Lezione di ieri: l’oceano può costringerti a fare il punto nave in condizioni allucinanti, fai pratica finché puoi.
Sabato 28/10/2023 Atollo Suwarrow (Isole Cook)
L’isola Anchorage, la stricia di sabbia più grossa dell’atollo, è così vicina che sembra quasi di poterla toccare. Le acque cristalline che la circondano sono così assurdamente brillanti da sembrare finte. L’intero equipaggio è così incantato che il capitano deve richiamare tutti all’ordine, perché teniamo gli occhi aperti e controlliamo la profondità dell’acqua a prua. A segnalare la posizione esatta del passaggio ci sono solo due paletti neri ancorati al fondale, un vero lusso in un’isola così remota. Ho addosso l’imbragatura perché due ore fa Charlotte ha affermato che sarei stato utile sulle crocette, per scandagliare l’acqua dall’alto come si faceva una volta. Lo so che va sempre a finire male e resto con i piedi sul ponte, ma non si sa mai e mi tengo pronto.
La laguna è colorata di tante sfumature turchesi che contrastano con il verde brillante delle palme, unica oasi d’acqua dolce in questo deserto salato. “Siamo alle Cook!”, annuncio a me stesso, “Dopo trent’anni di assenza, i Palladini sono tornati alle Cook! …Anche i Baldi, per essere corretti con la mamma.” Da quando abbiamo abortito la sosta ad Aitutaki, mesi fa, avevo rinunciato del tutto a vedere di persona le isole che popolano i racconti della mamma sin da quando ero bambino. Invece il mare mi ha portato qui, che stupenda isola è!
Entriamo facilmente, riconoscendo subito il catamarano ancorato in rada. Era ormeggiato insieme a noi ad Apia, ci sono a bordo tre amici francesi. A mezzogiorno e quaranta, dopo undici giorni netti di navigazione, gettiamo l’ancora nella laguna, poco distante dal catamarano. Bisogna che qualcuno controlli la profondità dei coralli nelle vicinanze, così mi offro di sacrificarmi per il bene di tutti. Avevo già il costume da bagno sotto i pantaloni, salto in acqua più in fretta del fulmine. Nuoto verso il banco di coralli che preoccupa il capitano, che è profondo appena appena quanto basta. In punta di piedi sulla collina di calcare, riesco quasi a toccare il pelo dell’acqua. I coralli e i pesci non sono variopinti quanto quelli delle Fiji, ma sono decisamente più ignari di che cosa io sia, mi pare sia più facile avvicinarmi.
“Palla!”, grida il capitano. Che succede, cosa sta indicando?
“Uno squalo!” In effetti, a una decina di metri da me c’è uno squalo pinna nera, che sembra lungo quasi un metro. Io e gli squali pinna nera abbiamo già fatto amicizia un anno fa in Malesia, a pulau Perhentiane Kecil. Ci scambiamo uno sguardo incuriosito, mischiato ad un’occhiataccia come nei duelli del vecchio West. Ho detto che è lungo un metro e per questo può sembrare minaccioso, ma è meglio concentrarsi sulla bocca, che è piccola. A scanso di equivoci allargo le braccia e le gambe, perché sia chiaro che sono decisamente troppo grosso per lui. Non so se sia davvero utile, ma generalmente fingere di essere grossi è una strategia che funziona con noi animali. Lo squalo si avvicina ancora un po’ alla scimmia acquatica, le gira attorno e se ne va, soddisfatto.
Purtroppo nessun altro a bordo vuole fare amicizia con gli squali, anche se ne sono già sopraggiunti altri cinque, intenti a ispezionare Valiant. Salpiamo l’ancora è ci spostiamo cento metri più in là, per non rischiare collisioni con i coralli durante la notte.
Arriva uno dei nostri amici francesi per darci un passaggio a terra con il canotto. Abbiamo un appuntamento con i guardiaparco, che sono anche ufficiali dell’ufficio immigrazione. Scendiamo nell’acqua bassa, posando i piedi su una polvere di corallo così incredibilmente fine da sembrare limacciosa. Davanti a noi c’è un giardino di palme da cocco e un enorme albero che produce frutti duri e sferici, grossi come biglie. Camminarci sopra procura un potente massaggio ai piedi, per così dire. La casa dei guardiaparco è l’unico edificio dell’atollo e si trova al centro dell’isola Anchorage, ma bisogna prestare attenzione. Trattandosi di una striscia di sabbia lunga 800 metri e larga quasi 200 metri, può bastare un momento di distrazione per ritrovarsi di nuovo con i piedi nell’acqua. Lord Asparagus e io ci guardiamo attorno valutando da veri esperti le noci di cocco locali. In mezzo al giardino c’è una grossa lapide di cemento decorata il volto di un uomo, realizzato a bassorilievo. “Tom Neale” recita la lapide, che riporta due date, separate di appena venticinque anni. “Beh”, osservo io, ad alta voce, “ho ventisette anni e sono ancora vivo, lo considero già un successo.”
La procedura di immigrazione si svolge sotto al portico della casa dei guardiaparco, mentre le zanzare ci fanno la festa. Chris e Téina sembrano due coniugi sessantenni che ricevono ospiti nella propria magione. In realtà non sono sposati e vivono qui per sei mesi all’anno, ritornando a Rarotonga durante la stagione degli uragani. Vivono qui senza ospedali, senza supermercati e con scarse notizie relative al mondo esterno. Non hanno internet, solo una grossa antenna radio in mezzo al cortile. Ci timbreranno i passaporti alla partenza, per adesso vogliono solo sapere se abbiamo mercanzie da dichiarare. Qualche sigaretta, due o tre birre, un goccetto di rum e un geco. Ci guardano perplessi, ma abbiamo davvero un geco a bordo, l’ho trovato stamattina su un divano. Gli ho levato di dosso due dozzine di piccoli acari parassiti e al momento è in quarantena in una scatola. Come immaginavo non è possibile rilasciarlo da nessuna parte, deve restare a bordo. Che cosa ci facciamo, lo alleviamo in cattività? Con quale cibo?
Chris e Teina ci informano che siamo nel parco nazionale delle Cook Settentrionali, che è aperto solo dall’alba al tramonto e non ci si può allontanare dall’isola Anchorage. Dopo le sette dobbiamo ritornare in barca e in mare è vietata la pesca con la fiocina, perché attira gli squali. Per lo stesso motivo è vietato anche dar da mangiare ai pesci, per non insegnare agli squali che dove c’è uomo, c’è cibo. Per quanto ne so io, nel mar Mediterraneo non si registrano attacchi di squali da tempo immemorabile, ma qui forse è diverso e sono curioso. “È solo una misura precauzionale o ci sono stati degli incidenti con gli squali?”, chiedo.
“Succede, a volte” risponde Chris, lapidario.
“Ah, cioè quando è stato l’ultimo attacco?”
“È successo quattro settimane fa, quando un tizio che faceva pesca subacquea è stato morso a un orecchio.” Ovviamente l’orecchio è rimasto in bocca allo squalo e il malcapitato pescatore è stato fortunato. L’ospedale più vicino si trova a Rarotonga, a cinquecento miglia da qui.
L’ultimo argomento di discussione riguarda la nostra permanenza, perché abbiamo letteralmente le ore contate, tre giorni al massimo. In virtù delle condizioni di salute di Charlotte, ci viene concesso di restare fino al 31 ottobre, un giorno prima che i guardiaparco rientrino in aereo a Rarotonga. Non verrà nessuno a sostituirli, perché nella stagione degli uragani il parco è chiuso, da Novembre ad Aprile. Periodicamente passa una motonave a pattugliare gli atolli e la multa per i trasgressori è terribilmente salata. Questo significa che i disperati come noi non possono venire a rifugiarsi qui impunemente, a meno di poter dimostrare in tribunale che fuori dalla laguna infuriava un uragano.
Torniamo a bordo accompagnati di nuovo da Martin, che si ferma un attimo per fare due chiacchiere. “Quando siete partiti da Apia?” domanda Charlotte.
“Siamo partiti lunedì.”
“Ah, lunedì anche voi, il sedici?”
“No, lunedì scorso, ci abbiamo messo quattro giorni.”
Questa è proprio bella, scoppio a ridere e traduco la conversazione a Ernests, che resta sgomento. “Come quattro giorni, come?”
“Dicono che sono andati quasi dritti, hanno avuto vento da Sudest e poi addirittura da Nordest, più un po’ di bonaccia in cui sono andati a motore, come noi.” Nel frattempo, le mie risate hanno già causato irritazione nel capitano sbagliato, che borbotta “Di questo ne parliamo dopo.” La situazione è comica, ma non vuol dire che provi invidia per i nostri amici a due scafi. Io sto attraversando il Pacifico per imparare il più possibile e questi undici giorni sono stati una rivoluzione. Se ci trovassimo di nuovo ad Apia a scegliere dove imbarcarci, io salirei di nuovo su Valiant, non c’è dubbio. Mastro Ernests sicuramente invece non salirebbe su Valiant, è da stamattina che lui e il capitano non si rivolgono la parola.
Facciamo un brindisi a questo traguardo intermedio, celebrando con alcune delle birre di bordo. Appena Valiant è relativamente in ordine siamo liberi di scendere a terra, perciò Lord Asparagus e io gonfiamo in fretta il canotto e leviamo il disturbo. In quattro pagaiate siamo a terra e ci incamminiamo intorno all’isola, in esplorazione. La biodiversità non sembra essere molto variegata, Anchorage rispetta perfettamente il cliché dell’isola di sabbia coperta di palme da cocco. Ciononostante, l’ecologo sa bene che le forme di vita che popolano questo angolo di mondo meritano tutto il nostro rispetto e anche un po’ di compassione. Suwarrow è un’isola che non è mai stata connessa alla terraferma, è emersa dalle profondità dell’oceano sottoforma di lava incandescente e sterile. Ne consegue che ogni singola forma di vita che vediamo qui ha dovuto affrontare una traversata ben peggiore della nostra, alla deriva nell’oceano senza speranza di rivedere mai più la terraferma. L’unica eccezione forse sono le zanzare tigre, che probabilmente hanno viaggiato comodamente in barca, come fanno i ratti, le formiche e le altre bestiacce introdotte a causa dell’uomo. Tentati dalla sovrabbondanza di cocchi, non possiamo esimerci dall’assaggiarne quattro o cinque, verdi e rinfrescanti. Seduti all’ombra su grossi frammenti di corallo, sorseggiamo la nostra bibita frizzantina. Sono ancora sconvolto, non posso credere di essere davvero alle Cook, quelle stesse isole Cook di cui ho sentito raccontare sin da bambino. Adesso manca solo mia sorella, che a dirla tutta non ha mai visto una barriera corallina.
“Si può sapere che cosa è successo stamattina, da indispettire così tanto Charlotte?” Non riesco neanche a immaginare un Ernests di malumore, ma stamattina è successo davvero.
“È che non so mai come svegliarla, ultimamente darle il buongiorno era diventato difficoltoso. Lo sai come fa, cerca il minimo pretesto per prorompere in uno scroscio di volgarità per i pantaloni che si incastrano nelle dita dei piedi o per la cerniera lampo che si inceppa.” Per chi non c’era a bordo, quella cerniera maltrattata è già rotta da un mese, è ovvio che si inceppa. “Poi quando ha finito sbatte i vestiti in pozzetto, uno a uno come se dovesse prendere il tambuccio a frustate.” Lo so bene come fa, capisco. Quando ripartiremo possiamo invertire i turni, ci penso io a svegliarla. Il problema non è solo questo, ma non è ancora il momento di parlarne. Ernests è intento ad aprire un cocco nella sua maniera brutale, ma oggi ha deciso di tagliare via una calotta e picchiare la scorza su un sasso. Mi invita a provare e la mia risposta istintiva sarebbe decisamente un no, il metodo non mi piace. Poi mi ricordo della mia tremenda testardaggine, che ha portato all’esasperazione addirittura mio papà. L’equipaggio di Valiant vive a stretto contatto con la testardaggine, così ormai ho capito che effetto fa e bisogna assolutamente porre rimedio. Afferro un cocco e maciullo la scorza su una pietra, come il primo essere umano che ha visto un cocco centinaia di migliaia di anni fa. In effetti funziona.
Dopo tutti questi cocchi la natura chiama, così Ernests si inoltra tra le palme per una pisciatina. “Palla, qui c’è un granchio del cocco! Lì ce n’è un altro ancora più grosso.” Incredulo, corro a vedere. Sul terreno, seminascosti tra le foglie, ci sono dei crostacei blu grossi come le noci di cocco da cui prendono il nome. Da quando abbiamo lasciato Vanua Levu nelle Fiji avevo rinunciato a vedere uno di questi bestioni, men che meno mi aspettavo di trovarli su questo bruscolino di sabbia in mezzo all’oceano. Il primo granchio del cocco ad essere approdato qui deve aver creduto di essere in paradiso. Ernests infatti deve sapere che i granchi del cocco non solo vivono all’ombra delle palme, ma i cocchi sono la loro principale fonte di cibo. Le chele poderose di questi bestioni possono staccare le noci di cocco dalla palma, aprirle e spolparle. Servono ore per aprire una noce, ma all’interno ci sono così tante calorie che me vale la pena. I granchi del cocco sono commestibili, per questo non li abbiamo mai visti alle Fiji. Chi apprezza i video divulgativi di Barbascura sa già tutto su Alfonso il granchio del cocco, non c’è bisogno di fornire ulteriori dettagli. Per chi non apprezza la divulgazione comica di Barbascura, basti sapere che il granchio del cocco, anche noto come birgo ladro, è il più grande artropode terrestre vivente e da adulto pesa due chili e mezzo. Malgrado il nome, non è un granchio, ma un paguro senza conchiglia. Non esistono più molluschi marini abbastanza grossi da fornirgli una casa a chiocciola, così si scavano la tana sottoterra. Il granchio del cocco più grosso, registrato tra i Guinness World Records era 4,5 chili, largo un metro dalla punta dei piedi alla punta degli altri piedi. Non diventano grossi così dalla sera alla mattina, impiegano più di cinquant’anni e non si sa quanto siano longevi. Ma come fanno a tranciare la scorza dei cocchi? Semplice, hanno sviluppato una forza disumana nelle chele. Un granchio adulto può pinzare gli oggetti con una forza di 1800-3300 N, mentre il morso di un uomo arriva appena a 1100-1300 N.
Proseguiamo l’esplorazione del perimetro dell’isola, ma al calar del sole siamo ancora a metà strada. Prendiamo la scorciatoia attraverso il giardino dei guardiaparco, fino al nostro canotto. Restiamo in spiaggia a guardare la laguna fino a quando arriva Chris a mandarci via, perché ormai è notte.
Montiamo sul canotto, lasciandoci trascinare verso Valiant dalla brezza del Nord. La luna sta spuntando da dietro le palme, rischiarando le acque piatte della laguna, vagamente increspate dal vento. Ci perdiamo in chiacchiere, tanto si sente da qui che Valiant è diventata una discoteca. La musica sparata in cabina a 80 decibel non fa per noi, che facciamo? Ci sdraiarmo di nuovo sulla falchetta del canotto gonfiabile e proseguiamo il viaggio verso l’ignoto. Finalmente mastro Ernests vuota il sacco, il suo malumore non ha avuto origine stanotte, di punto in bianco. Specialmente durante questa traversata, avere un capitano meteoropatico è diventato faticoso. Si ride e si scherza quando il viaggio procede bene, ma si perde l’autocontrollo quando le cose vanno male. Non è solo questo che disturba il mio compare, il buon Ernests è indispettito per come è stato trattato, ma soprattutto per come sono stato trattato io. È interessante e anche nobile da parte sua, ma d’altra parte è un lord. In effetti ho riflettuto anch’io su questi episodi, in particolare ieri l’altro quando siamo partiti a motore verso Est per spaccare tutto. Poco dopo abbiamo deciso di raggiungere un porto sicuro e tutto si è calmato, ma tra le Marchesi e Panama non ci sarà altro che acqua. (Le Galapagos sono fuori discussione, per arrivarci via mare serve una montagna di documenti.) È solo questo che mi preoccupa, ma anche Ernests mi conferma che Charlotte sia del tutto innocua per gli altri esseri umani, probabilmente anche per gli animali, esclusi scarafaggi e scolopendre.
È tutto ciò che volevo sentirmi dire, del resto non mi importa. Per correttezza, prima di lasciare la Nuova Zelanda Charlotte ha dichiarato che avrebbe gridato e pestato i piedi, se necessario. Qualsiasi cosa avesse detto non la pensa sul serio e non è niente di personale. È una scusa geniale per avere totale libertà di parola, ben più che a terra. Perciò non ci possiamo lamentare, è una delle clausole del contratto. A volte servono alcune ore di timone per mandare giù certi episodi, come quando ho preso quell’onda, oppure bisogna dormirci sopra, come quando una notte ci siamo sentiti dare degli incapaci. Ogni volta che veniamo presi in mezzo dalla sventagliata di insulti, basta ricordarsi che fa tutto parte della recita, è tutta una farsa “per tenervi carichi”. A onor del vero, se mai c’è qualche problema serio Charlotte lo affronta in maniera molto diversa, l’ho provato sulla mia pelle. Durante gli ultimi giorni per mare, una notte mi sono domandato seriamente se continuare oltre Tahiti. Charlotte non farebbe mai del male a nessuno, la sua è tutta violenza verbale non premeditata. Sentirlo confermare da mastro Ernests, “che è un tipo sveglio”, mi basta. Inoltre, considerando quanto ho imparato fino qui, sarebbe una pazzia lasciar perdere prima della tappa della traversata che mi interessa più di tutte. Volevo sapere che effetto fa restare in mare per lungo tempo e forse mi caverò la voglia. Lo dico, ma in realtà non ci credo affatto. Lord Asparagus, per il motivo opposto, è grato di aver già annunciato che scenderà a Tahiti. Da Papeete a Panama infatti c’è più acqua di quella che solcò Ulisse in dieci anni. Non vedo l’ora.
Accorgendoci dell’ora tarda, ci rialziamo a sedere per capire dove siamo. Scoppiamo a ridere, siamo ad almeno due chilometri dalla barca. Nel corso delle nostre chiacchiere, la luna ha percorso già molta strada, sono passate due o tre ore da quando abbiamo lasciato la spiaggia. Si vede ancora l’isola Anchorage, ma dovremo sgobbare per raggiungerla. Una pagaia a testa, iniziamo a vogare con costanza, ma senza fretta.
Abbordiamo Valiant un’ora più tardi, salendo a bordo con circospezione. È tutto tranquillo, la musica si è spenta e Charlotte non è in pensiero per noi vagabondi, dorme beatamente in pozzetto. Adora quel posto, piazza il materasso di traverso in modo da ostruire il tambuccio e poi crolla addormentata, dopo ogni tappa è sempre stanca morta. Durante la giornata ho deciso che l’unico modo per occuparci del geco è rilasciarlo a bordo. Non abbiamo alcun modo di allevarlo, non ho neanche la minima idea di che specie di geco sia. È pelle e ossa, ma a bordo siamo invasi dai moscerini, forse se la caverà. Non avendo alcun documento, probabilmente non scenderà mai da questa nave, così ho pensato di chiamarlo Danny, come Danny Boodman T. D. Lemon Novecento, il famoso pianista. A proposito, dovrei fare vedere il film ai miei compagni di ventura, appena raggiungiamo la terraferma.
La mattina seguente, portiamo i letti sul ponte ad asciugare. Le lenzuola e i cuscini sono intrisi di acqua salata e hanno già qualche macchiolina di muffa. Il mio coprimaterasso è nero, quindi è immune ai puntini di muffa. È possibile asciugare al sole il mio letto, si forma un grande alone bianco sul tessuto, ma ritorna bagnato come prima appena aumenta l’umidità nell’aria. Se restano all’ombra della cuccetta, i letti non si asciugano mai, neanche nelle giornate di sole. Che colori che ha la laguna, anche oggi le acque turchesi brillano al sole.
Terminate le pulizie, mi tuffo a guardare sott’acqua con la maschera. L’acqua è trasparente come il vetro, segno che non c’è neanche la più minuscola particella di plancton a intralciare la vista. Rispetto agli altri mari, qui il paesaggio circostante è così nitido che sembra che qualcuno abbia aumentato la risoluzione dell’immagine. È come nei televisori nuovi, dove la risoluzione smisurata fa staccare i personaggi dallo sfondo, come se fossero veri. È stupefacente, riesco quasi a contare i polipi dei coralli, uno a uno.
La biodiversità sottomarina è molto ridotta rispetto a quella delle Fiji, a causa dello stesso processo che limita la biodiversità terrestre. Per arrivare fino a qui, un pesce pagliaccio dovrebbe attraversare centinaia di miglia nautiche di abissi marini, dove non c’è alcun anemone in cui ripararsi. Un’alga galleggiante può bastare come zattera, ma non è detto che arrivi mai da qualche parte. Inoltre le risorse di quest’isola sono limitate, la biodiversità non può raggiungere i livelli delle Fiji perché non c’è abbastanza cibo né spazio per tutte quelle specie. Per esempio, non ho ancora visto neanche un pesce pagliaccio. Anche la quantità di pesci mi sembra inferiore, forse per via dell’acqua calda cristallina, cioè povera di ossigeno e di nutrienti.
Coralli, tridacne, policheti piumati, stelle marine, cetrioli di mare, tutti hanno inviato fin qui almeno un rappresentante. Poi ci sono dei meravigliosi pesci pappagallo verdi e blu, pesci chirurgo neri, arancioni e bianchi, pesci balestra ricoperti di arabeschi intricati, pesci palla giallo polenta e tanti altri ancora. A prima vista sembrano forme già viste, ma di sicuro i colori sono tutti diversi. Vivendo qui da lungo tempo, questo reame isolato deve avere sviluppato una moda indipendente, dei gusti nel vestire ideati dagli stilisti locali.
Pensa te, sono capitato alle Cook! Ora capisco perché questi mari sono rimasti impressi a fuoco nella memoria della mamma, che prima del viaggio di nozze non aveva mai indossato una maschera da sub per osservare la vita sottomarina. Anche il papà ha apprezzato, ma la mamma è rimasta folgorata. Ecco là sotto un pesce affusolato, lungo quasi una spanna, con il corpo blu-verde e la testa decorata di complessi disegni arancioni e turchesi. Ogni volta che si fa snorkeling nel Mediterraneo, il pesce preferito della mamma è certamente la donzella pavonina, per il motivo che “Assomiglia a quel pesce che c’era alle Cook”. Ora che ce l’ho davanti, la somiglianza è lampante. La specie mediterranea si chiama donzella pavonina (Thalassoma pavo), mentre questa dovrebbe chiamarsi donzella gialla (Thalassoma lutescens).
Senza incontrare altri squali, ritorno a bordo in tempo per il pranzo. Speravo di poter rilevare la latitudine dell’isola con il sestante, ma devo aver mancato il mezzogiorno locale, il sole sta già calando.