Ashish alla riscossa

Aggiuta a ieri: Soddisfatto il mio istinto venatorio, lascio le lucertole al proprio bagno si sole e vado a lavarmi i capelli con l’acqua che scende dalla montagna. C’è una gomma dell’acqua che scende fino in strada, per ogni uso. Mentre mi lavo i capelli insieme alle zanzare, passa una farfalla. Non è una farfalla qualsiasi, ma una di quelle specie tremende che sono proprio del colore delle foglie secche, hanno la forma delle foglie secche e la postura delle foglie secche, con la punta delle ali a punta che tocca il ramo su cui si posano. Tranne quando atterrano su un cespuglio verde, allora sì che si vedono. Procedo con le foto.

Lezione di ieri: un bicchiere solo può dissetare un reggimento
Lunedì 20/06/2022 Rishikesh (India)
Dopo la lavorata di ieri sera, interrompere il riposo in amaca è difficoltoso, specialmente perché alle otto la temperatura è ancora gradevole. Bisogna che mi alzi però, altrimenti a Bhanyiawala ci arriverò domani. Mi sfilo dal cordino di sicurezza e come al solito vado in bagno, direttamente sull’albero perché non ha nessun senso scendere e risalire.
Slego tutto e scendo, faccio una pausa per raffreddarmi ma vedo uno scinco sgusciare tra le foglie, a occhio è della stessa specie di quello che mi sono trovato nei pantaloni a Samalapuram, con la riga rossa sull’occhio. Mi scappa e una zanzara inizia a farmi la corte, così salgo sull’altro albero per sfuggirle terminare l’opera. Ero solo a sei metri di altezza, praticamente al primo piano. Purtroppo, lo zaino rimasto a terra tutta la notte conteneva ancora due di quei frutti profumati dalla scorza legnosa raccolti a Kyari. Da soli hanno attratto una marea di piccoli scarafaggi, e ora il mio zaino è un’autentica collezione entomologica. Vorrei far finta di niente, ma non mi sembra tanto carino presentarmi a casa di Ashish con lo zaino pieno di tutti i Blattoidei dell’Uttarakhand. Pazientemente svuoto tutto e caccio fuori dozzine di intrusi, prima di riempire daccapo e sedermi a riposare alla base dell’albero. Per fare colazione, mangio metà dei manghi comprati ieri, dolcissimi.
Consulto la bussola e parto verso Nordest, per incontrare la strada carraia di ieri e ripercorrerla fino allo stradone. Sulla via incrocio un piccolo furgone, i cui autisti mi informano con apprensione che questa zone è una “tiger area”. “Non ho visto tigri né elefanti”, rispondo io, e tiro dritto.
Qualche macchina tira dritto frettolosamente, finché una di queste frena e torna indietro a prendermi. Sopra ci sono Abilaksh e Roly, fratello e sorella, diretti a Dehradun. Sono in macchina con la propria gatta, che è appena stata dal veterinario. Lui è insegnante, mentre Roly lavora come infermiera all’ospedale di Dehradun. Chiacchierando, si assicurano che non abbia avuto brutte esperienze durante il mio viaggio in India, così gli racconto dei presunti tedeschi di Mostar e della mia serata avventurosa a Samalapuram. Anche Roly ha la propria storia da raccontare, quando è andata a Parigi una donna ha iniziato a seguirla per restituirle un oggetto che le era appena caduto. La donna parlava solo francese, ma insisteva e insisteva, girandole attorno. Quando finalmente se ne è andata, Roly si è ritrovata le tasche vuote. C’erano dentro il telefono e il portafoglio, roba si poco conto, giusto un migliaiuccio si euro in tutto, se non ricordo male. Non ha un ricordo molto piacevole di quella vacanza, purtroppo. Abilaksh e Roly sono molto simpatici e gentili e parlano bene inglese, così i minuti di viaggio per raggiungere Bhanyiawala finiscono troppo pres dobbiamo salutare. “You are a good soul”, mi dice Roly, “take care of yourself.” (Sei di animo buono, abbi cura di te.)
È mezzogiorno ormai, ma Ashish non risponde al telefono, avrei dovuto farmi dare il suo indirizzo, almeno. Prendo una strada qualsiasi e mi vado a sedere all’ombra, così nell’attesa scrivo. Esce il proprietario della bottega accanto a chiedermi se ho bisogno di aiuto e poco dopo Ashishsi risveglia dal letargo, salta sul motorino e mi viene a prendere.
La casa di Ashish è molto indiana, nel senso che la cancellata scarlatta decorata, con la parte superiore argentata, è solo l’introduzione ad una casa variopinta quaasi quanto un tempio. È decisamente troppo per i gusti italiani, a meno di metterla su quattro ruote e portarla a Viareggio.
Lui si siede nella stanza degli ospiti, io non oso farlo perché i miei pantaloni non vengono lavati da diversi giorni e normalmente non mi faccio molti scrupoli a sedermi in giro. Inoltre, chi sale sui ficus con i vestiti addosso si troverà tante simpatiche macchie di lattice, pena per aver danneggiato il proprio ospite. Bisogna essere gentili con i ficus, senza torcergli una foglia. Mi sottopongo ad un lavaggio integrale e finalmente smetto di fare schifo, ogni tanto ci vuole. Mi accomodo in poltrona a bere succo di mango e a raccontare ad Ashish tutto quanto. È incredibile poter parlare a ruota libera con qualcuno che capisce quello che stai dicendo, posso addirittura utilizzare una sintassi corretta, come quando ero con Leron. Sto straparlando probabilmente, così cerco di lasciar parlare anche il mio buon ospite, che a sua volta ha molto da raccontare, prima che andiamo a pranzo. In merito alla sua casa, la sua fidanzata italiana ha commentato che è decisamente troppo colorata, e in effetti mi pare che superi addirittura gli standard indiani, che è tutto dire. Per pranzo c’è riso, verdure cotte, pollo a pezzetti, roti imburrato e chi più ne ha più ne metta. Io in effetti ho una certa fame, così la mamma di Ashish continua a produrre roti con soddisfazione. Stasera bisogna che mi permettano di dare una mano con il roti, perché devo imparare come si fa a produrlo in serie e a renderlo così tondo. Sembra un gioco da ragazzi, ma richiede il già citato “sovermân” cioè esperienza e tecnica.
Continuiamo a parlare parlare parlare, confrontando l’Italia e l’India. Il traffico, la religione, i bagni, l’ospitalità, il modo di mangiare, il futuro di Ashish. Sì, perché lui sta seriamente considerando di stabilirsi in Italia. La sua famiglia è indù, come del resto quasi tutti quelli che incontro, io chiedo sempre ma mi rispondono di sì come se fosse scontato. Ashish è incerto, ero molto curioso di sapere come la pensa perché lui in Italia è stato immerso in un ambiente multiculturale e prevalentemente ateo, a differenza dei giovani che hanno sempre vissuto in India. Prima, a pranzo, io ho mangiato a mano e lui con le posate, il ché è abbastanza comico, ma di fatto è causato dalla stessa tendenza ad adattarsi ad altre culture. Io sto diventando indiano e lui italiano. Una volta finito di mangiare però devo tenere con lui una conferenza sui bagni, che sono un elemento centrale nella vita di tutti noi e ogni elemento che contengono pare assolutamente necessario e irrinunciabile.

Aperta parentesi sull’evoluzione dei bagni

Normalmente noi italiani quando andiammo all’estero siamo abituati a soffrire la scomparsa del bidet, fedele compagno di tante sedute di meditazione. Ne piangiamo la perdita specialmente perché nei paesi barbari a Nord dell’Impero Romano apparentemente non è stato predisposto alcun dispositivo di pulizia che non sia la doccia, la vasca da bagno o un chilo di carta igienica. Se viaggiassimo verso le terre dei Parti e dei Medi, invece, giungendo infine agli estremi confini dell’ex Impero Macedone, scopriremmo che la situazione è decisamente diversa. I bagni si semplificano oltre l’immaginabile, ma la praticità della pulizia resta, è incredibile.
Il primo a soccombere è, naturalmente, il beneamato bidet, che non arriva molto oltre Trieste. Al suo posto c’è un doccino a muro, proprio a destra del water, così non bisogna effettuare il trasbordo fino al bidet e tutto si svolge in loco. La seconda ad andarsene è la vasca da bagno, di cui ho perso le tracce tra Bosnia e Croazia. Ciò che resta di solito è uno sgabello di plastica da poter usare sotto la doccia.
Da qualche parte nei Balcani deve essere venuta a mancare anche la salvietta per il sedere, che senza bidet è difficile da identificare ed è bene non creare confusione. Forse c’era in Kosovo, ma in Bulgaria no, anche se mi pare di averla vista a Sultandaği in Turchia. In sua assenza usavo qualche pezzetto di carta igienica.
Non appena raggiunto il Kurdistan turco e precisamente a casa di Ibrahim a Diyarbakır, è il WC è stato sostituito dalla turca. È ritornato in Georgia e in Azerbaijan, per poi sparire in Iran. Proprio in Iran ho visto i negozi di attrezzature sanitarie vendere i WC di plastica come sostegno per gli anziani che non riescono a rialzarsi da soli, neanche con l’aiuto di una maniglia.
L’Azerbaijan però ha segnato la scomparsa definitiva del doccino dell’acqua corrente, sostituito da un rubinetto accanto al WC, corredato di una piccola brocca di plastica. In certi casi la brocca assomiglia ad un innaffiatoio, che genera un getto d’acqua dall’ugello. Ha una funzione del tutto analoga ad un bidet, ma costa circa un centesimo di un bidet. Niente tubi, niente scarico, niente rubinetto, più spazio libero, chiamali stupidi! Non finisce qui, nell’ultima settimana del mio periodo di adozione a Sumgayıt, ho smesso di usare la carta igienica perché mi era sorto il sospetto di essere l’unico ad usarla. Quello strappo leggermente stropicciato è rimasto al suo posto fino al giorno della mia partenza. La carta igienica è rimasta là a Sumgayıt, non mi ha seguito in Iran e abbiamo perso le tracce l’uno dell’altra.
Nonostante Astara fosse deserta durante il primo giorno di Ramazhan (là non usano la d, che ci posso fare?), nel resto dell’Iran ho osservato centinaia di persone vive e arzille che non facevano uso della carta igienica. Sopravvivono anche senza, è incredibile. Una volta lavati e lindi tirano su le mutande con serenità e se due gocce d’acqua bagnano le mutande, probabilmente si asciugheranno.
Subito a seguire la salvietta per asciugarsi le mani è fuggita, tanto laggiù fa così caldo che l’acqua fresca gusta e si asciuga anche troppo presto. Peccato che poi abbia scoperto che l’ultima salvietta ha disertato definitivamente, non è riapparsa neanche sull’Himalaya. Come sempre, se uno non muore subito, gradualmente si abitua. Se fa proprio freddo basta non lavarsi le mani compulsivamente come facciamo noi, questo sicuramente aiuta.
In India anche la doccia ha subito un duro colpo, sostituita da un rubinetto a muro. Il box della doccia si è perduto dai tempi del Kosovo, ma in India cambia radicalmente il metodo di lavaggio. C’è un mastello o un grosso secchio dal quale attingere l’acqua con una piccola brocca, versandosi l’acqua in testa. Sono piuttosto sicuro che aiuti a limitare la durata della doccia. Il bagno alla turca in India si chiama bagno all’indiana.
Che cosa resta dunque? Un lavandino, un rubinetto a muro, un secchio, un asciugamano e la turca di ceramica. Niente bidet, salviette, vasca da bagno, doccia e niente carta igienica. In un rifugio a 5000 metri sull’Himalaya ho chiesto agli ospiti danesi e al mio amico sudcoreano che cosa pensano dell’assenza di carta igienica. Ho scoperto che portano con sé la propria carta igienica, nel senso che si portano in spalla la carta igienica su e giù per le montagne. Dopo tanti mesi di viaggio in Asia, mi sembrano pazzi. Come me che ho portato una maschera da sub a 5500 metri, perché? Perché?
Perché abbiamo la necessità di pulire le nostre regali terga con le foreste, quando disponiamo del bidet e del sapone, che sono proprio lì accanto? Mezzo mondo fa senza, almeno mezzo mondo, e per noi è essenziale come l’acqua potabile. Quanto denaro buttiamo per pulirci il sedere? È difficile capire quanto sia superfluo senza stare a contatto con chi ne fa a meno. Negli alberghi di solito c’è, perché non continuare ad usarla anche all’estero?

Chiusa parentesi sull’evoluzione dei bagni

Con mio grande sollievo e giubilo, Ashish ha delle buone notizie per me. A suo parere, nonostante la tradizionale ritrosia indiana ad applicare le più elementari pratiche di rispetto per l’ambiente circostante, qualcosa sta cambiando. Lentamente eh, ma qualcosa si sta muovendo, nelle giovani generazioni che ricevono un’educazione decente. È quello che speravo, è da quando sono arrivato a Mysuru in Karnataka che vedo in ogni città dei murales che cercano di sensibilizzare la gente rispetto a questo tema. Il fatto è che comunque manca il servizio di raccolta dei rifiuti e anche i cassonetti sono un’invenzione prevista per il prossimo secolo. Dove dovrebbero mettere i rifiuti raccolti, in tasca? Potrebbero almeno accumularli da qualche parte anziché spargerli a tappeto. Che li brucino, ecco! No, questo forse è meglio non farlo, ha ragione Ashish. Nei paesini come Dunagiri secondo me lo si può fare perché i rifiuti sono pochi. Se succedesse lo stesso in una città si farebbe una strage. Li puoi almeno ammucchiare, sì, ma un mucchio diventa rapidamente una discarica. Alzi la mano chi vuole una discarica di fianco a casa! In India lo spazio scarseggia, per non dire che non c’è proprio, perciò che si fa? Si sparge, forse per esclusione.
L’unica soluzione che mi viene in mente è curvare lo spazio-tempo e saltare avanti di cinquant’anni, quando gli indiani avranno la bontà di separare i rifiuti in base alla propria specie, semplificando la vita a quei poveri che si guadagnano da vivere raccattando metalli, cartone e polietilene. Verranno comunque trasportati su un carretto sgangherato da un indiano magro e scalzo, ma almeno fateglieli trovare in bell’ordine, vi costa tanto? La verità è che non bastano cinque settimane di viaggio per andare agli indiani e risolvergli i problemi. Se per caso un indiano dovesse leggere queste righe sconclusionate, mi dica qual è la sua opinione a riguardo, ho affrontato l’argomento solo poche volte durante il viaggio.
Nel pomeriggio Ashish ha da fare, così io resto nella mia nuova camera a scrivere e lui esce per qualche commissione. Resteremo qui per poco perché domani lui andrà con la famiglia a trovare la nonna, che a ottant’anni suonati abita da sola ad Agastumani (si legge Agastmanì). Mi possono dare un passaggio fino a Srinagar, ma probabilmente non voglio seguirli fino dalla nonna, è cinquanta chilometri più su tra le montagne. “Solo cinquanta chilometri? E che sarà mai, dico io? Se posso venire vengo molto volentieri a passare un giorno in più con voi e a vedere un altro paesino di montagna.” Mi dispiaceva già pensare di aver perduto la compagnia di Ashish dopo così poche ore. Non c’è problema, anzi siamo tutti contenti e domani troveremo il modo di entrare nella macchina.
La mamma di Ashish mi chiama in cucina per preparare il roti. Si strappa un pezzetto grosso come una noce dall’impasto non lievitato di acqua, olio e farina e con le mani si forma una palla. Poi si schiaccia a mano per creare un disco, che si infarina da entrambi i lati e si pone sul piano di lavoro. Fin qui è facile. Con un mattarello microscopico, lungo una spanna, si inizia a stendere la pasta, ma con un movimento preciso e millimetrico che stende la pasta e la ruota di qualche grado. Quando la pasta tende ad appiccicarsi e non gira bene, si aggiunge farina. Una volta ottenuto un disco perfetto spesso due o tre millimetri e largo quindici o venti centimetri, si getta su una piastra riscaldata sul fuoco. Si cuoce da un lato, dall’altro e poi con le pinze si appoggia sulla fiamma viva per qualche secondo, in modo che l’umidità ancora contenuta nello strato intermedio evapori di botto facendo gonfiare le bolle. Il roti è pronto, ma bisogna essere già pronti con il prossimo, per questo lo si getta sulla piastra, per fare prima. Quando ero a Karchondi, nel Karnataka, il roti si stendeva con le mani in un piatto di acciaio, mentre a Dunagiri Urmila usa il mattarello, ma gira il il roti due volte e per farlo gonfiare lo tampona tutto intorno con uno straccio o con un altro roti. Probabilmente esistono mille modi per prepararlo, l’importante è avere una buona tecnica. Il mio roti viene abbastanza bene, ma non ha niente a che vedere con quello che sono abituato a mangiare, per i motivi di cui sopra.
Per cena abbiamo riso, pollo, roti e verdure, diverse da quelle del pranzo. Quella roba che chiamavo okra in realtà ha un altro nome perché è più piccola, anche se la forma è simile. Dopo cena facciamo ancora due chiacchiere e poi mi immergo nella scrittura. L’immersione è profonda, sono ispirato e pieno di energia, così a mezzanotte sto ancora scrivendo.

2 commenti su “Ashish alla riscossa”

  1. Hallo, my good soul!
    “Take care of yourself”… grazie Roly.
    Se qualcuno se lo stesse chiedendo… beh… mi manchi molto…
    Comunque veramente molto interessante, Riccardo, la parentesi sui bagni.
    In questi giorni siamo in vacanza all’estero e come sempre mi manca tanto il bidet!!! La sola alternativa qui è la doccia ed è molto fastidioso doversi spogliare ogni volta…
    La modalità con la brocca, mi dà qualche perplessità, mi domando se la pulizia riesca ad essere altrettanto accurata. Così come il fatto di non asciugarsi e rivestirsi bagnati non mi sembra esteticamente tanto accettabile (ma se lo facessero tutti si accetterebbe).
    Certo è che queste differenze mi fanno riflettere e mi chiedo fino a che punto sarei in grado di modificare le mie abitudini.

  2. Ciao Richy, trovo anche io molto interessante la disamina “evolutiva” (in senso geografico) dell’ambiente bagno. Io ci leggo le differenze culturali dettate anche (ma non solo) dal fattore ricchezza/povertà di una comunità (senza scomodare la parola popolo). Sicuramente l’utilizzo della carta igienica (“…per pulire le nostre regali terga con le foreste…”) non è certamente ecologico, ma tutte le attività umane concorrono all’aumento dell’entropia.
    Alcune descrizioni mi ricordano, più o meno, la situazione che avevamo dalle nostre parti meno di cento anni fa, e non nel basso medio evo. Il signor Neanderthal conduceva sicuramente una vita più “sostenibile”, ma aveva altre carenze (non entro nel merito). Il pianeta ha una capacità ospitante finita, a quanto ammonta? Definendo ovviamente il livello: “ostello”, “*”, “**”, “***”, “****”, “*****”, “*****superior”?
    Concordo pienamente con Roly, “take care of yourself”, “. .. good soul”!

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