Lezione di ieri: nelle lunghe traversate è importantissimo risparmiare le energie.
Venerdì 27/10/2023 Oceano Pacifico (Isole Cook)
Dopo il groppo, ci troviamo in bonaccia. Charlotte coglie l’occasione per improvvisare un sistema di raccolta dell’acqua piovana, che ci permette di rimpinguare le scorte con una decina di litri. Dopo dieci giorni non abbiamo ancora finito il primo serbatoio, appena centoventi litri d’acqua dolce.
Durante il diluvio, il capitano ha approfittato per fare una doccia, così adesso è fresca come una rosa, sembra che questa mattina non sia successo niente. È addirittura dell’umore giusto per scherzare, finalmente ha accettato la realtà che non siamo noi a dettare le regole del gioco. Mentre siamo tutti e tre in pozzetto, il capitano ha bisogno di risposte. “È da almeno una settimana che vi sento parlottare, e quando mi avvicino vi zittite all’improvviso. Non so di che cosa si tratti, ma non mi sembra corretto.” Prendo la parola a nome di tutti e due, perché a me sembra corretto, anche se scortese. È da molti giorni che Charlotte non è dell’umore giusto per ascoltare le nostre facezie, che vengono puntualmente fraintese. Molto spesso parliamo delle previsioni sulla data di arrivo, ma non possiamo dire a voce alta che di questo passo arriveremo tra un mese, ridendo a crepapelle. Altre volte parliamo di lei, che non si riguarda e continua a farsi del male. Oppure parliamo delle scelte di rotta e di gestione della barca, non certo per criticarle, ma per comprenderle. Non ci crede e mi ha già frainteso, appunto. “Poiché noi due non abbiamo un briciolo di esperienza, diamo per assunto che le tue decisioni siano giuste. Chiederei volentieri spiegazioni, ma non sei quasi mai dell’umore giusto per insegnare.” C’è anche una minima parte di pure critiche alle decisioni di bordo, ma è veramente minima e possiamo sicuramente ignorarla. Charlotte è molto rincuorata, specialmente dalla prima parte sulle battute sceme: “Non capisco mai quando è che voi due scherzate e quando fate sul serio.”
“Se per caso quello che diciamo suona strano, in generale si può assumere che sia uno scherzo. Per quanto riguarda quello di cui parliamo tra noi, Ernests e io, non c’è mai niente di serio, proprio niente. Se proprio abbiamo qualcosa di serio da comunicare, troveremo il modo di dirlo in maniera divertente.”
Inizio il nuovo turno con serenità, nonostante i groppi continuino a tormentare la nostra rotta. Le onde sono calate di un metro rispetto a ieri, navigare è una passeggiata, anche se il vento medio è 26 nodi, che salgono a 37 sotto raffica. Ogni tanto Ernests e io ripensiamo a quella prima notte di traversata verso le Fiji, quando ci eravamo impressionati per una raffica a 27 nodi. Oramai non ci facciamo neanche caso, trentacinque nodi di vento sono del tutto nella norma.
Nel primo pomeriggio il vento si dimezza e l’oceano si spiana, abbiamo a malapena un metro d’onda. Manca mezza giornata di navigazione da qui a Suwarrow, presto arriveremo. C’è solo un problema, decisamente grave: Luigi non ha la cartografia dettagliata dell’atollo. Evidentemente non è stata installata la mappa dettagliata di questa zona del Pacifico, quindi sulla carta digitale vediamo solo una macchia gialla, che dovrebbe rappresentare l’atollo. Senza una cartografia precisa, non abbiamo idea di dove sia l’ingresso della laguna, che ha un perimetro di quaranta miglia. Per fortuna, quando eravamo alle Samoa, Charlotte ha cercato Suwarrow su Google maps. Il suo telefono ha salvato in automatico l’immagine satellitare, da cui si vede chiaramente dov’è il passaggio tra i coralli. Il problema è che non è affatto convinta della bontà della posizione GPS indicata da Google, così mi incarico di confrontare la posizione indicata da Google maps e da Organic maps, l’applicazione di mappe offline che mi ha guidato durante questo viaggio. Le posizioni coincidono perfettamente, indicando che la carta digitale di Luigi è completamente sbagliata. La macchia gialla di Suwarrow si trova dieci miglia a Sud della sua posizione reale, che di notte è pericolosissimo. Uno potrebbe navigare a dieci miglia di distanza dai coralli, per sicurezza, e invece andare a scogli e naufragare. Noi siamo stati fortunati, meglio così.
La notte è quieta e piena di stelle, riesco addirittura a fare il punto nave. Sono giorni che rimando le osservazioni, perché Charlotte lo considera pericoloso e anche l’oceano si oppone con fierezza. In questi giorni ho ripensato spesso alla storia rocambolesca di Ernest Shackleton e tre suoi marinai, che riuscirono a navigare dall’Antartide alla Georgia del Sud esclusivamente grazie alla navigazione celeste. Nel documentario su Shackleton, Alberto Angela precisava che, per fare il punto nave in quel mare tempestoso, un marinaio doveva stare sulle spalle di un altro con il sestante in mano. Non ho mai capito la ragione di questa acrobazia, fino a ieri. Bisogna sapere che, più le onde sono alte, più diventa difficile vedere l’orizzonte, che è fondamentale per rilevare l’altezza degli astri. Per me è difficile fare il punto nave comodamente seduto su un winch, con appena tre metri d’onda. Per essere costretti a fare una torre umana, quei figli di un demonio dovevano trovarsi in condizioni di mare atroci, con almeno quattro metri d’onda. Per fare il punto nave in bilico su una torre umana appoggiata ad una scialuppa sballottata dai flutti bisogna stringere un patto con il diavolo in persona.
Durante la notte ci godiamo la quiete, mentre scivoliamo dolcemente verso Nord. Bisogna soltanto fare attenzione allo strappo dello yankee, che continua a peggiorare. Alle prime luci dell’alba, lo strappo si è allungato parecchio, è già un terzo della larghezza della vela. Bisogna riavvolgere buona parte dello yankee e issare la trinchetta (che finora ho chiamato controfiocco, ma si chiama trinchetta). La trinchetta è una piccola vela di tessuto leggerissimo, facilissima da issare. La prepariamo e in pochi minuti è issata e a segno. Finita la manovra controlliamo la vela, ed ecco un bello strappo vicino alla penna. Le crocette hanno mietuto un’altra vittima, bisogna coprirle il prima possibile. Per il momento lo strappo non sembra grave, così procediamo ancora per qualche ora, in attesa di avvistare l’isola.
Oggi il cielo è sereno, eccellente per rinfrancare lo spirito e per ricaricare le batterie con i pannelli fotovoltaici invece del motore. L’unica a non essere rinfrancata è Charlotte, che continua a sfornare battute sarcastiche sul modo in cui Ernests l’ha svegliata. A quanto dice, stamattina Ernests le ha dato il buongiorno con un burbero “Charlotte, sveglia!”
Lungo la via, facciamo una deviazione verso la posizione dell’isola indicata da Luigi, che è clamorosamente sbagliata. Solo acqua blu e nessuna terra emersa in vista, bisogna pazientare.
A metà del mio turno, a undici miglia dall’atollo, metto in pratica quel poco di lèttone che ho imparato. Un respiro profondo e poi un grido liberatorio, uno, due, tre: “Zeme! Zemeeee!” Per un attimo dalla cresta di un’onda, ho visto una fila di setole grigie sull’orizzonte.(Zeme si pronuncia con la s di casa) Le setole sono le palme dell’isola e undici miglia devono essere la distanza massima dalla quale si possono scorgere. In questi mesi ci siamo chiesti spesso quanto fosse pronunciata la curvatura terrestre, così abbiamo una prima risposta. In realtà per stimare il valore corretto dovremmo osservare un oggetto vicino alla superficie dell’acqua, non delle palme di venti metri.
Sentendomi gridare come un pazzo, Charlotte sale in coperta, per cercare di capire che cosa succede. “Terra, capitano, a dritta di prua.” La sua iniziale preoccupazione lascia il posto a un sorriso. “Dannazione,” sbotta, “sembra che tu non abbia visto la terra da sei mesi!”
Siamo ancora distanti, sospinti da un leggero venticello che ha pietà delle nostre vele malconce. Sembra che l’oceano abbia deciso di lasciarci andare per la nostra strada.
Alle nove, a cinque miglia dall’atollo, accendiamo il motore e ammainaiamo tutte le vele. La presenza di coralli all’orizzonte mette sempre a disagio il capitano, che preferisce navigare a motore. Ci aspettano ancora molte ore di navigazione, che porteranno la fine del carburante sempre più vicina.
Nonostante abbiamo a disposizione l’immagine satellitare della laguna, Charlotte preferisce trovare il passaggio alla vecchia maniera. Inforca gli occhiali da sole e si piazza al timone, guardando in cagnesco i maleficentissimi coralli che difendono l’atollo.
Ernests e io siamo seduti a prua, in attesa di ordini. Da ore riceviamo le visite degli uccelli dell’isola, incuriositi dal nostro arrivo. Arrivano alla spicciolata, poi a dozzine, per darci il benvenuto in questo angolo remoto del pianeta. Siamo a un miglio dalla barriera corallina, che non è bianca come il calcare, ma per qualche motivo è colorata di rosso. Si intravedono già le acque della laguna, che hanno proprio il colore delle foto sulle cartoline. Tra noi e i coralli, invece, c’è solo un profondissimo blu oceanico che, secondo la nostra carta inaffidabile, misura almeno un chilometro.
Inizio della rubrica dell’ecologo:
Gli atolli corallini, infatti, hanno pareti ripidissime, quasi verticali, perché sono di origine vulcanica. In tempi remoti, un vulcano sottomarino deve avere costruito un cono alto fino alla superficie, per poi infine emergere. Sott’acqua la gravità è compensata dalla spinta di Archimede, inoltre il materiale eruttato solidifica più in fretta e a grande profondità l’erosione è piuttosto scarsa. Questo fa sì che i vulcani sottomarini crescano molto più slanciati e colonnari rispetto ai vulcani terrestri. Molti millenni più tardi, il vulcano si spegne e inizia lentamente a sprofondare, ad un ritmo di pochi millimetri all’anno. Nel frattempo si forma un anello di barriera corallina tutto intorno, che continua a crescere in altezza. Se i coralli tengono il passo con la subsidenza dell’isola, alla fine resta soltanto un anello di coralli e qualche banco di sabbia. È impressionante immaginare tutti quei metri verticali di calcare siano stati costruiti dai coralli per tenere a galla l’atollo, che altrimenti si sarebbe inabissato già da tempo.
Queste poche nozioni di geologia le devo prevalentemente a Jules Verne, che le insegna in “20.000 leghe sotto i mari”. Dopo centocinquanta anni di progresso scientifico, forse la spiegazione del professor Aronnax va un po’ aggiornata, ma è affascinante pensare che sotto la superficie dell’acqua ci sia una colonna di calcare madreporico che sprofonda per centinaia di metri, appoggiata sul vecchio cono vulcanico. La descrivo così a Ernests, nella mia versione preferita.
Fine della rubrica dell’ecologo
La radio improvvisamente inizia a gracchiare qualcosa, c’è un’altro veliero in arrivo all’atollo. L’uomo che parla alla radio ha un leggero accento francese e sta avvisando del proprio arrivo i due ranger a guardia dell’isola. Sembra che, da un giorno all’altro, quadruplicheremo la popolazione residente.
Mentre aggiriamo i coralli, avvistiamo una massa bruna e frastagliata che emerge dai coralli. Charlotte lo riconosce subito, è il relitto di una nave d’acciaio, ormai distrutto dalle intemperie. I resti di un naufragio non contribuiscono affatto a tranquillizzarla mentre cerca di contattare i guardiaparco di Suwarrow.
Quando ormai siamo vicinissimi, riceviamo conferma della posizione del canale di ingresso e della sua profondità. Al centro del canale ci sono undici metri d’acqua, ci passiamo.