. Sono andato anche nella giungla, ma niente.
Qui piuttosto che ai serpenti devo stare attento a non pestare le chiocciole enormi, che hanno una conchiglia appuntita lunga 10-15cm, striata in verticale di marrone e di bianco. Poco dopo mi si posa addosso addirittura una libellula.
Vago tra l’erba alta e gli arbusti, seguo una sorta di percorso battuto e proprio accanto trovo un punto adeguato. Non offre garanzie assolute rispetto alle visite mattutine, ma sicuramente per la notte non ci saranno problemi in questo senso. I problemi veri sono altri, me ne accorgo in fretta. C’è pieno di zanzare e questi 34°C sembrano i 43 del Rajastan. Sto semplicemente legando una corda e grondo sudore come mai prima d’ora. Nascondo lo zaino nel folto dell’erba e mi rifugio nella zanzariera, sigillata ad entrambe le estremità. Sono già senza maglia, ma con questa umidità continuo a sudare copiosamente anche da fermo, tutto quello che posso fare è bere e aspettare che la temperatura cali di un paio di gradi, ci potrebbe volere un’ora o due. Intanto scrivo sul mio bellissimo schermo nuovo.
Sono entrate due zanzare che mi hanno punto sui piedi, un affronto che proprio non tollero, è quasi grave come pungermi sulle mani. Un attimo dopo non ci sono più, ma se sono entrate è perché fuori infuria un assalto furioso. Una bella grattata alla schiena e continuo ad aspettare che la temperatura migliori, spero che l’amaca bagnata aiuti almeno a respingere l’assalto alla mia schiena.
Aria condizionata, camera d’albergo? Al diavolo, non c’è vita là dentro, è comunque meglio qui.

3 commenti su “Che cos’hanno in comune un sikh e un pirata?”

  1. 07/08/2022 – AUGURISSIMI RICCARDO!!!!!
    Ebbene sì, eccoti arrivato a 26 anni, grande viaggiatore!
    Stai sicuramente festeggiando il tuo compleanno in modo molto speciale, visto che sei in una foresta in Thailandia (spoiler… lo potevo dire?).
    Trovo molto bella la tua riflessione sulle perle di questo viaggio e mi emoziona molto quando scrivi “…Ogni volta aggiungo un piccolo tassello a un’opera d’arte bellissima di cui non riesco ancora a intuire il disegno…”
    Tu sai davvero apprezzare le “piccole” cose, che poi piccole non sono per niente. Chi ti offre il suo tempo e ti lascia conoscere un poco della sua anima, ti sta facendo il dono più prezioso.
    La tua bontà d’animo viene riconosciuta e premiata quotidianamente.
    Sei uno spirito libero, perché non ti lasci condizionare facilmente e sai quello che vuoi.
    Sento che stai vivendo un’esperienza meravigliosa, stai realizzando il tuo sogno e noi siamo molto orgogliosi di Te.
    Con immenso amore
    Mamma e Papà

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *