Lezione di ieri: avere un telefono con una SIM all’interno, facilita le ricerche in caso di smarrimento.
Martedì 22/08/2023 Port Denarau (Fiji)
Al marina hanno il braccino molto corto, anche se il contante ceduto viene messo sul conto di Charlotte. Riesco a scucire 25 dollari, che non bastano affatto a comprare una SIM. Ormai il tempo stringe, così invece che aspettare l’autobus per Nadi, mi incammino lungo la via. Magari riesco a fare l’autostop e ad evitare le mille fermate tra qui e la città. L’aiuto mi arriva da un uomo che aspetta a bordo strada, che ferma un taxi e mi invita a salire. Si chiama George (credo), lavora nel piazzale del marina ed è diretto al proprio paese, in direzione Lautoka. Così andiamo a Nadi e insieme prendiamo il primo autobus verso Nord. Non ho modo di controllare dove siamo e ieri lungo la strada ho dormito. Per fortuna mi ricordo almeno dove siamo scesi. Per prenotare la fermata, bisogna tirare una cordicella appesa sopra i finestrini laterali, che è collegata ad un campanello da bicicletta installato vicino all’autista. Una elegante alternativa ottocentesca ai moderni pulsanti elettrici. Da dove sono sceso alla casa di Suva e Miri ci sono meno di due chilometri. Se corro dovrei arrivare in tempo. Alle 12:52 piombo in casa dei miei ospiti di ieri, cercando di spiegare in fretta qual è la mia missione qui. È bene che Miri venga con me, per stare in ascolto nei pressi di un’altra casa vicina. Ieri abbiamo ipotizzato che qualcuno dei vicini possa aver trovato il mio cellulare disperso lungo la strada carraia.
Arriva l’una e anche l’una e dieci, ma non sento proprio niente. Torniamo a casa, cercando di nuovo nel giardino. Miri mi riferisce che la vicina di casa è sicura di aver visto il telefono accanto a me sul prato, poco prima che ci sedessimo in casa a pranzare. “Ora, dico io, se il telefono era con me nel prato e qui non c’era più, come ha fatto a sparire?” Se ha ragione la vicina, qualcuno di loro lo ha preso, forse Suva che ieri era seduto dietro di me. Odio essere arrivato a questo punto, ma non so più che cosa pensare. Miri mi risponde che forse il motivo è che quando siamo arrivati nel paese non abbiamo fatto il sevusevu, la cerimonia tradizionale di benvenuto. Capita a volte che gli antenati si indignino e facciano sparire qualcosa, se le tradizioni non vengono rispettate. Così mi ha risposto, e non so proprio più che cosa pensare. Resto in casa a riflettere mentre mi offrono da bere, per compensare la sudata. Io berrei dell’acqua, ma non c’è modo di ottenerla. O il tè, o il concentrato al sapore di frutta, l’acqua è vietata. Vada per il tè.
Per risparmiare, il tè si prepara versando l’acqua bollente sulle foglie già usate di tè, che colorano vagamente l’acqua. Il risultato è un intruglio che non sa di niente, poco più che acqua sporca. Almeno è stata bollita, quindi è più sicura da bere. Per dare un senso a questo tè insipido si aggiunge un generoso cucchiaio di zucchero di canna e qualche biscotto spezzettato. Questi biscotti quadrati si comprano al supermercato dentro a dei secchi di plastica e sono poco più che acqua e farina. La parte più utile è il secchio, che viene conservato e riutilizzato.
Invece che stare seduto composto a gambe incrociate, come ieri, sono a sedere sul tappeto con le ginocchia raccolte. Sapendo di apparire ridicolo, bisogna che spieghi il motivo. “I pantaloni vecchi che ho addosso sono scuciti sotto il cavallo. Stamattina mi hanno piantato in asso senza mutande, e quindi non ho avuto altra scelta che venire così, tarengalem style. Se sto seduto nel modo giusto non si vede niente.” Scoppiamo tutti a ridere, mentre Suva va a prendere in camera da letto un costume da bagno azzurro, così che almeno possa stare seduto comodo. Altre risate. Lo ringrazio molto, ha già migliorato la giornata.
Ora che l’ho cercato in lungo e in largo, il telefono è ufficialmente perduto e bisogna fare la denuncia alla polizia. Miri e sua cugina mi accompagnano alla stazione di polizia di Natova, dove si ripete la procedura senza speranza di Jayapura, quando ho perso il telefono in Indonesia. La differenza è che, mentre in Indonesia sono disponibili i computer per rintracciare i telefono smarriti, qui alle Fiji l’unico ufficio con una tecnologia così avveniristica è la stazione centrale di Suva. Con tutta la buona volontà del mondo, mi spiega con rammarico il detective Jolane (si legge circa Solàn), ci vorranno mesi per avere la disponibilità della stazione centrale a cercare questo telefono. La stazione di polizia è verniciata di fresco, ma è poco più che una baracca di legno, con dietro gli alloggi in muratura e qualche ufficio per i poliziotti, immagino. Perciò lo squarcio enorme sul davanti della maglietta del detective Jolane non mi turba affatto, si intona all’ambiente. Mi consegna un pezzo di carta con la copia provvisoria della denuncia, scritta a mano su un registro cartaceo. Servirà qualche giorno per inserirla nel computer.
Per tornare a casa prendiamo un taxi e Abdulla, il tassista, decide di accompagnarmi fino alla fermata dell’autobus. Mi chiede di indicargli la casa di Miri e infatti i suoi sospetti sono confermati. “Sai, baba, credo che tu sia capitato nella casa sbagliata.” Mi chiama baba perché è di origini indiane. “Quella casa lì non è famosa per essere la casa di gente per bene.”
Non riesco a farmi spiegare che cosa intende, né che cosa sa sul loro conto. Abdulla si limita a raccontare di essere il figlio del commissario di polizia di Lautoka e di avere lavorato a sua volta nella polizia. Non so perché abbia deciso di lasciar perdere e fare il tassista, ma prendo nota della sua opinione. In fondo lui non ci guadagna niente. Per qualche motivo cambia discorso e si mette a parlare delle ragazze figiane, di come sedurle e accarezzarle tra le gambe. Per completare la spiegazione, invece delle ragazze figiane accarezza il sottoscritto. “Ora ho capito il motivo, non farlo mai più.” Sembra aver capito, lascia perdere e ci salutiamo perché ormai è buio e devo prendere l’autobus.
Salgo sullo stesso autobus dell’andata, guidato dallo stesso autista dell’andata. Scendo al bivio per Port Denarau, ho deciso di tornare a piedi. È un po’ di giorni che voglio fare due passi e camminare fa bene, specialmente in certi stati d’animo. A metà strada mi si rompe una ciabatta, così cammino sulla riga bianca, dove posso vedere a chiaro di luna quello che calpesto. Almeno raccolgo qualche noce di cocco lungo la via, invece che tornare del tutto a mani vuote. Ora ho qualche domanda da fare all’equipaggio.
Alla fine delle spiegazioni, ho capito che cosa è successo, riflettendo ho indovinato. Quando ho lasciato la barca a bordo c’era il caos, perché Charlotte è partita in tromba per partire più in fretta possibile. Nella concitazione spasmodica della partenza, Lord Asparagus ha avuto due minuti esatti per andare in bagno a lavare un secchio, è comprensibile che fosse di corsa. Ha riferito che avevo detto di essere in bagno, così il capitano ha telefonato all’ufficio del marina. Io ero in piedi letteralmente di fronte all’ufficio, ma evidentemente la segreteria è cieca. Così hanno pensato che fossi andato a cercare il telefono, senza scarpe, senza carta di credito, senza soldi e soprattutto senza avvisare.
Melrose mi vede dalla terrazza del ristorante e mi invita ad accomodarmi di sopra, dove il wifi prende bene. Mi chiede subito com’è andata, ma rimandiamo i racconti a dopo mezzanotte, quando avrà finito di lavorare. Mi siedo in terrazza non distante da Charlotte, che è in videochiamata con un amico oltremare. Non mi ha notato, si sta lamentando ad alta voce che i suoi ragazzi si svegliano tardi e non alzano un dito se non hanno prima finito la colazione. Loro hanno vent’anni e invece lei che ne ha trentanove è fortissima perché si sveglia alle sei, non mangia niente e parte in quarta lavorando fino a notte. Dai discorsi che fa si direbbe che la birra accanto al suo computer non sia la prima della serata. Forse parla così perché c’è stato qualche problema stamattina, sarà meglio che lo riferisca agli altri.
Finalmente si accorge di me e mi saluta con il tono che usa la mamma quando torni a casa dopo mezzanotte. Dopo la giornata che ho passato non mi aspettavo proprio dei rimproveri, semmai delle scuse. In realtà capisco in fretta il motivo del suo tono. È l’unica che durante la giornata si sia preoccupata per me e nessuno si è preso il disturbo di spiegare l’equivoco di stamattina. Aver lasciato un membro dell’equipaggio letteralmente in braghe di tela ha tormentato la coscienza di Charlotte per tutto il giorno. La lezione è che non ci si può fidare di nessuno se non del capitano, lo terrò a mente. Risolta la questione, è ora di raccontare a Melrose la mia giornata. Non c’è molto che possa fare per me, a parte informarsi da fonti indipendenti riguardo a Suva e Miri, perché in fondo sono solo suoi conoscenti. Proprio mentre parliamo, Charlotte lascia la terrazza e ci raggiunge. Ha bisogno di parlare con me perché è preoccupata. Riconosce la mia voglia di aiutare, di imparare, e anche la mia iniziativa. Solo che lei passa le giornate a cercare di indovinare che cosa io stia tramando, a quale missione mi stia dedicando. Il problema è che ha ragione, molto spesso sono in cerca di una missione. Rivanghiamo ancora una volta quella storia di quando ho spuntato l’estremità di una cima che non andava tagliata. Poi rivanghiamo quell’episodio in mezzo al Pacifico, quando si è rotto il timone automatico e riparliamo anche di quello che è successo oggi. Charlotte tiene il conto di quante mancanze gravi commette ciascun marinaio. “Tu Palla sei a sette. Di solito i capitani ti caccerebbero via quando arrivi a tre, e tu ne hai sette!” Me lo spiega con un certo fervore, accentuato dalle birre. Per mia fortuna, Charlotte mi sta parlando di questo proprio per non dovermi scaricare da qualche parte. Il limite che si è data è diciotto, se arrivo a diciotto è finita. È in momenti come questi che mi fa piacere sapere che se Charlotte ha un problema con te, ti informa immediatamente. “Timoni molto bene, ma bisogna che io smetta di dovermi sempre preoccupare di che cosa ti frulla in testa, ne ho già troppe da pensare e non ti voglio perdere.” In effetti sono l’unico disposto a fare la traversata da Tahiti a Panama, tre settimane in mare.
Charlotte ama ripetere i concetti finché non ti si conficcano in testa, perciò ripetiamo molte volte il discorso. Sono fortunato ad essere ancora a bordo, e non ho nessuna intenzione di superare la mancanza numero diciassette, se riesco a rimandarla per altri tre mesi. Se facessi apposta sarebbe facile. È tanto il sollievo per essere ancora a bordo, che mi sta scedendo una lacrimuccia. Non davanti al capitano, accidenti! Eh niente, pazienza. “Guarda Ernests per esempio”, continua Charlotte, “Lui non sa niente di vela, eppure fa sempre quello che deve, è proprio un tipo sveglio.” Ho capito il concetto.
“Siamo intesi? Si va fino alla fine?”
“Fino ai Caraibi capitano!”
“Dammi un cinque!”
Fiiuf! Mentre mi allontano continuo a pensare di essere molto fortunato, nient’altro. Sette su diciotto. Ho ancora undici vite a disposizione, meglio non sprecarle. Ora mi aspetta una lunga notte, per scaricare e riconfigurare tutto ciò che manca al mio nuovo telefono vecchio. Vado a letto tardissimo.
L’indomani è il giorno della manutenzione serbatoio del gasolio. Invece di stressare Charlotte perché si faccia aiutare, imito i miei compagni di bordo. Me ne resto sul divano della dinette, a consultare il cellulare. Mi sento inutile come se fossi in albergo, ma in fondo il mio mestiere è solo essere disponibile. Osservo Charlotte al lavoro, come un omarello che guarda il cantiere. Non ho ancora capito perché voglia fare tutto da sola, non l’ha capito nessuno a bordo. Mi viene concesso di ripulire dalla schiuma di poliuretano il fondo dello scompartimento, costituito dalla robusta vetroresina dello scafo.