Abbiamo vissuto veramente

Lezione di ieri: Le noci di cocco si possono cuocere nel fuoco.
Martedì 31/10/2023 Atollo Suwarrow (Isole Cook)
Nel pomeriggio scendiamo a terra insieme a Charlotte, che vuole approfittare della bassa marea e fare il giro dell’isola. Inoltre dobbiamo tornare a terra per terminare l’acquata, cioè il rabbocco dell’acqua dolce di bordo. Ernests e io sequestriamo immediatamente i remi del canotto, che non sono di certo il modo giusto per riabilitare le costole rotte. Aspetta, che cos’è quell’affare galleggiante in mezzo alla laguna? Si sta avvicinando? Sì che si avvicina. Ha una forma bitorzoluta, potrebbe essere una tartaruga ma non è una tartaruga. Forse è un ceppo galleggiante. Si avvicina abbastanza da essere distinguibile con il binocolo: sono due tartarughe che si accoppiano, una sull’altra. Ci avviciniamo a remi per vedere meglio, sono enormi! È un’occasione troppo rara, mi calo in acqua per riprendere un video di questi due rettili di dimensioni eccezionali. Quello che si vedeva dalla barca è solo la punta dell’iceberg, queste tartarughe verdi misurano probabilmente un metro ciascuna. Tra me e gli altri sul canotto, il disturbo è evidentemente eccessivo, le tartarughe si separano e nuotano via in direzioni diverse. Avremmo dovuto pensarci prima, ma l’eccitazione era tanta che nessuno ci ha pensato. Forse è meglio se non lo raccontiamo ai guardiaparco quando ci stamperanno i passaporti.
C’è anche un secondo problema, che riguarda la Gopro. Dopo che ha imbarcato acqua di mare alle Fiji era ancora viva per miracolo, ma il video alle tartarughe le ha dato il colpo di grazia. Ne è valsa la pena, delle tartarughe così enormi si vedono raramente. Prima che si spegnesse per sempre, ho visto che ha salvato il video.
Raggiunta la spiaggia Est dell’isolotto, ci fermiamo all’ombra per fare man bassa di cocchi. Questa volta ho portato il mio machete affilato e facciamo sul serio. Apro il mio cocco e passo la lama a Lord Asparagus, che ha deciso di fare pratica con il galateo. Come sempre accade si passa un coltello a chi non ha mai affilato una lama in vita propria, quel disgraziato di Ernests inizia a tagliuzzare il cocco appoggiato sui ciottoli di corallo. Io, che ho passato mezz’ora ad affilare quel machete, apro i cocchi tenendoli in mano. In passato mi è capitato spesso di reagire eccessivamente al maltrattamento delle lame, così cerco di contenermi. Aspetto che sbagli il primo fendente prima di suggerirgli con poco garbo di appoggiarsi a qualcosa di morbido, ad esempio la foglia di cocco che ha accanto. Non è difficile.
Infine viene il turno di Charlotte, che ha a casa una collezione di coltelli. Mi aspetto che sappia come si maneggia una lama, ma è subito chiaro che le mie aspettative sono mal riposte. La lama affonda tra i sassolini, una volta, due volte, tre volte mentre io ripeto a voce alta e stizzita “Solo perché sei il capitano… Solo perché sei il CAPITANO!” Non posso farci molto, dopotutto è il capitano, così mi volto, aspettando che finisca. Dopo questo duplice trattamento, la lama taglia come ci vede, cioè male. Mastro Ernests ha compreso il concetto e Charlotte non ha più fame, il machete è salvo. Non è la fine del mondo, è solo una seccatura. Restiamo ancora a lungo sulla spiaggia a guardare il blu. Noi due guardiamo l’acqua piatta della laguna e le fregate che volteggiano in cielo, Charlotte invece studia l’oceano.
Riprendiamo il cammino, per completare il circuito dell’isola e mostrarle i pulcini di sula e di sterna bruna. Ripete da giorni che ha già visto tutto quello che le interessava, cioè quasi niente, ma i pulcini di sula vanno visti per forza. Completato il giro, ritorno da mastro Ernests, che è in meditazione al limitare del giardino dei cocchi, su una panca in riva al mare. Appena ha finito bisogna che beviamo gli ultimi cocchi, quei grossi cocchi verdi in cima alla palma qui accanto. È alta dieci metri, ma è inclinata e facile da scalare. Come ho sempre visto fare dalla Malesia alla Papua Nuova Guinea, una preghiera di ringraziamento è d’obbligo, prima di iniziare l’arrampicata. Serve anche per concentrarsi su quello che sia sta facendo. Il primo cocco mi cade in faccia, così anche oggi imparo qualcosa di utile.
Finita la bevuta, torniamo al canotto per accompagnare Charlotte in barca, perché ormai sarà impaziente di risalire. Salutiamo la lapide di Tom Neale, senza ancora sapere alcunché della sua storia incredibile. Tom nacque nel 1902 in Nuova Zelanda, ma venne a sapere dell’esistenza dell’isola Suvorov solamente 41 anni dopo, da un amico di nome Robert Frisbie. (All’epoca l’atollo portava ancora il nome della nave russa che lo scoprì.) Così Neale si trasferì a Rarotonga, per preparare le scorte necessarie all’avventura che aveva in mente. Alcune donne di Rarotonga si offrirono di accompagnarlo, ma alla fine Tom partì in compagnia di due gatti. Raggiunse l’atollo via nave e restò a Suwarrow per due anni e mezzo, prima di avere bisogno di cure mediche a Rarotonga. Fu molto fortunato a non lasciarci la pelle, tra tutte le vicissitudini che accaddero sull’isola. In questo primo soggiorno a Suwarrow, Tom scrisse un libro intitolato “An island to oneself”. Ritornò a Suwarrow altre due volte, per due anni e poi per dieci anni di fila. Morì nel 1977, all’ospedale di Rarotonga. Come fece Robert Frisbie a convincere Tom a trasferirsi su un’isola così remota? Così disse: “Tom Neale, Suvorov è il più bel posto al mondo, e nessuno può dire di aver vissuto davvero finché non ha vissuto laggiù.” Parole forti, che per noi suonano estremamente confortanti, d’ora in avanti dormiremo più serenamente.
Al molo, non solo Charlotte è impaziente, ha anche riempito tutte le taniche d’acqua da venti litri, trasportandole dalla cisterna della casa fino al molo. La guardo, accigliato. Ci offriamo di riportarla in barca adesso, per poi tornare sull’isola, ma evidentemente c’è stato un malinteso. Non torniamo da nessuna parte, bisogna preparare la barca tutta la sera ed è stizzita a tal punto che inizia a pagaiare con furia, insieme a Ernests. Seduto a poppa, la guardo autodistruggersi, con la in faccia la risata falsa di chi ride delle proprie disgrazie. Abbiamo lasciato sull’isola il machete, una maglietta vecchia e due cocchi, per fortuna mastro Ernests spiega la situazione e ottengo il permesso speciale di tornare a nuoto all’isola per recuperare i nostri averi.
Torno indietro, nascondo il machete nella maglietta e me lo lego in cintura insieme a un cocco di addio. Non incontro squali, né all’andata né al ritorno.
Dopo qualche ora di preparativi, è tutto pronto per la partenza, domani ci sveglieremo presto in attesa di un buon momento per uscire dalla laguna e ripartire. Da ultimo, ripongo il libro che mi ha regalato Lord Asparagus, scambiando uno dei propri libri alla biblioteca dell’isola. Lo leggerò l’anno prossimo, ritornato a casa.
La mattina del 31 di ottobre è nuvolosa e l’acqua della laguna è arruffata dal vento, che soffia da Est a raffiche. Charlotte è stata sveglia tutta notte, studiando l’orizzonte in cerca di un varco, di un segno di miglioramento. Niente, solo nuvole pesanti e pioggia a tratti. Chiaramente è un momento pessimo per partire, ma non abbiamo molta scelta, il parco nazionale sta per chiudere i battenti. Tutto è pronto a bordo, aspettiamo solo un cedimento del vento per passare il canale di uscita.
Le condizioni meteo continuano a peggiorare, finché il capitano decide di partire senza indugio. Salpare l’ancora è facile, ma non si può dire altrettanto della manovra per centrare il canale. Con il vento dritto di prua, basta una minima deviazione a dritta o a sinistra per perdere il controllo e dover fare una giravolta completa per ritornare nella direzione giusta. Non è il caso di fare le giravolte quando si è in mezzo ai coralli.
Ormai il capitano ha imparato a manovrare Valiant, nonostante la minuscola elica del motore. Alle 6:45 (orario di Valiant) riprendiamo il nostro pellegrinaggio verso Raiatea. Ci allontaniamo da Suwarrow per un buon tratto, prima di aprire un pezzettino di genoa e iniziare a navigare in direzione Nordest.
Malgrado i nostri sforzi per risalire il vento e scavalcare le onde, non c’è molto che possiamo fare con così poca tela. Riceviamo a intermittenza delle raffiche ben oltre i 30 nodi, che sono il peggior nemico del paterazzo rotto. Ogni volta che incappiamo in un groppo il vento aumenta all’improvviso, così poggiamo per preservare la barca e di conseguenza deviamo verso Nordovest. Le raffiche sono seguite dalla pioggia, che inzuppa il timoniere e riduce anche la visibilità. Probabilmente sott’acqua c’è la corrente Subtropicale meridionale che ci fa gli scherzi, così, pur tenendo la prua quasi sempre a Nordest, fatichiamo a restare a Est del meridiano da cui siamo partiti. Dopo due ore di navigazione la situazione non è migliorata, così tentiamo una virata verso Sudest, sperando che di là il mare sia in condizioni migliori. Passa al timone mastro Ernests, in condizioni non certo migliori di prima. D’altronde siamo appena passati per di qua, sappiamo già com’è.
Alle dieci, Lord Asparagus chiama Charlotte dal pozzetto, con una pessima notizia. “Charlotte? Stiamo andando verso la barriera corallina.” Evidentemente stiamo scarrocciando verso Ovest, siamo tornati esattamente dove eravamo due ore fa. Il capitano, nel frattempo, è leggermente alterato. Afferra la ricetrasmittente della radio e grida nel microfono che “C’è una fottuta tempesta qui fuori!” Sfogata un po’ la rabbia, saliamo tutti in pozzetto per strambare e tornare indietro di nuovo. Ci diamo un gran daffare e in pochi minuti è tutto tesato e a segno, le cime riposte con ordine e la prua dritta a Nord. Finito di lavorare a testa bassa, alzo lo sguardo verso Suwarrow, lontana poche centinaia di metri e leggermente offuscata dall’aerosol delle onde che si schiantano sui coralli. Cento metri dietro di noi, tra Valiant e le palme, c’è un enorme stormo di sule e berte, centinaia e centinaia. Pare che tutti gli uccelli dell’isola si siano levati in volo per salutarci, o forse è arrivato nei paraggi un banco di ottimo pesce. Giostrano in cerchio, a turni serrano le ali e si tuffano per pescare, oppure calano fino a sfiorare l’acqua e risalgono per riprendere le giravolte. Non è mai successo nei cinque giorni passati, evidentemente oggi è una giornata di festa, per loro. Comunque sia, è uno spettacolo notevole, tanta vita così concentrata su una manciata di sabbia che galleggia in mezzo all’oceano. Ovviamente Lord Asparagus non mi ha chiamato per vederli, del resto è solo il più grosso mucchio di pennuti che abbiamo mai visto. Per fortuna controllo spesso cosa succede fuori, ormai lo so che non mi posso fidare.
Davanti a noi il cielo plumbeo indica che è in arrivo un altro groppo, avremo altre raffiche tra pochi minuti. Riduciamo già la vela, ormai sappiamo bene come funziona. L’anemometro balza da 20 a 30 nodi, a volte anche 37. In queste ore le raffiche e la pioggia si susseguono senza posa, così Charlotte da ordine di poggiare verso Nordovest per tutta la durata delle raffiche. Pochi minuti dopo Lord Asparagus ci chiama di nuovo, perché il vento è più forte del solito, sta andando sopra a quaranta nodi. Riduciamo ancora di poco il genoa, ma con meno tela di così ci fermeremmo davvero. Intanto mastro Ernests gestisce il timone e guarda fisso l’anemometro, che registra raffiche sempre più forti. “Quarantadue nodi e mezzo!” “Ora quarantaquattro!” Nel medesimo istante, ci voltiamo a guardare e per una frazione di secondo leggiamo “46,5”. Scompare immediatamente, talmente fulmineo da farci pensare di avere le traveggole. Niente affatto, abbiamo letto tutti lo stesso numero. Charlotte è già al tavolo da carteggio, tuonando altri improperi e proteste contro il meteo inclemente.
Mastro Ernests e io, rimasti in pozzetto, ci guardiamo con gli occhi sgranati. ‘Quarantasei nodi? Davvero?”, esclamo io.
“Ma ti ricordi della prima notte di guardia, quando ci siamo impressionati per quei ventisette nodi?”, risponde lui, con una risata silenziosa. Sorrido di rimando, non è il caso di ridere sguaiatamente in questo momento. “Come eravamo giovani e ingenui a quei tempi!”
“Ormai 27 nodi sembrano una dolce brezza, considerando quello a cui siamo abituati.”
Srotoliamo un metro di genoa e proseguiamo la fuga dal maltempo, sperando di arrivare da qualche parte. Questa perturbazione dovrà pur finire, a un certo punto.
Mentre il tablet di bordo scarica le nuove notizie in TV, il capitano ragiona ad alta voce. Molto alta, anzi viene in pozzetto a condividere il ragionamento con noi. “Se le condizioni non migliorano entro cinque giorni, torniamo alle Samoa!” “No, ad Apia non c’è niente per aggiustare la barca, torniamo alle Fiji!” “Cinque giorni!”
Sta pensando ad alta voce, lo fa spesso. Dubito che Charlotte sia disposta a farlo, raramente torna sui propri passi. Però cinque giorni sono lunghi e le previsioni indicano un miglioramento solo tra una settimana.

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