Lezione di ieri: sii più chiaro se vuoi far capire che dormi su un albero, è difficile prenderlo sul serio senza prove fotografiche.
Mercoledì 14/06/2022 giungla di Kyari (India)
Niente. In quattro giorni neanche un elefantino piccino picciò. Almeno ci sono le scimmie, c’è un intero branco di una dozzina di scimmie che è venuto ad abbeverarsi dove ieri c’erano i gruccioni. I più piccoli giocano sul ciglio della sponda e ogni tanto uno cade giù, facendosi un bel bagno. Non c’è niente di pericoloso qui, ci si può tuffare tranquillamente. Ci sono due specie di scimmie qui, queste sono quelle piccole e marroncine con la faccia rosa. Le altre sono un po’ più grosse, grigie con la faccia nera e una lunghissima coda pendente. Le ho viste spesso in questi giorni, sugli alberi della riva opposta. Oggi niente cucina, è ora di disfare la casa e andare. Faccio un’ultima sudata per raggiungere gli ancoraggi della corda e stavolta calo giù lo zaino. Non posso usare la mia piccola puleggia perché la corda di 8mm che ho comprato in Croazia a Rijeka non ci passa. Inoltre non sono certo che regga 18 chili, dovrei fare delle prove vicino a terra. Adesso che ho smontato l’amaca posso anche misurare con precisione quanto sono in alto. Sono solo otto metri e mezzo, non molto per un rifugio anti-leopardo, ma come dicevo lo scopo è essere scomodi, non irraggiungibili.
Una volta a terra rifaccio lo zaino, molto piano perché fa già caldo, e prendo con me solo la punta di quella penna di pavone trovata il primo giorno, che è larga esattamente un foglio A5. La conservo dentro la tovaglietta di carta della pizzeria di ? dove andai con Špela, in Slovenia.
Faccio un bagnetto di addio e finalmente vedo passare un maestoso bucero, a bande bianche e nere, che si posa su un alto albero. Ripercorro il solito sentiero sotto il sole delle 11, ma mi fermo a metà a raffreddarmi in un guado e scrivere un altro pochino. I gerridi come me amano l’ombra perciò sono tutti intorno alle mie gambe sotto l’ultima strisciolina di ombra che getta l’albero qui dietro. Ora sono fittissimi ma non si menano, si tratta solo di sopravvivere al solleone. Cerco di acchiapparne uno, ma sono più veloci del pensiero questi piccoli insetti.
Mentre raggiungo Kyari vedo un paio di cervi, finalmente, e sento delle deflagrazioni in lontananza. Forse sono spari a salve. In paese infatti trovo un uomo con un arnese di metallo che immagino si carichi a polvere pirica per poi comprimerla con forza e farla esplodere a mano. Serve per tenere lontane le bande di scimmie che di tanto in tanto vengono a razziare i frutteti.
Mi incammino verso Ramnagar e trovo un passaggio con Mahan e Lalit, ai quali racconto dove sono stato e dove vado, perciò mi portano sulla strada per le montagne fuori dal centro di Ramnagar.
Mi sposto più su e salgo con un uomo diretto a Marchula, località famosa per il suo torrente in fondo alla gola, ottimo per pagaiare il kayak. Non so più come si chiamasse, facciamo Gumer. Gumer parla quasi solo hindi, perciò oltre a sapere che è sposato e che ha figli posso solo ringraziarlo e ammirare il confine del parco nazionale. Jim Corbett fu un famoso cacciatore inglese, chiamato in questa zona per abbattere tigri e leopardi mangiatori di uomini. Si è ipotizzato che all’epoca l’epidemia di spagnola avesse prodotto così tanti cadaveri umani che alcuni felini si abituarono a cibarsene. Non è frequente finire sul loro menù, ma all’epoca ci furono centinaia di vittime. Io confido nel lavoro del signor Corbett, che li uccise tutti e risolse il problema. Come canta Ligabue “nasci da incendiario e muori da pompiere”, infatti Corbett accantonò la caccia per dedicarsi alla conservazione della natura, per questo il parco è dedicato a lui. È anche uno dei luoghi che hanno ispirato Il libro della giungla, ma io in mutande nella foresta mi sento più Tarzan che Mowgli. Tra parentesi, ormai l’avrete capito, quei due giravano in perizoma perché fa un caldo maledetto, non perché sono cresciuti con gli animali.
A Marchula ci sono due ristoranti, cinque alberghetti e un negozio di alimentari. Ci sono pochissime macchine, ma nondimeno una delle prime che passano si ferma e mi offre un passaggio. È una macchina piccolissima, stracarica di provviste e ci sono sopra in tre. Kulassin è alla guida, accanto a Pandit, emtrambi hanno circa la mia età. Dietro insieme a me c’è un ragazzo con uno zainetto che ha chiesto un passaggio. Dopo pochi chilometri si fermano a fumare una canna, ma dobbiamo tornare indietro a prendere una signora che ha fatto la spesa a Marchula. Con le patate sotto i piedi, il riso in braccio, le verdure dietro la testa e chissà cos’altro nel baule ripartiamo verso il paese di Dunagiri, che però si legge Dungrì. Io sono comodissimo seduto in mezzo con Hans sulle gambe, ma ancor di più sono grato perché mi hanno preso su nonostante l’ingombro mio e dello zaino.
Curve, curve, curve, la signora scende e paga Kulassin, così continuiamo, scende l’altro e ci fermiamo in una piazzola vicino al paese, dove ci sono alcuni loro fratelli. Fratello si dice bhai ed è equivalente di bro in inglese, abi in turco, bicio in georgiano o emi in azero, cioè si applica praticamente a qualunque altro uomo tu conosca. Si usa anche in Pakistan e ogni volta è un dramma decifrare le parentele di Ahmad, perché le persone che conosce sono tutti fratelli, sorelle, zii e zie. Ad esempio suo fratello commissario, Alì, in realtà è un suo cugino di grado imprecisato, ma ci ho messo parecchio per capirlo.
Qui è uguale, ci sono alcuni amici stetti ai quali mi vogliono presentare. Il più esuberante e senza dubbio Kilari, che ha tre anni più di me. Il suo nome è Ashish Sundriyal (si pronuncia Asis e non ha a che fare con la cannabis, ma significa “benedizione”), ma si fa chiamare Kilari, che si traduce con “The joker” o forse Il burlone. È sbarbato, con i baffi e porta una sciarpa arancione avvolta in testa a mo’ di turbante. La stessa sciarpa è legata anche al manubrio del suo motorino, è un simbolo della sua confessione indù. “Facciamoci una foto!”, propongono. Già, una foto, in quale tasca ho messo la gopro? Era qui l’ho usata prima, non è sui sedili… L’ho persa. Deve essermi caduta quando sono scesi a fumare. Niente, prima o poi doveva succedere in così tanta strada, riprendo lo zaino per fare l’autostop a ritroso.
O forse…
È lì, proprio sotto la macchina, mi è caduta scendendo. Il panico è passato, riprendo un po’ di colore e facciamo qualche foto ricordo. Faccio per ripartire, ma Kilari mi chiede di seguirlo a casa propria e stare con lui qualche giorno. È un tipo simpatico e decisamente esuberante, ma non so se sia il caso di fidarmi o no. Chiedo a Kulassin, lui parla abbastanza inglese e mi ispira molta fiducia. Dice che non mi devo preoccupare, sono in buone mani.
Ho fatto molta meno strada di quanto mi aspettassi, ma è proprio per incontrare degli amici che sono venuto qui, perciò accetto.
Salgo con lui sullo scooter e partiamo in su per andare fino ad Adalikhal, il paese dopo. Lungo la strada Kilari saluta tutti quanti e tutti si voltano a salutarlo, segno che non sono ospite di un paesano qualsiasi, proprio come hanno detto Pandit e Kulassin . Lungo la via a tornanti Kilari canta una canzone in hindi e inizia ad insegnarmela. È complicato imparare dei suoni senza senso, ma non impossibile. Torniamo indietro e ci fermiamo al bar-ristorante di Dunagiri (Dungrì), così Kilari mi presenta a Gajpal, il proprietario di mezz’età. Mi offrono un bicchierino di tè e un piatto di maggie (magghi), ancor più buono perché non ho fatto colazione. Il mio bastone trovato ieri nella giungla non va bene, Kilari apre una porticina e ne estrae un buon bastone stagionato e scortecciato, dritto e solido. Grazie!
Montiamo in sella e torniamo indietro, fino ad un sentiero che porta al paesino. Qui siamo in collina, a 1400 metri, e non c’è niente di piatto, per andare a casa si parcheggia e si sale a piedi. All’inizio del sentiero c’è un portale colorato con scritto il nome del paese. Kilari parla un pochino di inglese, ma ad esempio non abbastanza da distinguere “come” e “go”, quindi apro l’applicazione che usavo per imparare l’urdu. Le parole sono scritte in arabo ma suonano quasi sempre come in hindi. È il momento di imparare hindi a manetta per riuscire a comunicare con il mio ospite. Kilari al posto di “let’s go” o “cele” (in hindi) con me usa sempre “Come phsht!”, che non capisco se sia “come first” o “come fast” (Prima tu! o Vieni, svelto!) Arriviamo a casa sua, dove ci sono la madre, la moglie e la figlia di quattro anni. Faccio appena in tempo a posare lo zaino e salutare che “Come phsht!”, torniamo giù allo scooter per andare da qualche parte. Passiamo sal bar, ci fermiamo a salutare di nuovo, mi chiedono se bevo. La mia risposta è sempre no, sono in viaggio e poi qui l’alcol costa un’enormità. “Ma no se compri la bottiglia piccola costa solo 500 rupie.” Appunto, sei euro e mezzo per 200 ml di whisky economico mi sembra un po’ esagerato. Gajpal mi affida una banconota e torno ad Adalikhal con Kilari per comprare un paio di bottigliette. Ce le danno avvolte in un foglio di giornale perché in India bere in pubblico non è solo vietato, ma anche sconveniente. È l’unico prodotto che ti vendono impacchettato, ma l’importante è che non si veda. Torniamo al bar, ma ci fermiamo ogni cento metri per presentarmi a tutti quelli che non abbiamo incontrato prima.
Restiamo al bar fino a quando viene buio, così posso parlare con qualcun altro che sa l’inglese a ampliare il vocabolario con qualche parola più utile di “dromedario”, che avevo imparato in Rajastan. Nel frattempo ci sono in parecchi seduti fuori a fumare. Il bar infatti sul lato posteriore ha due piani e una stretta cornice di cemento larga mezzo metro, si cui ci si siede in otto o dieci quando si vuole evitare di fumare in vista lungo la strada. Anche fumare non è proprio ben visto, qui in India il tabacco di solito si mastica. Al posto dei mozziconi di sigaretta, le strade sono cosparse di bustine strappate. Si comprano in qualsiasi negozio, che tiene a penzoloni sul bancone la striscia delle bustine del tabacco e quella delle spezie da aggiungere. Strappi, versi la busta piccola in quella grande, mescoli e rovesci il tabacco in bocca e poi la bustina per terra.
Il proprietario, Kilari e alcuni altri invece sono seduti davanti al bar a passarsi una canna, qui la marijuana cresce benissimo, se non la fumano loro chi la fuma? Me ne offrono più e più volte, ma io inalo già abbastanza fumo per conto mio, grazie.
Torniamo a casa per la cena, dove le donne di casa hanno già preparato. La casa è un edificio tradizionale di questa zona, a due piani con il tetto di lastre di pietra. È intonacata di argilla e il piano superiore è dipinto di bianco e di blu. Ci sono le scale esterne, sempre di pietra, e quattro ingressi. Al piano di sopra, dove ho lasciato lo zaino, ci sono due piccole camere da letto a sinistra e a destra ci abitano i genitori di Kilari. Il piano terra è decisamente basso, c’è la cucina con tutte le stoviglie e un’altra piccola camera vuota.
Adesso che il tempo è bello si cucina fuori, con un piccolo fuoco di legna. All’esterno c’è anche un letto pieghevole con sopra un’asse si legno. Nel resto del piano terra c’è la stalla delle capre.
Mi servono un piatto d’acciaio con riso, dal (le lenticchie), roti (il roti è quello che in Punjab si chiama chapati, è la piadina indiana), peperoncini e cipolla cruda a pezzetti. “Vuoi altro riso?” “No, va bene così.” Alla fine la nonna mi porta altro dal, così poi sì che ci vuole altro riso.
Dopo l’ottima cena, si è fatto tardi e andiamo a letto. Accetto volentieri la proposta di dormire fuori, così stendono una spessa coperta sul letto di legno e mi danno una trapunta calda. Secondo me sono pazzi, ma probabilmente alla mattina ci sarà freddo. Per il momento resto scoperto.
Bzzzzz. Ecco, come non detto, seco scomparire sotto la trapunta, ma sudo, non so come fare, mi copro, mi scopro, mi gratto, alla fine dormo. Maledette zanzare.