Lezione di ieri: I confini sono strani, per prima cosa consulta le mappe.
Martedì 09/05/2022 Kumily (Kerala, India)
C’è qualcuno che parla, a un passo dell’amaca. Alzo la zanzariera e scopro un ranger dell’esercito indiano, in divisa mimetica, che parla nella ricetrasmittente e nel frattempo mi guarda molto storto. A differenza della mia faccia bianca, la sua è quasi nera e mimetica. Ecco un’altra utilità della carnagione scura.
“Chi sei? Come sei entrato?”
Ecco, sono dentro al parco, ma come è possibile che sia dentro il parco? Che succede adesso? Spero niente, anch’io sono una specie protetta, in quanto turista. Vuole sapere brevemente da quanto tempo sono qui, come sono entrato e se so che questo è un parco nazionale, con le tigri, i bufali, gli elefanti e altre belve. “Raccogli le tue cose, in fretta.”
Mentre riavvolgo la mia casa arriva un secondo ranger, altrettanto scuro e mimetico, che vuole sapere di nuovo tutta la storia. Dicono che adesso dovrò andare a spiegare tutto quanto all’ufficio qui dietro, da dove provenivano le luci che ho visto ieri notte. Forse allora non è prevista alcuna multa, si tratta solo di fornire spiegazioni va tutto bene. Non sono un bracconiere di tigri, solo un campeggiatore abusivo.
Passano anche due donne europee o americane, accompagnate da un terzo ranger, che evidentemente sono mie colleghe. Hanno in mano un binocolo e un blocco note per raccogliere dati. Lo zaino è pronto. “Seguici!” dicono i ranger. “Un attimo”, ribatto io, “lasciate che faccia sparire le tracce del mio fuoco microscopico e le bucce di mango. Quando campeggio non è mia abitudine lasciare tracce. L’avrei fatto comunque e mi sembra giusto far notare che, di tutti i trasgressori che gli potevano capitare, questa volta hanno trovato un ecologo.
Mentre ci allontaniamo dal luogo del misfatto, il primo ranger mi spiega che avere un turista nel parco è pericoloso, per due ragioni. La prima è banale, potrei essere caricato o morso o mangiato da un animale selvatico, con gravissima lesione di immagine del parco e del governo. Ma soprattutto, se per caso qualcuno mi avesse notato prima di loro, avrebbe potuto scattare delle foto. Le foto sarebbero finite nella redazione di un giornale e i ranger dormiglioni sarebbero finiti in prima pagina. A questo in effetti non avevo pensato. Sono tremendi questi giornalisti.
Quando arrivo, trovo una mappa del parco appesa in ufficio. Il confine del parco ha una protuberanza che arriva fino al muro e agli alberghi, anche se la zona viene trattata come pattumiera.
Il comandante si fa raccontare di nuovo tutta la storia, poi mi porge un foglio bianco e una biro. Basta che scriva in che circostanze sono entranto, che ho compreso il mio errore e le mie scuse. Tutto qua, una volta finito posso andare.
Essendo ormai abituato a scrivere pagine e pagine, mi faccio prendere la mano e riempio tutto il foglio, chiedendo due minuti in più per finire il tema. Saluto e alzo i tacchi, buona giornata e grazie della clemenza.
Rifaccio il giro, fino alla cancellata di ingresso. Un tizio mi illustra i safari che organizza con la propria jeep, con dei prezzi esagerati per le mie tasche. Il vero problema non sono i prezzi, ma la mia necessità di camminare, non posso girare nella foresta sulle ruote,
sarebbe una tortura orribile.
Sono già le otto, ho otto ore per la visita. “Che regole ci sono all’interno del parco?” “Niente di particolare, comunque le troverai scritte all’interno” Pago il biglietto, quattrocento rupie, più cinquanta rupie perché ho una macchina fotografica. Per il permesso di registrare video sarebbero duecento, ma la mia gopro è piccina e ha lo sconto come i bambini. Si possono acquistare i biglietti per i tour a piedi e il giro in barca direttamente nel parco, quindi mi incammino lungo la strada asfaltata, in attesa che inizi il sentiero. Supero le case di un villaggio di pescatori, che sono gli unici autorizzati a vivere qui dentro, avendo abitato qui per secoli.
Mentre avvisto uccellini su uccellini, leggo i cartelli lungo la strada, che spiegano le regole di comportamento nel parco. Niente di strano, finché: “Proseguire oltre questo sentiero è reato.” Vuol forse dire che si può camminare solo fino al lago, sull’asfalto?
Con questo terribile presentimento, avanzo a lunghe falcate fino al botteghino che vende i biglietti per il battello. Il battello risale il lago, ma non arriva ad un’altra zona dove si possano esplorare i dintorni. Arriva alla terrazza di un bar, dove si può restare fermi oppure tornare indietro. Non è possibile camminare gratis, serve un permesso di trekking. A seconda della durata e della zona del parco, i prezzo ha quattro o cinque cifre. Però non organizzano un trekking con un turista solo, serve almeno un piccolo gruppo. L’alternativa è fare una visita autoguidata, cioè camminare da solo lungo un sentiero ai margini del parco. L’unico modo per sapere se ci sono altri turisti è tornare all’ingresso del parco e chiedere in biglietteria. È proprio per questo che ho chiesto quali sono le regole del parco, diavolo!
Torno indietro, per forza, cercando di decidere il da farsi. Non è una cattiva idea, perché in alto tra gli alberi noto un coso peloso che cammina sui rami. È decisamente più grosso di un gatto, ma guardando meglio pare proprio che sia uno scoiattolo. Uno scoiattolo gigante! Bellissimo! Cammino fuori dalla strada, nell’erba, in cerca di insetti, ragni e altri piccoli abitanti del parco. Un buon biologo sa come trovare meraviglie anche in ambienti ostili. Non è difficile trovare un insetto foglia rosso brillante, nascosto nell’erba verde. Non so perché sia rosso, ma sicuramente so che non sta fermo e non riesco a fotografarlo come si deve. A metà strada mi fermo in un prato ad aprire la noce di cocco. Mentre attraverso l’erba, trovo una rana molto carina, subito acchiappata e fotografata. Ora è giunto il momento di aprire il cocco e festeggiare. Per chi non lo sapesse, i frangipani non sono l’unico ricordo tramandato dai tempi del viaggio di nozze dei miei, ma è passato alla storia anche il mitologico Piripurutu, un nativo delle isole Cook. Si raccontano prodigi sul suo conto, forse avrebbe potuto anche scalare una palma da cocco con le mani dietro la schiena. Venendo ai fatti, Piripurutu era senz’altro un artista nell’apertura dei cocchi, possedendo il già citato “sovermân”. Con tre bastonate ben assestate, levava dalle noci di cocco un tappo grande come una moneta, in modo che si potesse bere agevolmente. Alla fine delle due settimane di permanenza e allenamento, anche il papà era diventato abbastanza bravo. Io, in quanto figlio, bisogna che impari le tecniche di sopravvivenza di base.
Trovo solo un pezzo di mattone, e dopo trecento colpi bene assestati riesco a far crepare un triangolino di scorza, in modo da poter bere. Non agevolmente, ma ho ancora tanti cocchi davanti a me.
Lascio le zanzare a bocca asciutta, tornando alla strada principale. È solo per caso che poso lo sguardo su un grosso tronco, ma sul tronco c’è un insetto con una forma che non ho nai visto. Sembra un incrocio tra una falena colorata e una cicala, con un lunghissimo naso che curva all’insù. Il mio entomologo di fiducia mi ha detto che è un Fulgoridae. Uno può pagare un safari e sfrecciare nella foresta, sperando di vedere elefanti e cervi, ma si perderebbe tutti i piccoli animali che ho trovato finora. Sicuramente gli elefanti sarebbero più spettacolari, ma non ho necessità di vederli per forza.
Alla biglietteria sembra che non ci siano
altri turisti interessati a camminare, così non mi resta che la visita autoguidata, all’insegna del risparmio. Cento rupie per camminare su un sentiero parallelo alla strada asfaltata, lungo un chilometro e mezzo. Già, un miserabile chilometro e mezzo, da percorrere entro mezz’ora senza allontanarsi di un passo dalla via tracciata. Dovrò farmelo bastare, trovando un compromesso riguardo all’orario. Vengo accompagnato all’inizio del sentiero da una delle guardie forestali all’ingresso del parco, e già temo che abbia deciso di accompagnarmi, maledizione. Invece no, mi mostra l’ingresso del sentiero, dice che ho un’ora di tempo e mi rimbocca i pantaloni dentro alle calze, perché mi ha appena morso una sanguisuga. Non mi sono accorto di niente, fino a quando ho visto una grossa macchia di sangue, giusto ora. È la prima volta che mi morde una sanguisuga.
Seguendo il sentiero, gli uccellini mi tengono parecchio impegnato, finché mi imbatto in un paio di cervi e un cerbiatto, al pascolo. Naturalmente non incontro nessun altro lungo la via, perché gli indiani vogliono solo andare al bar sul lago a scattarsi le foto. Meglio per me, che vedo più buceri, pappagalli e piccoli uccelli neri dalla coda lunghissima. Poi trovo una dozzina di cervi e tanti altri uccelli variopinti. Non è male avere un binocolo in questi casi.
Finisco la camminata in ben più di un’ora, meglio che mi fermi per asciugarmi e per ripulire lo zaino dai ramoscelli e dai pezzetti di licheni. Aspetta, questa briciola si sta muovendo, è un bruco! Com’è possibile che ogni minuscola briciola di foresta sia interessante, un qualche modo? È sbalorditivo.
Adesso posso tornare indietro seguendo il sentiero, come se fossi venuto fino a qui lungo la strada asfaltata. Magari potrei anche sbagliare strada, nonostante i cento cartelli naturalistici e le indicazioni. Ci sono diversi bivi che secondo me si ricongiungono al sentiero principale. Se cambio strada, sicuramente vedrò bestiole diverse. Magari un elefante.
Il sentiero secondario che ho individuato forse viene usato dagli abitanti locali o dai ranger, doventa sempre più piccolo finché devo indovinare la via per proseguire. Va a finire che scendo in un piccolo avvallamento paludoso, faccia a faccia con un gruppo di poderosi bufali neri, incerti sul da farsi. Questa incertezza mi allarma, perciò scatto una foto e arretro, non è normale che non siano già fuggiti. Ora sono piuttosto perso e abbastanza fuori sentiero.
Prendo mappa e bussola, tagliando verso Sudovest, con le orecchie tese per evitare incontri con altri esseri umani in divisa. Torno in fretta sulla retta via, vedo parecchi altri cervi e uccelli, fino a raggiungere l’uscita del parco lungo la strada asfaltata. Fatto il misfatto.
Pensavo di fare una visita veloce, ma si è protratta fino a metà pomeriggio. Torno nel centro di Kumily e prendo la strada per Madurai. Lo so che Madurai non è proprio nella direzione del Pakistan, ma c’è un tempio bellissimo che hanno visitato anche Emeline e Viktor, i miei cari apripista francesi, che al momento sono in Sri Lanka. La seconda ragione è che il Kerala è uno stato pessimo per spostarsi velocemente, mentre mi hanno detto che in Tamil Nadu ci sono le autostrade. Proprio alla rotonda di Kumily incontro un uomo bianco. Si chiama Raphael, è tedesco e sta andando da Chennai verso Kochi. Ha visitato il parco questa mattina, con un safari organizzato. “Che cosa avete visto?” Non è molto soddisfatto, hanno visto tanti paesaggi, alcuni cervi, ma niente elefanti e neanche tigri. E neanche rane né insetti strani, aggiungerei io.
Supero la piazzola degli autobus per Madurai, ma vengo fermato al posto di blocco della polizia. Non si può proseguire a piedi perché la strada attraversa la periferia del parco. Non si può neanche sostare qui a scrivere la nuova destinazione sul cartone, bisogna che me ne vada. Aspetto un passaggio, mentre più di un passante mi informa che i pullman per Madurai sono là dietro. “Lo so, grazie.”
Per fortuna, il pio Elam ferma il motorino accanto a me, chiedendomi se voglio montare a bordo. Ho già dei precedenti, sono stato in moto anche ieri l’altro, perciò giro il marsupio, mi siedo dietro Elam e partiamo, passando la sbarra della polizia. Vedendomi passare, gridano qualcosa di incomprensibile, forse dicono qualcosa a proposito della mia testa senza casco. Del resto, stiamo per discendere una strada di montagna. Con tornanti ciechi? È un classico; andiamo!
Lasciando Kumily, lascio anche il Kerala. Dopo solo tre giorni, eccomi nel Tamil Nadu. Facciamo anche due chiacchiere mentre scendiamo, mi pare di aver inteso che Elam lavori nel campo dell’informatica, il vento ha portato via il resto. Ha famiglia, figli e tutto, quanto, io invece no. Il paesaggio è mozzafiato, perché la strada attraversa la foresta tropicale, coperta dalle solite nuvole pomeridiane e da una leggera foschia. Ci fermiamo anche per fare una foto, per poi scendere giù giù fino a Gudalur, il primo paese oltre il posto di blocco a valle.
Scendo e spero in un altro passaggio, nonostante il sole sia già molto vicino alla cresta della montagna. Dopo quasi mezz’ora, salgo a bordo di un piccolo camion. Alla guida c’è Babu, che ha già passato i cinquant’anni ed è originario del Kerala. Invece dei pantaloni, porta il lungi, che sarebbe una striscia di stoffa avvolta in vita, che lascia scoperte le caviglie. Sta trasportando un carico di ananas fino a Madurai, bingo! Se arriviamo prima delle dieci di sera potremo arrivare in città, altrimenti ci fermeremo fuori e arriveremo domani. Non capisco cosa voglia dire, ma staremo a vedere. Nonostante sia in India da due giorni, cercando di allenare l’orecchio all’accento di qui, gli amici che incontro non fanno che portare la difficoltà a nuovi livelli. Prima Elam affidava le parole al vento, adesso Babu che non sa tanto inglese e deve superare il rumore di questa vecchia carretta con i finestrini aperti. Cerca spesso di cambiare posizione sul sedile, perché gli fa malissimo la schiena. Mi racconta di essere partito stamattina alle cinque con questo carico di ananas, lasciando la città di Muvattupuzha. Da stamattina lui ha guidato, sfidando il traffico del Kerala, le curve e le buche lungo la strada, che ammaccano gli ananas.
Mi chiede se dobbiamo fermarci a comprare qualcosa lungo la via, per la mia cena. Lui non può mangiare perché altrimenti rischia di addormentarsi sul volante. Sta fumando parecchio per restare sveglio, perché è visibilmente stanco morto.
Mentre superiamo Theni, cala l’oscurità. C’è ancora abbastanza luce per notare un operaio che sta costruendo la struttura portante di un piccolo edificio. L’armatura delle pareti è già ultimata, ma va rifilata in cima. Quest’uomo sta in piedi su una scala a pioli appoggiata contro la parete, fatta di lamiera. Ha addosso dei validi dispositivi di protezione indiani: ciabatte, lungi e maglietta. La scala non è molto alta, ma lui riesce a vedere il punto dove deve tagliare con la smerigliatrice. Alle ultimissime luci del giorno, quest’uomo sta cercando di sfruttare gli ultimi minuti disponibili. Dà un’occhiata al lavoro, posiziona la smerigliatrice, la accende, poi abbassa la testa e taglia. In piedi su una scala, in infradito e quasi al buio, a fare la doccia con la limatura di ferro. Benvenuti nel Tamil Nadu.
Sono le nove quando Babu accosta a sinistra, per sgranchirsi le gambe e dare sollievo alla schiena. Dopo le dieci di sera nessuno può entrare a Madurai, ma noi abbiamo appena superato il posto di blocco e adesso Babu tira un sospiro di sollevo, attraverso l’ennesima sigaretta. È fatta, ormai.
Prima di ripartire è opportuna anche una pisciatina, qui lungo la strada. È interessante anche questo, perché indossando il lungi si riesce a fare la pipì accovacciati, che dà molto meno nell’occhio.
Ripartendo, mi rendo conto che i cartelli sono scritti con un alfabeto nuovo, e anche la lingua è cambiata. Babu, nonostante commerci spesso con Madurai, conosce solo alcune parole di Tamil. Malayalam e inglese sono già abbastanza, per lui così come per la maggior parte degli indiani che vivono a Est di Kumily. Diamo per scontato che in tutta l”India si parli hindi, ma non è affatto così.
In città non so dove andare, così seguo Babu fino a destinazione. Ci accoglie un uomo vestito con lungi, camicia bianca e una sorta di turbante rosa. Alza una serranda, oltre la quale sta dormendo un suo socio in affari. Insieme iniziano a scaricare gli ananas, componendo una pila nella stanza stretta che usano come magazzino. Intanto Babu ha chiuso gli occhi, semisdraiato tra i sedili. Ha appena accennato al fatto che sta per ripartire verso casa con un carico di medicinali. Spero di aver capito male, ma trattandosi dell’India potrebbe anche essere davvero così. È quasi mezzanotte e il camioncino ormai è vuoto. Per percorrere i 270 chilometri da Muvattupuzha a qui, Babu ha guidato per diciassette ore e si appresta a rifarlo per tornare a casa.
Questa via della città non dorme mai, qui accanto c’è un bar che vende frappé e succhi di frutta, davanti al marciapiede c’è un ambulante che sta scaricando delle cassette pesantissime di piccoli frutti che sembrano acini d’uva. Gli do una mano con l’ultimo tanto non ho niente da fare. Anch’io mi sto riprendendo dalla lunga giornata e sto valutando il da farsi, seduto su una sedia prestata dal bar. A destra ci sono alcuni senzatetto seduti sul marciapiede a chiacchierare. È strano quanto la città sembri sicura nonostante io sia arrivato qui in piena notte, allo sbando. Come mi aveva anticipato il mio buon autista, A Madurai fa caldo e ci sono parecchie zanzare. Decido di cercare un ostello, nella zona della stazione come mi ha consigliato Babu. Gli auguro buona fortuna e prendo il largo nelle strade di Madurai, illuminate dai lampioni gialli ai vapori di sodio.
Avvicinandomi al centro, le strade diventano meno polverose e più pulite, i negozi sono chiusi e gli abitanti dormono profondamente. Alcuni sono nelle case, altri sono sdraiati sulla soglia di un negozio o sul bordo del marciapiede. Poco oltre scopro il motivo di questa pulizia, quando incontro due donne armate di scopa e paletta. Tutte le cartacce accumulate durante il giorno vengono rimosse durante la notte, così da ricominciare a sporcare la mattina seguente. Forse sono pagate dall’amministrazione comunale. Addirittura, lungo la via che porta al tempio, c’è una signora chinata a pulire le commissure tra le pietre del lastrico, utilizzando uno stecchino.
Giro attorno al tempio monumentale, anch’esso addormentato, fino al quartiere degli ostelli economici, accanto alla stazione. Anche qui c’è ancora vita, così domando a tizio quale sia un ostello che costa poco. Mi porta poco più avanti, probabilmente da un suo amico.
Ora, Babu ha detto che qui si trovano delle camere anche per quattrocento rupie (cinque euro), ma il proprietario non scende sotto a cinquecento. Io ne ho solo duecento in contanti, ma posso pagare il resto domattina. Prima di pagare, mi consigliano di andare a controllare in che condizioni è la camera. Questa è saggezza indiana che mi tornerà molto utile in futuro, grazie della dritta. La camera ha il ventilatore a soffitto, il bagno e un letto con un lenzuolo blu. Va benissimo per buttarci sopra le ossa e dormire. Pago la prima rata e mi danno anche una bottiglia d’acqua, che non è acqua minerale, ma sa cloro. La presenza del cloro è un buon segno, ma forse è meglio non berla.
Apro la porta del bagno e trovo un bagno alla turca, un rubinetto a muro e una tinozza con dentro uno scodellino. Finalmente un bagno indiano come si deve! Lavo faticosamente le calze e le due magliette, che stendo su un cordino teso tra la porta e un chiodo sul muro.
Appoggio la testa sul morbido materasso, con questo lenzuolo che pare lavato relativamente di recente e sembr…